Come utilizzare le fonti mediatiche ;L'omologazione dei media ; L'informazione in guerra ; Il modello dei giornali italiani ; Le fonti forti ; La
tipologia dei giornali ; La guerra senza
patria ; La demonizzazione del nemico
; La guerra umanitaria contro i
conflitti etnici ; Lo straniamento
dalla politica ; Il pacifismo inefficace
; Una nuova consapevolezza dei
diritti ;L'informazione e l'uso pubblico
della storia . Dalla consultazione di quattro
quotidiani, confrontati con notiziari radiofonici e televisivi sulla guerra del Kosovo,
emerge una forte omologazione dei media. Le immagini hanno riprodotto l'evento - guerra
come uno spettacolo eccezionale e unico, provocando un forte impatto emozionale,
attraverso le condizioni disperate dei profughi. Dopo cinquant'anni di pace, i giornalisti
hanno dovuto imparare a "raccontare una guerra", in cui l'Italia era parte
attiva. Il giudizio morale o moralistico, giocato sulle emozioni, è prevalso
sull'informazione politica e sulla conoscenza storica. Il modello di giornalismo italiano
predilige, infatti, la narrazione di storie individuali come metafore dell'universale e ha
la tendenza a spettacolarizzare i fatti. Si è abusato di stereotipi e hanno avuto un
ruolo preminente le cosiddette fonti forti (politiche e militari) italiane e straniere. Il
tradizionale patriottismo di guerra è stato sostituito dall'esaltazione della fedeltà
agli Alleati, mentre l'identità nazionale è stata definita in senso europeo e
occidentale, piuttosto che riferita ai confini territoriali. Il consenso dell'opinione
pubblica alla guerra è stato molto ampio e ha reso inefficaci gli appelli dei pacifisti.
L'intervento umanitario è stato considerato come assolutamente necessario per difendere i
diritti umani dei kosovari. Riguardo all'interpretazione del passato ai fini politici del
presente, nella rappresentazione della guerra del Kosovo, si è fatto un uso pubblico
della storia con caratteristiche analoghe, anche se con qualche differenza, a quello messo
in atto per la guerra del Golfo.
Come
utilizzare le fonti mediatiche
La lettura quotidiana dei giornali e la visione dei
telegiornali non mi hanno consentito una comprensione immediata di ciò che stava
accadendo nel Kosovo, nonostante il grande spazio dedicato all'avvenimento. Le
informazioni mi apparivano parziali, approssimative, superficiali. Ho provato, allora a
costruire, ad uso della scuola, percorsi conoscitivi secondo lo schema ipertestuale sulle
cause e gli sviluppi della guerra, sulla storia dell'ex-Jugoslavia e sull'evoluzione della
questione balcanica dal 1980.
Il metodo, che ho seguito per interrogare le fonti
mediatiche, è stato il seguente. Per tutta la durata della guerra, ho fatto il
monitoraggio di quattro quotidiani, ho seguito attentamente alcuni notiziari radiofonici e
i telegiornali Rai e il Tg5 e mi sono adoperata per reperire i documenti citati, ma non
pubblicati con stralci significativi. Ne è scaturito un progetto a rete per la rivista
on-line dell'Insmli "Storie contemporanee - Didattica in cantiere", (http://www.
novecento.org) sostanziato da schede, dossier con testi di commento, documenti,
interrelazionati tra loro, proponendo possibili tracce interpretative del Labirinto
Kosovo (così ho intitolato il progetto nel sito internet). Inizialmente ho
evidenziato le notizie quotidiane interessanti, secondo una selezione di temi: le
questioni internazionali e l'attività delle diplomazie occidentali; le decisioni della
Nato, il ruolo degli Usa e degli alleati, con particolare riferimento all'Italia; la
politica di Milosevic e i nazionalismi balcanici, le azioni militari dell'Uck, il
dibattito pacifista, l'escalation dell'intervento militare e così via. Successivamente,
ho operato una seconda selezione delle notizie sulla base dello sviluppo degli
avvenimenti, considerando attentamente l'orientamento dei commenti e le linee politiche
dei giornali: alcuni elementi venivano a cadere in pochi giorni, altri acquistavano
rilievo, altri ancora venivano chiariti dal confronto e/o dall'integrazione con altri dati
sulla situazione in continua evoluzione.
Mi sono preoccupata di rilevare le modalità di fare
informazione e i contenuti dei quattro quotidiani e ho rapportato le diverse notizie anche
ai servizi radiofonici e televisivi. Per raggiungere un livello di attendibilità nella
definizione delle informazioni è, infatti, necessario riuscire a cogliere gli
orientamenti dei giornali, premessa per valutarne la fonte, la qualificazione redazionale,
in questo caso, di politica estera, la rete di collaboratori e le opinioni politiche dei
commentatori.
Ho, quindi, individuato le fonti da privilegiare per
tracciare delle ipotesi interpretative degli accadimenti. I quotidiani, che ho consultato,
sono "la Repubblica", il "Corriere della sera", "La Stampa",
"il manifesto", di cui ho utilizzato soprattutto i supplementi settimanali
di approfondimento. Il volume La notte del Kosovo - La crisi dei Balcani raccontata dai
giornali di tutto il mondo, supplemento della rivista "Internazionale", mi
ha consentito di ricostruire i comportamenti della stampa estera nell'arco del decennio
precedente alla crisi attuale. Il numero speciale di "Limes" Italia in guerra
mi ha offerto un quadro, in chiave geopolitica, dei problemi aperti nei Balcani e
dell'intreccio inquietante tra politica, economia e criminalità.
Sarebbe interessante fare un'operazione analoga,
monitorando i giornali e i notiziari radiotelevisivi di Trieste, città di confine con i
Balcani, delle regioni adriatiche, della Sicilia, cioè di quelle aree maggiormente
interessate dalle operazioni di guerra e dall'arrivo massiccio dei profughi, per capire
come i media hanno orientato l'opinione pubblica e/o ne sono stati influenzati.
Ho privilegiato la carta stampata, piuttosto che
l'informazione televisiva, per facilità di consultazione e di archiviazione, ma
soprattutto perché i quotidiani hanno fatto un'informazione, sui diversi aspetti della
guerra, meno superficiale e strillata dei telegiornali, dove il commento concitato
dell'inviato prevaleva quasi sempre sul dato informativo e sulle questioni generali. I
notiziari radiofonici della Rai hanno avuto analogie con i quotidiani più che con
l'informazione televisiva: alcuni servizi hanno scavato maggiormente nella notizia e nel
passato recente dell'ex-Jugoslavia.
In sostanza, con molti rimandi ad altre fonti e con incroci
continui dei diversi organi di stampa consultati, sono riuscita a tracciare un quadro
generale, seppure provvisorio ed approssimativo.
L'omologazione
dei media
Le immagini, nel caso del Kosovo, non sono state in grado
di sostituire efficacemente articoli ed opinioni scritte, perché costantemente
circoscritte ai kosovari albanesi in fuga. I servizi in video erano monotoni e ripetitivi
nella loro drammaticità: le lunghe file dei profughi in condizioni disperate.
Se la guerra del Golfo è stata una guerra priva di
immagini di sangue, fredda nelle luci delle bombe nel cielo nero di Bagdad, la guerra del Kosovo
è stata una guerra di volti, calda di emozioni, rappresentata dalla condizione
disumana dei profughi, che avevano tutti la stessa storia di violenze da raccontare. E,
tutto sommato, quelle vittime hanno raccontato poco in prima persona, spesso sono state
interpretate e rappresentate dai commenti dei giornalisti nei campi di raccolta. La
commozione per una condizione umana così grave è stata ampiamente utilizzata per
giustificare, attraverso l'impatto doloroso, senza troppe argomentazioni, la guerra
"umanitaria", con frasi stereotipate sugli aiuti e con venature ideologiche
sulle cause della guerra.
Il flusso delle riprese televisive con gli stessi soggetti
ha reso, comunque, l'evento - guerra come uno spettacolo eccezionale e
unico, estraniato da un preciso contesto storico e, nello stesso tempo, non
comparabile con altri episodi di guerra.
I giornali, sia quelli italiani sia quelli stranieri, hanno
anch'essi diffuso quasi esclusivamente le immagini dei profughi, spesso primi piani o
visioni d'insieme. Si sono "viste" poche scene della vita nei campi-profughi e
degli effetti delle bombe sulla popolazione serba, mentre hanno trovato ampia diffusone le
foto degli eccidi di pulizia etnica. L'emozione veicolata era quella di una guerra barbara
e di una violenza unilaterale.
Contraddittoria e a volte imbarazzata è stata
l'informazione sulla reale configurazione dell'UCK, considerato, secondo la
definizione americana, una compagine di volontari, che difendevano il loro popolo
dall'aggressione serba, sottacendone l'apporto di violenza al conflitto. Se i soldati
serbi erano paragonati ai nazisti, per qualche organo di stampa l'UCK poteva anche essere
avvicinato ai partigiani della Resistenza italiana. Nella fase della pacificazione , lo
spirito di vendetta dell'UCK non è più stato giustificato e le notizie
sull'organizzazione sono state rapidamente ridimensionate, fino a scomparire.
L'uso della titolazione, come è ormai consuetudine,
è stato volutamente d'effetto, spesso condotto all'eccesso per le stragi e le condizioni
dei profughi, assolvendo al compito di alzare il livello di drammatizzazione del
conflitto, soprattutto sulle tematiche dei diritti umani.
L'informazione
in guerra
L'analisi sull'informazione, offerta dal giornalismo
italiano sul Kosovo, va messa in stretta relazione con il fatto che l'Italia era in
guerra per la prima volta, dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale. E'
difficile stabilire quanto abbia pesato l'autocensura e/o il fermo convincimento dei
giornalisti sulla giustezza della guerra oppure l'influenza governativa, ma quasi tutti i
giornali hanno sposato la causa della guerra umanitaria, delimitando rigidamente lo spazio
alle posizioni dissidenti. Il tema dei diritti umani è stato assolutizzato, e sono state
ampiamente giustificate le decisioni dei Paesi della Nato. Sostanzialmente vi è stata
un'ulteriore omologazione dell'informazione rispetto ai periodi precedenti.
Tra gli organi di informazione d'opinione, il
"Corriere della sera", il TG5 e "La Stampa" hanno ospitato anche
posizioni contrarie alla guerra e mantenuto un certo equilibrio nei servizi giornalistici,
pur dichiarando costantemente l'opposizione al governo di Milosevic. Soltanto "il
manifesto" e i giornali di partito di Rifondazione comunista e della Lega hanno
sottolineato le conseguenze nefaste della guerra sul popolo serbo.
Raramente in Italia vi è stato un così largo e compatto
fronte dei media a favore di un intervento armato, ma i confronti vanno fatti con periodi
precedenti di guerra, perché questa volta il conflitto non era "lontano", ma
"ai confini" del Paese e le nostre forze armate ne erano partecipi. Non ci sono
state ufficialmente limitazioni, ma la situazione inedita ha fatto sì che vi fosse
sintonia tra i giornali di diversa tendenza sulle notizie da dare, quelle da tacere e
quelle da non rintracciare.
Il Kosovo è vicino, ma i giornalisti non ci sono arrivati
per ostacoli posti dal governo jugoslavo e anche perché quello che doveva essere dato al
pubblico era fuori dal Kosovo, nei campi profughi. Il fenomeno guerra, infatti, non è
stato spiegato in base a specifiche ragioni storiche, politiche ed economiche, inerenti
alla dissoluzione della Jugoslavia di Tito.
Si è saputo poco in merito al complesso della questione
balcanica e al Kosovo e si è adottato il modello informativo sulla guerra in Bosnia:
da una parte tutti cattivi e dall'altra tutti vittime. Il giudizio morale o moralistico ha
prevalso sull'informazione politica e sulla conoscenza storica.
Nei commenti ai fatti si è rilevato uno squilibrio, ha
rilevato Piero Ottone in un suo articolo sul periodico dell'Ordine dei giornalisti (I
giornali italiani e la crisi jugoslava in "OG Informazione", gennaio -
febbraio 1999), tra il piano morale e quello politico: "Nel primo periodo si è
osservato un eccesso di attenzione al primo punto, e quindi al dibattito tra interventisti
e pacifisti, a scapito del secondo: forse anche per il fatto che gli interrogativi
sull'utilità delle bombe avrebbero portato acqua al mulino dei pacifisti. Se questa
impressione è fondata, bisogna concludere che ancora una volta le preoccupazioni
concernenti il dibattito politico interno hanno prevalso sul compito di offrire ai lettori
elementi di giudizio obiettivo".
Le notizie sono state ripetitive ed enfatiche, ma non hanno
dato il quadro complessivo della tragedia. Si è giocato sulle emozioni e non sulle
conoscenze: i profughi sono stati "esposti" alla compassione del mondo, ma di
questa dolente migrazione non si è data una spiegazione contestualizzata.
I giornali hanno destinato molte pagine al Kosovo con un
flusso molto elevato di articoli, che, però, nel complesso, hanno fornito informazioni
omologate e scarse sulla reale entità e qualità della guerra in atto e sulle sue ragioni
locali e internazionali. Nei primi giorni le notizie su carta e in video hanno risentito
in modo evidente delle emozioni soggettive dei giornalisti, "inesperti" nel
raccontare e rappresentare una guerra "italiana". C'era sorpresa, sgomento,
sensazione di inadeguatezza nel trattare una situazione tanto inedita e tragica.
I clandestini, che ininterrottamente durante la
guerra sono sbarcati sulle coste italiane, hanno assunto la dignità di profughi e sono
stati oggetto di grande solidarietà; nessun politico, anche il più oltranzista
sostenitore delle frontiere chiuse, ha alzato la voce contro l'accoglienza. Nonostante il
continuo riferimento all'attività illegale degli scafisti, i media non hanno indagato sui
legami tra la criminalità balcanica e quella italiana e sui traffici illeciti, attivi
anche nella circostanza del flusso migratorio veramente imponente. Albania e Montenegro
sono stati trattati come Paese alleati, e quindi "buoni", senza coinvolgimenti
di altro tipo.
Soltanto dopo la fine della guerra, non sono stati
sottaciuti, anche se mai enfatizzati come altri episodi durante la guerra, gli scandali
della Missione Arcobaleno e l'emergere delle attività criminose.
All'inizio del conflitto, si è anche fatto il confronto
tra l'evento Kosovo e la sconfitta del Vietnam, soprattutto da parte di commentatori
americani, mentre non si è presa in considerazione la comparazione con la guerra del
Golfo. Semmai il rimando, avvalorato dai governi alleati, è stato con la seconda guerra
mondiale e all'opposizione tra democrazia e nazismo, sottolineando il valore etico
insopprimibile della guerra per scopi umanitari.
Il modello dei
giornali italiani
I giornali e anche i telegiornali hanno narrato storie
individuali. Il giornalismo di oggi tende, infatti, a raccontare fatti di vita
quotidiana, personalizzando e spettacolarizzando l'informazione, a ridurre le grandi
storie nella dimensione di un articolo d'effetto, capace di provocare commozione e quindi
di far immedesimare il lettore in quella singola storia. Il caso viene trattato come
metafora di un universo, cui si allude, senza darne una spiegazione generale.
L'articolo narrato, secondo le regole dello stile
giornalistico enfatico e stupefacente, è sempre più richiesto nel modello attuale dei
giornali. I quotidiani sono, infatti, sfogliati in modo nervoso e ansiogeno dai lettori,
per captare rapidamente i grandi fatti della giornata, che devono essere strillati in modo
sintetico ed efficace. Le notizie cosiddette "pesanti" devono essere condensate
ed evidenti, mentre la comprensione dei fatti viene proposta in un articolo di respiro e
di bella scrittura.
I magazines, allegati ai quotidiani, si sono
occupati in misura ridotta del Kosovo, come ha apertamente riconosciuto Paolo Garimberti
nell'editoriale del "Venerdì" di "la Repubblica" del 28 maggio:
"Diversi lettori hanno scritto per dissentire dalla scelta del "Venerdì"
di occuparsi poco o nulla del Kosovo. Confesso di essere stato sorpreso da questa
reazione. Ero convinto che il pubblico dei giornali ne avesse abbastanza di questa guerra,
che da settimane ha spazi enormi nei quotidiani e nei notiziari televisivi. Ma,
evidentemente il conflitto dei Balcani appassiona la gente".
Infatti, l'editoria ha colto questa esigenza e ha prodotto
svariati instant-book di giornalisti inviati in Kosovo, che, nel libro, hanno
elaborato qualche riflessione più approfondita.
I lettori, dunque, dimostravano di voler capire cosa stesse
succedendo nel Kosovo, forse non tanto perché era alle porte di casa, e anche perché
aveva turbato coscienze e provocato divisioni di valutazione, almeno all'inizio del
conflitto. Si è, dunque, verificato che l'eccesso di informazione si è risolto in
deficit di conoscenza.
Poche le eccezioni: la cautela dei servizi dell'inviato Rai
a Belgrado, Ennio Remondino, nel rappresentare la situazione sociale e politica della
Jugoslavia; la trasmissione televisiva Jugoslavia morte di una nazione, condotta da
Andrea Purgatori, andata in onda per qualche lunedì di seguito per circa due ore su Rai
3. I filmati della Bbc, proposti dalla Rai, hanno fornito immagini di grande impatto ed
efficacia sui protagonisti della dissoluzione della ex-Jugoslavia e su come Bosnia e
Kosovo rientravano in un unico progetto politico. Anche Santoro, nel suo appuntamento
settimanale Moby Dick (Retequattro) ha voluto dare voce ai Serbi e ha partecipato
personalmente a Belgrado a una manifestazione della popolazione per proteggere i ponti
dalle bombe Nato, suscitando accese polemiche sul suo modo di fare televisione.
In genere, invece, la televisione italiana ha dedicato
molto spazio (i programmi di Lerner e Vespa, ad esempio) ai dibattiti in studio,
animati da giornalisti e politici, che tutte le sere dicevano sostanzialmente le stesse
cose, con pochissime immagini di sostegno: una Tv di parole e di stereotipi.
Le fonti forti
Mai, come per il Kosovo, si è avuta l'impressione che al
pubblico giungessero soltanto informazioni parziali e decisamente orientate. Le fonti
forti dei giornali sia italiane sia straniere, cioé quelle dei diversi poteri in
campo (in questo caso quello politico e militare in prima istanza), determinavano in modo
pesante la selezione e la presentazione delle notizie. Le fonti forti sono quelle che
arrivano al giornale direttamente dai poteri istituzionali, politici ed economici, senza
che il giornalista le debba cercare, e hanno la finalità di utilizzare i media per
influenzare il grande pubblico. Naturalmente, ciò non esclude che l'operatore dei media
possa e debba sempre esercitare la propria capacità della libertà di giudizio rispetto
alle fonti, anche quando quegli interessi forti si intrecciano con le proprietà dei
giornali, anch'esse presenze economiche e politiche determinanti.
Ma, nel caso del Kosovo, i giornalisti hanno trasmesso
sostanzialmente i comunicati del governo e della Nato, ignorando le agenzie jugoslave
filo-Milosevic. Nella maggior parte dei casi è mancato un filtro autonomo e sono state
accettate le logiche del giornalismo di guerra a sostegno dell'Alleanza atlantica.
La tipologia
dei giornali
Dei quattro giornali consultati, "la Repubblica"
ha sostenuto, senza dubbi e domande problematiche, la guerra, la coerenza dell'operato del
governo e l'ineluttabilità dell'intervento Nato. Soltanto gli opinionisti del settimanale
"Venerdì" de "la Repubblica" hanno tenuto un atteggiamento critico
sull'efficacia e la giustezza dell'intervento. Con uno stile giornalistico fortemente
caratterizzato dall'emotività, sorretto da racconti raccapriccianti, il quotidiano ha
calcato la mano sui profughi e sulla ferocia di Milosevic. Dei Serbi ha ospitato in
rubriche quotidiane, soltanto le voci di intellettuali oppositori, mentre ha riportato
molto poco sulle conseguenze della guerra per il popolo serbo, addossandone sempre la
responsabilità a Milosevic. Riguardo ai dissidi all'interno del governo, la posizione del
giornale è sempre stata a sostegno del Presidente del Consiglio. L'identità del giornale
è stata univoca e coerente.
Il "Corriere della sera" ha dato un'informazione
piuttosto ricca e articolata, riportando anche notizie sulla popolazione serba. La linea
del giornale è stata favorevole alla guerra, ma senza eccessi propagandistici o
ideologicamente assertivi, dando spazio ad opinioni contrarie al conflitto e dissidenti
rispetto alla politica del governo e all'operato della Nato. Nei servizi degli inviati e
nei commenti di opinion leaders sono stati sollevati dubbi sull'efficacia delle bombe e
sull'organizzazione militare e sono state riportate in modo chiaro le posizioni
diversificate dei Paesi dell'Alleanza, sottolineando le divisioni politiche dei partiti
della maggioranza in Italia. Il "Corriere della sera" ha pubblicato tabelle di
cifre, sintesi di dati, schede storiche, stralci di documenti a fianco dei commenti e dei
servizi giornalistici.
"La Stampa" ha dato particolare risalto alle
posizioni degli Usa, pubblicando, nella prima fase della guerra, un interessante articolo
di Bill Clinton, che illustrava in modo chiaro la strategia presidenziale di unica potenza
mondiale. Ha prestato attenzione alle politiche degli Stati alleati e in specifico alla
politica estera italiana, sottolineando gli elementi di ambiguità e di precario
equilibrio. Il ruolo della Russia è stato interpretato nel quadro internazionale e in
riferimento alla nuova situazione, creatasi nell'Alleanza atlantica con l'intervento
armato. Ha affidato le analisi politiche e le riflessioni storiche a qualificati
commentatori italiani e stranieri (non solo giornalisti, ma diplomatici e storici). Il
modello di giornalismo de "La Stampa" ha privilegiato, anche per il caso del
Kosovo, l'articolo lungo alla sintesi informative, ma verso la fine del conflitto sono
comparsi moduli con schemi e tabelle, simili a quelle del "Corriere della sera".
Il quotidiano "il manifesto" ha perseguito
un'informazione di dichiarata opposizione all'intervento italiano e ha pubblicato notizie
omesse dagli altri quotidiani, in particolare sui danni della guerra in Serbi. Una volta
alla settimana veniva distribuito un dossier di approfondimento tematico, secondo lo stile
tradizionale di articoli esplicativi, di prese di posizione politiche, con dichiarata
valenza ideologica, di brevi saggi storici e opinioni a confronto su temi caldi come
identità, conflitto etnico, diritti umani.
Tutti i giornali hanno rispettato il silenzio sul
ruolo dell'aeronautica militare italiana: censura di guerra, autocensura, impossibilità
di avere notizie dalle fonti ufficiali? Solo a conclusione della guerra si è data notizia
della visita ufficiale del Presidente del Consiglio Massimo D'Alema nella base Nato
pugliese per ringraziare i piloti italiani del loro apporto al conflitto.
La guerra senza
patria
La stampa italiana ha, quindi, sostenuto la guerra della
Nato come una decisione giusta e ineluttabile, con pochi cenni alle contraddizioni in
atto.
Una prima anomalia della situazione assolutamente
eccezionale per l'Italia è stata la "non dichiarazione di guerra": il governo
ha definito, inizialmente, l'intervento armato come operazione di polizia
internazionale e ha rinviato le responsabilità logistiche e strategiche alla Nato.
L'Italia, autorizzando l'uso delle sue basi agli aerei della guerra, era, sul piano
internazionale, il Paese strategicamente più importante per la Missione, e,
contestualmente, per ragioni di politica interna, taceva sulla propria partecipazione alle
operazioni militari aeree.
La seconda anomalia era rappresentata da una guerra, fatta
non per difendere la patria contro atti esterni di aggressione, ma per "difendere i
diritti umani" negati da uno Stato straniero a una parte della popolazione.
I media, nel loro lavoro di informazione, hanno riprodotto
e avallato queste anomalie, non cercando di approfondire e disvelare le contraddizioni,
bensì scegliendo, nella stragrande maggioranza dei casi, di sostenere la politica del
governo e di confermare e rafforzare presso l'opinione pubblica l'esigenza indiscutibile
della mobilitazione umanitaria.
Si è così diffuso, in misura crescente, nelle prime fasi
dell'intervento Nato, una sorta di patriottismo umanitario all'interno di una guerra
senza patrie. Non si è sviluppato il senso della patria, scomparso da tempo, ma i
sostenitori della guerra giusta hanno alzato con orgoglio la bandiera della fedeltà
agli Alleati. Il cambio di alleanze, comportamento costante dell'Italia durante le due
guerre mondiali, veniva, in un certo senso, riscattato dall'impegno leale del Presidente
del consiglio ex-comunista verso la Nato. Anziché usare il termine patria nel senso dei
confini nazionali, si è tentato di ridefinire l'identità nazionale, collocando
l'Italia nell'ambito europeo ed occidentale.
La
demonizzazione del nemico
Le pagine dei giornali e gli schermi televisivi
diffondevano una nozione vaga, ma fortemente emozionale, dei diritti umani, difesi
dal baluardo degli Usa e dei Paesi della Nato contro Milosevic, prima comunista e ora
nazionalista, ma sempre un dittatore sanguinario.
Il nemico è stato demonizzato con frequenti paragoni con
Hitler e la politica di annientamento del nazismo. L'operazione ideologica e
propagandistica è risultata, grosso modo, analoga per modalità e contenuti a quella
sostenuta contro Saddam Hussein durante la Guerra del Golfo, ma anche con connotazioni
nuove.
Sono state rese pubbliche, ad esempio, le rivelazioni sui
suicidi di familiari, pubblicando pareri di psichiatri riguardo alla possibile influenza
di questi fatti tragici sulla personalità di Milosevic e sul suo modo di esercitare il
potere. Si è parlato molto degli ingenti guadagni, anche illeciti, dei figli e dei
parenti del leader e dei loro molteplici incarichi importanti nella politica e
nell'economia jugoslava: una famiglia di dittatori, insomma.
La rappresentazione del potere di Saddam ha fatto
riferimento al fondamentalismo islamico, che, in certo senso, forniva una forma di
sacralizzazione, mentre quella del presidente slavo è stata fondata sulla brutalità del
controllo politico e militare, rafforzato dall'orgoglio nazionalista serbo di opporsi alle
organizzazioni internazionali e alla superpotenza americana.
Milosevic è stato descritto come intelligente politico,
abile diplomatico e accorto stratega, che non saputo evitare, però, lo smembramento della
Federazione jugoslava, pur giocando con accortezza le sue carte di aggressione e di
difesa. Il "demonio" Milosevic aveva, come ulteriore aggravante, un passato
comunista, connotazione fortemente negativa per la cultura statunitense, e una moglie,
anch'essa "demoniaca", perché anche lei è una leader politica molto influente
nella Federazione jugoslava. Mira Markovic, donna emancipata e forte, è stata presentata
dai media come "più cattiva e intrigante" del marito. Quando una donna fa
politica, suscita inquietanti sospetti, come se avesse mercanteggiato la sua femminilità
con il potere maschile per eccellenza, come se le sue aspirazioni di affermarsi nella cosa
pubblica fossero guidate da oscuri e diabolici desideri. Anche a Mira Markovic, sono stati
applicati stereotipi arcaici, che sembrano ormai inattuali, ma che riemergono nel senso
comune quando una donna "sconfina" dal territorio femminile tradizionale e
gestisce il potere. Anche su Hillary Clinton si addensano spesso giudizi anacronistici,
con rivelazioni su imbarazzanti retroscena della sua ascesa al potere. Le donne al vertice
del potere sono delle Lady Macbeth?
La
guerra umanitaria contro i conflitti etnici
Nell'informazione sono state enfatizzate le discriminanti
religiose tra musulmani e ortodossi, senza evidenziare che quel Paese da cinquant'anni era
senza religione e aveva costruito una buona integrazione tra le diverse popolazioni della
Federazione. Si è sovrapposto l'elemento di fede al conflitto etnico tra kosovari
albanesi e serbi, non considerando la complessa decomposizione della Jugoslavia, la crisi
economica, gli interessi stranieri e i traffici internazionali. La chiave univoca di
interpretazione della guerra è stata quella di difendere l'intervento umanitario
per controllare i conflitti religiosi ed etnici.
Non si è fatto riferimento al passato recente, cioè alle
forme di nazionalismo dei Paesi dell'area balcanica e alla configurazione degli stati
monoetnici di Slovenia e di Croazia, preferendo risalire al passato remoto, ad
avvenimenti del XIV secolo, per spiegare la situazione attuale.
Pochi commentatori si sono occupati del rapporto tra
l'Europa con i Balcani, con gli Stati Uniti, con la Russia, mentre non è stata
sufficientemente analizzata la novità dell'ideologia del potere di Clinton, fondata sulla
difesa dei diritti umani in situazioni strategiche rilevanti, come in Iraq e in Kosovo,
per giustificare il controllo globale. Eppure, il controllo del mondo da parte dell'unica
superpotenza, rappresenta, dalla crisi dell'Urss in poi, il tema centrale della politica
internazionale.
E' stata fatta, insomma, una semplificazione del passato
e del presente.
Lo
straniamento dalla politica
Il rovescio della medaglia del consenso dei media al
governo è, infatti, un'opinione pubblica, commossa dai profughi, ma abbastanza distratta
sulla connotazione e sulle conseguenze del conflitto, che ha alimentato. La guerra ha
provocato, inopinatamente, l'aggravarsi di forme di straniamento dalla politica, con un
allontanamento ulteriore della gente dalle istituzioni, ed è stata un'altra tappa della
crisi del popolo della sinistra, ormai disperso e disorientato, che non ha rintracciato
gli spazi politici e mediatici per ricevere notizie e per comunicare un dissenso difficile
e profondo, nei confronti dello stesso governo di centro-sinistra.
Curzio Maltese, sul "Venerdì" de "la
Repubblica"del 4 giugno, soffermandosi su un'ipotetica differenza di linguaggio tra
sinistra e destra, commenta: "L'inferno dei Balcani è lastricato fin dal principio
di buone intenzioni linguistiche, come si conviene alla prima guerra di sinistra,
sostenuta da governi progressisti e amanti di una pace giusta, assai diversi dai vecchi e
orribili governanti semplicemente guerrafondai. (
) Ora, se non si fosse trattata di
una guerra umanitaria per nobili scopi di difesa dei diritti umani, decisa dai governi
democratici e progressisti contro un dittatore sanguinario, non si esiterebbe a definire
tutto questo processo come razzismo".
Il pacifismo
inefficace
Sia in Europa sia in Italia è mancato un forte fronte di
opposizione alla guerra e lo schieramento favorevole è stato molto ampio e trasversale;
poche le voci dissonanti e politicamente deboli. Nonostante l'appoggio autorevole del
Papa, il pacifismo laico e cattolico non ha trovato modalità e parametri di comunicazione
efficace con l'opinione pubblica.
Il pacifismo, infatti, non ha avuto sostegni informativi
per far prevalere la convinzione che il primo dei diritti umani debba essere la pace,
mentre la terribile condizione dei profughi offriva ai media immagini ben più commoventi
degli appelli. Nello stesso tempo eminenti personalità offrivano il loro sostegno alla
campagna di raccolta di fondi "Missione Arcobaleno", dando alla gente comune
un'occasione per essere buona e collaborare ad alleviare le sofferenze.
Una
nuova consapevolezza dei diritti
L'adesione alla guerra ha evidenziato, d'altro canto, un
elemento molto positivo: la diffusione di una nuova consapevolezza dei diritti della cittadinanza
universale, oltre le frontiere e le ragioni obiettive della politica degli Stati
nazionali. La gente è rimasta emotivamente coinvolta nelle ragioni della guerra in difesa
delle vittime della pulizia etnica e non si è fatta domande in altre direzioni.
I profughi sono stati utilizzati come armi della guerra sia
da Milosevic sia dalla Nato. Milosevic ha colto l'occasione degli attacchi aerei per
espellere i kosovari albanesi, premerli alle frontiere e creare una catastrofe per i
nemici, che non hanno saputo dare risposte organizzate a un'emergenza terribile. Ma i
Paesi della Nato hanno, a loro volta, saputo utilizzare il problema-profughi come un
efficace strumento di propaganda e di ideologizzazione della guerra. Il fine
dell'intervento era la difesa umanitaria di quegli stessi profughi, che soffrivano in modo
tanto drammatico le conseguenze dell'espulsione determinata dalla guerra. E i media hanno
sostenuto la necessità assoluta della Missione, riuscendo a creare un forte consenso
generalizzato.
L'informazione
e l'uso pubblico della storia
Il Kosovo è stato un caso "ideologico",
non storicizzato. L'informazione, in massima parte, non ha fatto ricorso alla storia per
spiegare quello che stava accadendo, o meglio ha attinto alle leggende medievali e alle
religioni piuttosto che al complesso percorso storico dei Balcani. Si è giocato sulla
semplificazione e sulla personalizzazione delle Storie individuali, biografie dei
politici, singoli episodi, ma non è stata tracciata la problematicità del contesto
generale.
Il Kosovo è stato rappresentato come un caso assoluto,
paragonabile soltanto all'Olocausto e non ad altri episodi di sopraffazione di un'etnia o
di un popolo, in atto in altre parti del mondo.
Questa guerra è stata un esempio emblematico di assenza
di storia nel modo attuale di fare informazione e, nello stesso tempo, di distorsione
del passato ai fini dell'uso pubblico della storia.
Infatti, se riprendiamo l'analisi di Nicola Gallerano,
presente nel suo scritto Guerra del Golfo e uso pubblico della storia (1995), e ne
applichiamo le categorie interpretative alla guerra del Kosovo, possiamo individuare molte
analogie e qualche differenza.
L'uso pubblico della storia, che interessa, in prima
istanza, i mezzi di comunicazione di massa, opera un coinvolgimento attivo dei cittadini
su temi essenziali, che può risolversi in una manipolazione, proponendo analogie
fuorvianti, come per esempio il riferimento a Hitler sia per Saddam che per
Milosevic, e appiattire la complessità del passato sul presente. Ad esempio, sia per la
Guerra del Golfo che per il Kosovo, si è fatto un richiamo costante alla situazione della
seconda guerra mondiale, per giustificare l'opposizione delle democrazie dei Paesi della
Nato ai dittatori, così come era accaduto contro il nazismo. Il modello della
demonizzazione del nemico ha funzionato per Saddam come per Milosevic, con una forma di distorsione
del riferimento storico utilizzato.
Il secondo conflitto mondiale rappresenta un precedente
inattaccabile, perché paradigma della "guerra giusta", che consente l'analogia
di uno schieramento molto ampio di democrazie contro il nazismo. Il passato è
strumentalmente interpretato al fine di giustificare le posizioni politiche del presente,
non tenendo in considerazione la fine della contrapposizione tra i due blocchi mondiali e
giungendo a paragonare Stati come l'Iraq e la Jugoslavia alla superpotenza della Germania
del Terzo Reich.
Non si è, invece, fatto alcun riferimento alle motivazioni
economiche delle parti in causa né si si è sviscerata la politica di egemonia mondiale
degli Usa, come si è sorvolato sul ruolo dell'Europa e sui rapporti tra Occidente, Paesi
arabi e Paesi balcanici. Ad esempio, la tematica del dominio culturale e politico degli
Usa, che, in entrambi i casi, è stata prevalente rispetto agli stessi interessi
economici, avrebbe certamente meritato maggiore approfondimento.
Nei due conflitti, gli stereotipi e gli slogans
semplificati hanno avuto un ruolo importante nella formazione del consenso: la guerra
giusta, le democrazie contro la dittatura, l'analogia tra pulizia etnica e deportazione,
la brevità e l'efficacia dell'intervento, la difesa dei diritti umani contro la barbarie,
e così via.
La guerra del Kosovo, come quella del Golfo, è stata
definita inizialmente con l'eufemismo di "operazione di pulizia internazionale"
e ha ottenuto un consenso via via più ampio dell'opinione pubblica, provocando
lacerazioni e crisi nei fronti dei pacifisti e della sinistra, che sono
risultati soccombenti.. Oggi il pacifismo è molto più fragile che in passato e lo stesso
intervento del Papa, al contrario del 1991, non ha ottenuto un'adesione significativa
neppure in Italia, come se l'influenza dei mass-media favorevoli alla guerra fosse più
forte del messaggio cattolico. Per il Kosovo va segnalato, infatti, una quasi totale
omologazione dei mezzi di comunicazione di massa, mentre nel caso del Golfo le opinioni
sono state più articolate e differenziate.
Riguardo ai bombardamenti sull'Iraq è stata diffusa la
convinzione, poi smentita dalla tragica realtà delle distruzioni, che la guerra
tecnologica non provocasse vittime civili, ma fosse in grado di colpire esclusivamente
gli obiettivi strategici. La stessa operazione ideologica è stata prevista anche per il
Kosovo, ma la tragedia dei profughi ha fatto prevalere l'aspetto emozionale e umanitario
su quello tecnologico.
Semmai, l'impegno diretto dell'Italia nel conflitto
balcanico ha comportato che si enfatizzasse l'imprescindibile necessità della guerra, ma,
nel contempo, il governo italiano, come quelli europei, è stato costretto ad opporsi
all'intervento di terra, al fine di evitare perdite tra i propri soldati, così da non
perdere il consenso.
La guerra tecnologica dei Paesi occidentali, infatti, pur
se finalizzata all'annientamento del nemico, deve occultare la morte di massa, di cui non
si divulgano le immagini, e soprattutto non deve coinvolgere direttamente i soldati degli
Stati democratici nella violenza della morte. Negli Usa, poi, ha ancora peso la memoria
tragica del Vietnam, con le sue gravi conseguenze in politica interna.
E' rimasto, comunque, invariato, sia nell'un caso che
nell'altro, un etnocentrismo rozzo, centrato sulla superiorità morale dell'Occidente,
che, in realtà, si sostanzia nella supremazia militare. Infatti, il dibattito, che si è
aperto sul rapporto problematico tra democrazie e guerra è stato assimilato al conflitto
mondiale contro il nazismo, senza approfondire le valenze molto diverse dell'oggi, cioè
la coalizione dei Paesi militarmente più forti contro singoli Stati meno potenti.
L'ottica di informazione sulle due guerre più recenti
consente, dunque, di analizzare quale funzione assolvano i media nell'uso della storia ai
fini degli interessi politici del presente, formando una memoria collettiva dell'evento,
senza riferimenti attendibili al passato.
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