Gli altri
due sono eventi di casa nostra. Il primo riguarda la definizione da parte del Parlamento
del Giorno della memoria, per ottemperare a un indirizzo della Comunità europea, volto a
sollecitare i singoli Stati a individuare un giorno nel quale fermarsi per ricordare lo
sterminio degli ebrei. Un invito cioè a non dimenticare, a tramandare alle giovani
generazioni il ricordo dell'orrore, perché si rifletta sul fatto che nel secolo della
tecnica e dei benessere il disumano ha fatto irruzione nella storia umana, mettendo
l'umanità di fronte a un'esperienza dei male senza precedenti.
Una iniziativa lodevole che avrebbe dovuto
trovare nelle aule parlamentari un consenso unanime. Invece la legge istitutiva ha dovuto
percorrere un iter alquanto accidentato, prima di essere approvata. Perché tante
difficoltà? Perché la legge si è incagliata e la discussione parlamentare è stata più
laboriosa che negli altri paesi europei? La ragione è semplice e può sembrare a prima
vista di lana caprina: i deputati del centro-sinistra intendevano limitare il Giorno della
memoria al ricordo dello sterminio degli ebrei, mentre quelli dell'opposizione intendevano
estendere il ricordo a tutte le vittime della violenza politica, includendovi anche le
vittime del gulag e delle guerre civili del XX secolo: una sorta di memoria omnibus nella
quale dovevano trovare posto le vittime di tutti i totalitarismi e di "tutte le
parti".
Posta in questi termini, la questione perde
il suo carattere di disputa capziosa, per assumere pienamente la valenza di un contrasto
ideale che ancora un volta ha per tema la memoria e la storia del novecento. Legare il
Giorno della memoria esclusivamente all'Olocausto significa ribadirne l'unicità e
l'incomparabilità con qualunque evento, seppur terribile, del secolo da poco terminato.
E' stata una rottura di civiltà la quale si è prodotta nel cuore della più evoluta
civilizzazione del pianeta che ha prodotto ferite e violenze non risarcibili e che hanno
lasciato in eredità a quanti hanno attraversato l'esperienza del lager, come ha scritto
lo storico Tim Mason "l'orrore, il vuoto, la morte, la cancellazione della memoria,
l'incapacità di provare pietà".
Siamo quindi di fronte ad un evento
estremo, ricordare il quale significa anche invitare a riflettere sul fatto che, come ha
sostenuto il sociologo polacco Bauman "il male non è onnipotente. E' possibile
resistergli".E per generare le risorse individuali e collettive che rendono possibile
questa resistenza, la memoria svolge un ruolo essenziale: ricordare significa innanzitutto
evitare che l'oblio prenda il sopravvento, ma anche impedire che un processo ambiguo di
storicizzazione, come si è visto a proposito dei caso Irving, favorisca una visione
pacificata del passato, nella quale l'Olocausto rientri in una sorta di astratta e
omologante contabilità dei crimini e delle vittime dei totalitarismi.
Ed è questo atteggiamento culturale della
destra italiana che la distanzia dalle destre europee.1 suoi esponenti, animati da una
passione anticomunista viscerale che fa loro perdere di vista ogni altra questione,
tentano di mettere sullo stesso piano il genocidio razziale progettato dal nazismo con la
"soluzione finale", e la repressione ideologica "di classe" messa in
atto da Stalin negli anni Trenta e Quaranta, inglobando entrambi i fenomeni come varianti
"di una medesima attitudine criminale del totalitarismo" (2).
Rivendicare una differenza tra gulag e
lager non risponde alla presunta esigenza della storiografia antifascista di sottovalutare
il carattere criminale dei dispotismo staliniano: ormai, infatti, i campi di
concentramento sovietici sono assunti incontrovertibilmente nel tragico empireo delle
barbarie del Novecento. Risponde invece alla necessità di evitare che attraverso un uso
improprio della categoria di totalitarismo si assimilino fenomeni ed eventi diversi, che
restano in realtà assolutamente differenti tra loro, ancorché entrambi terribili, e
dalla comparazione derivi una omologazione e una omogeneizzazione che abbia come
conseguenza il rischio di "sconfiggere la memoria", tanto paventato da Primo
Levi. Se gulag e lager sono la stessa cosa anzi, seguendo il filo dei ragionamento di
Nolte e degli intellettuali revisionisti che vengono assunti acriticamente come maestri
dalle forze politiche di destra, il secondo è stato la conseguenza seppur aberrante del
primo, la Shoah trova una sua spiegazione in grado, se non di legittimarla, di
giustificarla come parte integrante del "libro nero del totalitarismo".
Per questa via lo sterminio è
relativizzato e ricondotto dentro la storia, contribuendo a rafforzare, soprattutto nelle
giovani generazioni, quel rifiuto a ricordare che è sempre foriero di nuove barbarie.
Note
2. Enzo
Traverso, Totalitarismo: storia e aporie di un concetto, in "I viaggi di
Erodoto", n.38-39, 1999, pp.31. torna su
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