La Shoah nel Novecento
prof. Agostino Giovagnoli 

Abstract

 

 I Parte

            La Shoah non ha mai avuto un rapporto facile con le ricostruzioni storiche del novecento. All’interno di prospettive diverse e per motivi vari, talvolta persino opposti tra loro, tali ricostruzioni hanno spesso favorito una “rimozione” - più o meno estesa – della Shoah. Proprio per questo, la presenza e la qualità dei riferimenti alla Shoah costituiscono un test significativo, anche se non esaustivo, per valutare pregi e limiti delle varie “storie” del novecento.

            Tra le varie “difficoltà” incontrate dall’esigenza di inserire pienamente la Shoah nella storia del XX secolo, ne ricordo solo alcune.

1)      Le “resistenze interne”. E’ noto che, in collegamento con l’idea dell’unicità della Shoah, quest’ultima è stata spesso avvolta in una sfera di indicibilità e in particolare “difesa” dai tentativi di storicizzarla (Elie Wisel). In questo contesto, si colloca anche un particolare conflitto tra memoria e storia: solo i testimoni sarebbero legittimati a parlare della Shoah, mentre l’intervento degli storici comporterebbe banalizzazioni necessariamente inaccettabili Sebbene le preoccupazioni che ispirano tali atteggiamenti non siano prive di fondamenti, le loro conseguenze pongono problemi rilevanti e possono alla lunga risultare controproducenti. E’ evidente che la storia della Shoah non può essere una “storia qualunque”, ma rifiutare a priori di farne la storia significa inevitabilmente escludere le giovani generazioni, aree sociali sempre più estese, il mondo extraeuropeo dalla conoscenza di quest’evento. Da sola, tale conoscenza non è sufficiente per indurre un giusto atteggiamento, sul piano morale, di reazione e di mobilitazione di fronte alla Shoah, ma ne costituisce un presupposto.

2)      Una prima forma di rimozione dovuta a fattori “esterni” è, invece, rappresentata dal lungo silenzio che ha circondato la Shoah dopo il 1945 e che si è sciolto solo lentamente tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta. Com’è noto, tale silenzio è stato il frutto di fattori diversi. E’ stata spesso ricordata, a questo proposito, l’influenza di motivazioni politico-ideologiche indotte dalla guerra fredda, che ha rovesciato gli schieramenti emersi durante la seconda guerra mondiale, introducendo una profonda spaccatura nello schieramento antifascista. Quest’elemento però non ha costituito l’unica causa del “silenzio” che per decenni ha circondato la Shoah. Va ricordato, ad esempio, il delicato problema della “reticenza” dei sopravvissuti ad esternare la loro esperienza in un clima sociale refrattario ad ascoltarli. Indubbiamente, un certo disgelo è emerso con la “distensione” e con una sorta di “ritorno” del paradigma antifascista. L’antifascismo, però, non ha costituito, da solo, garanzia di un approccio pienamente soddisfacente alla Shoah: opere importanti ispirate dall’antifascismo non davano molto rilievo alla persecuzione nazista e fascista degli ebrei in Europa (Claudio Pavone). Sono note inoltre le resistenze che, all’interno di una cultura politica di sinistra, hanno a lungo impedito di affrontare in modo esplicito la “questione ebraica”. Insomma, l’antifascismo, pur costituendo un humus favorevole alla memoria e alla storia della Shoah non ne rappresenta una premessa sufficiente e talvolta può anche ostacolarle.

3)      Il problema “revisionismo”. Negli ultimi anni, da molte parti è stato denunciato il pericolo di “cancellare” la Shoah sotto la pressione di ricostruzioni revisionistiche della storia del novecento. Si tratta di allarmi non privi di fondamento. Tuttavia la “questione revisionismo” è particolarmente complessa e richiede varie specificazioni, a partire dai diversi significati attribuiti a questa parola: esistono, infatti, molte forme diverse e talora persino antitetiche di revisionismo. Particolare attenzione merita, ovviamente, la tendenza storiografica che si è affermata negli anni novanta, dopo la caduta del comunismo, e che con Renzo De Felice ha applicato a se stessa, in positivo, il termine revisionismo. Va però ricordato che spinte verso una “rimozione” della Shoah – o meglio al suo “occultamento” dentro una storia del novecento che lo consideri un fatto secondario – sono venute anche da visioni storiografiche di tendenza ideologicamente opposta, come quelle rappresentate da Erich Hobsbawm e Arno Mayer. Nell’insieme, sembra emergere una qualche “incompatibilità” tra Shoah e ricostruzioni del novecento in termini di “secolo breve” che va al di là dalle diverse chiavi ideologiche utilizzate in tale ricostruzioni. Viceversa, molto più compatibili con l’obiettivo di storicizzare la Shoah appaiono le ricostruzioni del novecento che valorizzano la cesura rappresentata dalla seconda guerra mondiale, non tanto nell’ottica della contrapposizione fascismo-antifascismo, ma come “grande evento epocale”.

4)      Un’altra denuncia ricorrente negli ultimi anni è che l’importanza della Shoah sia stata appannata da una sorta di “nevrosi comparativistica”, in particolare per quanto riguarda il confronto tra nazismo e comunismo. Le tesi di Ernst Nolte hanno destato in questo senso molte preoccupazioni. Tuttavia, anche a questo proposito, è necessario scendere in profondità. Un caso esemplare di comparazione storica tra nazismo e comunismo è rappresentato da Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt che certamente non può essere accusata di aver occultato o ridimensionato la persecuzione degli ebrei in Europa. La comparazione tra nazismo e comunismo non nuoce necessariamente ad una ricostruzione storica del novecento che riconosca pienamente alla Shoah tutta la sua importanza. Occorre però distinguere tra diverse forme di comparativismo, alcune delle quali sono incentrate sugli aspetti politico-ideologici e perciò tendono a marginalizzare i “crimini” commessi dalle varie forme di totalitarismo. E’ il caso di Nolte, il quale finisce, paradossalmente, per minimizzare non solo la violenza nazista ma anche quella stalinista. All’opposto, la Arendt costruisce tutta la sua interpretazione del totalitarismo a partire dalle forme di violenza utilizzate dai movimenti totalitari, mettendo così in primo piano l’evento Shoah senza trascurare altre forme di violenza del XX secolo.

 II parte

 Il dibattito sulla Shoah è entrato in una nuova fase dopo l’11 settembre 2001. L’attacco alle Twin Towers ha ad esempio risvegliato, negli ebrei di New York, “la memoria di un’altra conflagrazione che uccise su scala assai più grande”. Come ad Auschwitz, elementi dominanti di questa catastrofe sono stati il fuoco, la cenere, la gente dispersa, i corpi inceneriti: il paragone si è imposto spontaneamente e in molti anziani sopravvissuti sono tornati incubi che non li visitavano più da decenni.

            La frase tante volte ripetuta dopo l’11 settembre, “nulla può essere più come prima”, ha assunto anche una specifica valenza per quanto riguarda il mondo delle religioni e in particolare gli ebrei. Sono note le molteplici ripercussioni politiche di quegli eventi - e della lotta contro il terrorismo che ne è conseguita - sul conflitto israelo-palestinese, come i contraccolpi sui rapporti tra Stati Uniti e Israele, il tentativo di bin Laden di appropriarsi della causa palestinese, l’identificazione tra bin Laden e Arafat proposta da Sharon e così via. Esistono però anche conseguenze più profonde, che investono il rapporto tra l’Occidente e le religioni. In tale dibattito sono emerse tendenze diverse volte soprattutto a distinguere e contrapporre terrorismo e Islam e più in generale fedi e violenza, valorizzando viceversa gli elementi delle religioni in grado sia di rafforzare l’identità occidentale sia di favorire una pacifica convivenza multireligiosa. In particolare, si è sviluppata la spinta a contrastare - non sulla base di riferimenti laici ma in nome dei principi propri di ciascuna religione - le tendenze fondamentaliste presenti all’interno delle varie religioni.

Tale dibattito ha riguardato anche gli ebrei e in particolare Israele, considerata un pezzo di Occidente nei mondi arabo, islamico e non-occidentale e che perciò è stato sollecitato ad assumere orientamenti diversi o talora contrapposti, secondo le varie strategie di volta in volta ipotizzate per gestire i rapporti con questi mondi. E’, infatti, molto diverso se Israele deve costituire l’avamposto della forza occidentale che si oppone ad un blocco in cui è sempre più difficile distinguere tra palestinesi, musulmani, terroristi; o se invece devono essere contrastati gli aspetti aggressivi della sua politica che maggiormente provocano l’esasperazione palestinese e facilitano la formazione di un blocco di questo tipo, pericoloso per la sopravvivenza stessa di tutto l’Occidente. Tutto ciò ha finito per coinvolgere – indirettamente ma significativamente - anche il discorso sulla Shoah, inevitabilmente chiamata in causa ogni volta che si discute dell’identità stessa di Israele.

La discussione apertasi su questi temi negli Stati Uniti, è arrivata in Italia attraverso varie strade, tra cui il dibattito suscitato dall’editoriale di Barbara Spinelli pubblicato su “La Stampa” del 28 ottobre 2001, contenente un appello per un generale “mea culpa” ebraico. Punto di arrivo del suo ragionamento è un’affermazione che suona provocatoria:

“Ci si può domandare se Israele e la diaspora facciano bene a vedere il mondo come raffigurazione di un antisemitismo eterno, e se sia giusto che la Shoah continui a essere elemento fondante dell’ebraismo statuale e spirituale”.

La possibilità che l’appello della Spinelli a “un mea culpa ebraico” aprisse la strada a risorgenti forme di antisemitismo ha costituito la preoccupazione principale di vari ebrei italiani che sono intervenuti nel dibattito. In seguito, il problema di nuove forme di antisemitismo dopo l’11 settembre 2001 è stato affrontato tra gli altri da Ernesto Galli della Loggia, Sandro Viola, Paolo Mieli, Fiamma Nirestein ed altri. In particolare, Mieli ha denunciato sia la presenza di forti spinte antisemite tra palestinesi, arabi e musulmani, sia di complicità occidentali, in particolare tra gli intellettuali italiani.

Nel complesso, all’interno del dibattito che si è aperto dopo l’11 settembre, un elemento ricorrente è costituito da una crescente considerazione per gli aspetti propriamente religiosi. Tradizionali impostazioni laiche, basate sulla separazione tra religione e politica, non sono sembrate più pienamente adeguate in una situazione profondamente mutata. Nel caso specifico del conflitto israelo-palestinese, continuare ad insistere unicamente sulla diversità tra ebrei ed Israele, antisionismo e antisemitismo non è apparso più sufficiente.

Da questo punto di vista, l’impostazione “eterodossa” di Barbara Spinelli sembra prevalere su quella dei suoi critici. Più della forza delle sue argomentazioni, tuttavia, ha potuto lo sviluppo della situazione internazionale dopo l’11 settembre e il dibattito che ne è conseguito anzitutto negli Stati Uniti. Nel quadro di un conflitto di tipo nuovo, è apparsa, infatti, prevalente l’esigenza di stabilire una sorta di nuova alleanza tra Occidente e religioni, evitando che il mondo islamico nel suo complesso si riconoscesse nella contrapposizione all’Occidente auspicata da bin Laden e cercando di stringere legami più stretti tra le tre religioni monoteiste e la “civiltà occidentale”. In particolare, come si è detto, è apparso molto importante cercare di favorire, all’interno del mondo delle religioni, la lotta contro il fondamentalismo. Il cresciuto ruolo pubblico delle religioni rappresenta in questo senso una conseguenza dell’11 settembre.

Nel contesto del grande conflitto mondiale fra terrorismo e antiterrorismo, è stato inevitabile chiedersi: la politica di Israele favorisce o danneggia la causa occidentale? Sotto il profilo religioso, la questione è invece diventata: qual è il legame tra l’Occidente e Israele? Barbara Spinelli l’ ha affrontata ponendo una sorta di alternativa: gli ebrei sono capaci di superare il senso della propria identità per riconoscersi fino in fondo in una più ampia appartenenza occidentale? Ai suoi occhi, il banco di prova di tale capacità è rappresentato da ciò che è stato cruciale nella definizione contemporanea dell’identità ebraica (e non solo della nascita dello Stato di Israele): sono capaci gli ebrei di rinunciare al loro legame particolare con la Shoah? In modo ancora più schematico, la questione potrebbe essere posta in questi termini: sono capaci gli ebrei di anteporre la tragedia dell’11 settembre, nuovo fondamento dell’identità occidentale, al ricordo della Shoah? In questo modo, tra Auschwitz e le Twin Towers viene stabilita una sorta di singolare concorrenzialità ed è su questo terreno che la posizione della Spinelli appare più discutibile. Se, infatti, l’invito al “mea culpa” può assumere un ruolo positivo per contrastare le tendenze fondamentaliste che favoriscono lo scontro di civiltà e che sono presenti anche all’interno dell’ebraismo, tale invito appare inaccettabile se si traduce in una spinta alla “rimozione” della Shoah.

Sotto il profilo del rapporto tra Shoah e storia contemporanea tale alternativa assume la valenza implicita di una proposta di periodizzazione: l’11 settembre 2001 segnerebbe la fine di un’epoca in cui la Shoah ha svolto un ruolo centrale, concorrendo alla realizzazione di molti altri eventi, come la nascita dello Stato d’Israele ma non solo. Preoccupazioni di un risorgente antisemitismo, sia nel mondo extraoccidentale sia in quello occidentale, spingono invece a mantenere vivo la memoria della Shoah e perciò, conseguentemente, a relativizzare la discontinuità e a limitare l’”effetto cesura” dell’11 settembre. Più che concorrenziali tra loro, la Shoah e la tragedia delle Twin Towers vanno legate in un rapporto che le rende capaci di illuminarsi l’un l’altra e di rafforzarne la memoria. In questo senso, la reazione degli ebrei di New York all’11 settembre costituisce una lezione significativa: più delle differenze sono importanti le analogie, entrambe queste tragedie rappresentano “incubi” della modernità contro cui irrobustire continuamente il fronte della memoria.