Modelli didattici: le ragioni della "ricerca" storica a scuola
 
di  Giuseppe Deiana

(Testo pubblicato  su "Contemporanea", n.2, aprile 1999)


Sapere e saper fare

Tra le diverse proposte di modelli didattici quello della "ricerca" mi sembra il più rispondente alle esigenze di sperimentazione, trasformazione e riqualificazione dell’ insegnamento della storia, rivolte a rinnovare globalmente la funzione culturale ed etico-civile della scuola. Il modello didattico della "ricerca" più di altri consente di praticare l’ esercizio creativo della razionalità storica e di far maturare nei giovani una forte coscientizzazione, intesa come consapevolezza di una nuova cittadinanza nel territorio vissuto e nel mondo, che è sempre più di dimensione insieme locale e planetaria.

La didattica della "ricerca" in classe chiama in causa la capacità culturale e professionale del docente di ripensare l’insegnamento della storia e di orientarsi ad insegnare secondo epistemologia. Ho condensato tale modello nella formula 
La storia come ricerca nella scuola come laboratorio
. Ricerca e laboratorio sono parole che richiamano la scientificità e questa l’epistemologia. Per cui la garanzia di una buona cultura storica a scuola è data dalla necessità di insegnare secondo epistemologia: epistemologia storica ed epistemologia didattica. Si tratta dei due "assi cartesiani" che legano inscindibilmente la storia come scienza sociale alla didattica di senso "scientifico" (o critico), la quale consente di superare il tradizionalismo didattico a favore dell’innovazione, che consiste nell’insegnare per progetti secondo una rigorosa metodologia di progettazione e sperimentazione sensata ("sensate esperienze e necessarie dimostrazioni" diceva già Galilei).

Nella prassi consolidata e diffusa la didattica di senso comune sottende, in modo implicito o esplicito, un modello debole che corrisponde quasi esclusivamente all’insegnamento e apprendimento - più o meno passivo - della storia generale, condensata nel manuale. Il modello forte, che è ispirato dalla cultura della complessità, prospetta invece "la storia come ricerca nella scuola come laboratorio" ed è rivolto ad insegnare secondo epistemologia da parte del docente ricercatore, sperimentatore e innovatore, che è tutto da creare, o forse da scoprire nel senso che in parte già esiste nel "sommerso" della scuola italiana, in cui si praticano anche significative esperienze di autoriforma, in genere poco conosciute. Nella formazione culturale di tale docente gli "assi cartesiani" dell’epistemologia storica e dell’ epistemologia didattica riconoscono e rilevano un modello ricco della storia insegnata, che intreccia la storia generale con la storia settoriale, la storia mondiale con la storia locale, la ricerca storiografica con la metodologia storica, la saggistica storica con la ricerca didattica, ecc., creando un ordito complesso e culturalmente fecondo, il quale non può che avere buone ricadute formative sugli allievi.

E’ impresa forse difficoltosa, ma non impossibile, mettere in atto i modelli teorici globali nella concreta azione didattica, che è caratterizzata da limiti orari e da rigidità di varia natura (materiali, culturali, psicologiche, ecc.). Con molto realismo si può incominciare sperimentandone un segmento; per esempio, la connessione tra la storia generale (macrostoria) e la storia locale (microstoria). In questa sede possiamo dare per scontate le motivazioni culturali e formative della storia generale e mondiale. E’ utile sottolineare, invece, quelle relative alla storia locale, su cui hanno dato contributi rilevanti studiosi, attenti ai problemi specifici dell’insegnamento scolastico, come Giuseppe Serri, Ivo Mattozzi e Piero Bevilacqua. Secondo quest’ultimo, "l’inserimento della storia locale nei percorsi della storia generale potrebbe costituire un elemento importante nella formazione delle strutture cognitive degli allievi. E’in questa intersezione di locale e universale che gli studenti possono imparare ad apprendere, attraverso la storia, alcuni meccanismi fondamentali della conoscenza, che sono poi anche modi di procedere della scienza: il gioco continuo di particolare e generale, concreto e astratto"1. In relazione alle ragioni educative della storia locale Giuseppe Serri sottolinea i valori dell’ identità e della diversità. "Le radici e la memoria storica rappresentano quindi i collanti di questa identità collettiva, che lega affettivamente l’individuo al suo villaggio, alla sua città, alla sua regione, alla sua nazione. Così come nell’individuo singolo, anche nella collettività il senso della continuità e dell’ identità con se stessa è condizione indispensabile per muoversi nel presente, per capire i caratteri della propria realtà attuale, e insieme collegarsi alle altre realtà, per capire la diversità altrui, per cooperare con l’esterno. In questo senso, l’identificarsi con una determinata collettività non esclude - non deve escludere - identità più ampie. I legami, sentimentali, culturali e politici, che sostanziano la nostra identità nazionale, ad esempio, non sono di per sé in contraddizione con i vincoli che ci legano alla nostra regione, al nostro villaggio, alla nostra famiglia. Si può - e si deve - essere un buon sardo e insieme un buon italiano, un buon europeo, un buon cittadino del mondo: anzi, direi che essere un buon sardo (o napoletano, o friulano, o che altro) è condizione essenziale per essere un buon italiano, nello stesso senso in cui essere se stessi, essere coscienti delle proprie caratteristiche personali e specifiche, è condizione per dialogare con gli altri, per capirli, per ascoltarli, per accettarne la diversità, per cooperare e per stringere rapporti di comunione civile"2. Una nuova idea di cittadinanza, dunque, come intreccio dialettico di identità e differenza, di solidarietà e tolleranza: è uno dei contributi del sapere storico all’educazione ai valori, rivolto a sviluppare una coscienza civile come rivendicazione etica della convivenza democratica.

Ivo Mattozzi, in aggiunta alle ragioni epistemologiche e formative, ha indicato quelle metodologico-didattiche, corrispondenti, in sintesi, all’acquisizione della "padronanza di conoscenze + consapevolezza di come esse sono prodotte + capacità di usare le conoscenze per mettere in prospettiva il presente + capacità di usarle per argomentare propri punti di vista + padronanza di meccanismi generativi delle conoscenze storiche". Ciò attraverso diverse fasi operative, come la preparazione di competenze, l’acquisizione di conoscenze extrafonti, la tematizzazione e problematizzazione, la ricerca e l’individuazione delle basi documentarie, l’uso delle fonti e la produzione di informazioni, la loro elaborazione e strutturazione, la comunicazione delle conoscenze costruite, ecc.3. E’la scommessa, cara a Mattozzi e da me ampiamente condivisa alla luce dei risultati conseguiti, di trasformare gli studenti in "piccoli storici".

Non si possono, tuttavia, negare le obiezioni e nascondere i rischi della storia locale a scuola, che sono state ben evidenziate da Giulio Ferroni, per il quale le rivendicazioni delle specificità delle situazioni locali hanno spesso fornito spunti per spinte municipalistiche, particolaristiche, egoistiche e populistiche4. Alle quali va contrapposta l’impostazione che è riassunta efficacemente nella formula ecologista-ambientalista "Pensare globalmente e agire localmente", la quale impegna a coniugare la storia locale tra particolarismo e planetarizzazione, a sviluppare la dialettica tra i mondi locali e il mondo globale, a misurarsi sempre di più con la nuova categoria del "glocale", portatrice di notevoli potenzialità culturali e formative nell’attuale fase di transizione epocale, che impone la dilatazione delle dimensioni temporali e spaziali e la capacità, quindi, di collegare il passato con il presente, il locale con il planetario, di cui la scuola che si rinnova dal suo interno deve farsi interprete rigorosa secondo le esigenze del curricolo verticale (elementari, medie e superiori: in progressione, dall’approccio predisciplinare a quello più propriamente disciplinare, dalla dimensione pluridisciplinare a quello interdisciplinare) e le potenzialità di quello orizzontale (a partire dall’area geo-storico-sociale), le quali consentono di realizzare "sensate esperienze" di ricerca didattica particolarmente significative.

Ma cosa significa fare ricerca a scuola? Qual è lo specifico della ricerca didattica? In questo contesto intendo la parola "ricerca" in due significati distinti e complementari: quello generale e quello particolare.

a) Il primo richiama la necessità di orientare l’insegnamento e l’apprendimento a individuare gli elementi della complessa struttura disciplinare della storia: è la dimensione propriamente del sapere, che corrisponde alla "grammatica" della cultura storica, la cui acquisizione equivale al controllo delle strutture epistemologiche della disciplina;

b) il secondo e più specifico è legato alla "sintassi", il cui possesso prospetta la capacità di riconoscere e applicare le regole e le convenzioni che sono alla base della produzione del sapere storico, per sviluppare la dimensione del saper fare, come capacità di produrre qualcosa di originale.

Dal sapere complesso (riferito alla storia generale come macrostoria) al saper fare semplificato (identificabile con la ricerca "simulata" o "limitata" nell’ambito soprattutto della storia locale come microstoria), dunque: questo mi sembra lo spettro entro cui far interagire l’epistemologia storica con l’epistemologia didattica come pilastri su cui costruire un insegnamento della storia rinnovato e capace di aprire straordinari orizzonti culturali nei giovani in formazione. Va rimarcato che in questa prospettiva 
il saper fare ("ricerca" in senso particolare e specifico) presuppone il sapere ("ricerca" in senso generale e complesso) costituisce quindi solo uno degli obiettivi, forse il più alto (ma non certo l’unico), di una rinnovata proposta di formazione storica a scuola, che (nella consapevolezza della differenza tra la ricerca specialistica o accademica e la "ricerca" didattica o scolastica) giustifica e fonda l’educazione al recupero della memoria storica sui pilastri dell’ educazione alla "ricerca", dell’ educazione alla scrittura di tipo saggistico e dell’educazione alla coscientizzazione ambientale (quando viene posto al centro lo studio del territorio di appartenenza come un segmento del pianeta). In questa breve nota mi limito ad accennare al perché e al come perseguire questo obiettivo "alto".

Un progetto realizzato e generalizzabile

Da circa un decennio ho sperimentato il modello didattico della "ricerca", intesa anche nel secondo e particolare significato, nell’ambito del Laboratorio di storia attivato nel Liceo Scientifico "S.Allende" di Milano, attraverso la realizzazione graduale di diverse tappe del progetto complessivo denominato La città nello spazio e nel tempo, all’interno della programmazione curricolare di Storia, a livello strettamente disciplinare, o in collaborazione con altre materie (come Italiano e Disegno-Storia dell’Arte) rispetto a cui la Storia ha svolto un ruolo propulsivo in prospettiva pluridisciplinare. Il territorio urbano (con particolare riferimento ai quartieri della periferia sud di Milano, in cui si colloca il Liceo) si è rivelato particolarmente ricco di stimoli e di possibilità di realizzazione di esperienze significative di ricerche di storia locale (intesa soprattutto in senso ambientale e rapportata al nuovo campo di indagine dell’ecostoria), toccando tematiche rilevanti come quelle della Resistenza, dei beni culturali e, soprattutto, dell’industrializzazione5.

Partendo da singole unità produttive (grosse e medie come la storica cartiera Binda e la famosa fabbrica meccanica Grazioli, produttrice degli omonimi torni) si è voluto ricostruire le fasi del processo storico di industrializzazione che, dalla metà dell’Ottocento, ha caratterizzato il territorio milanese, il quale si trova oggi investito dalla spinta inversa della deindustrializzazione, nella trasformazione epocale della globalizzazione, che ha profonde ricadute di natura economica e sociale, rispetto alla quale la cultura scolastica non può restare estranea; è anzi chiamata a ripensare la sua funzione formativa ed etico-civile nella dimensione locale e universale del nostro vivere civile nel mondo, che è sempre più un pianeta da salvaguardare per le future generazioni.

Ripercorrere, sulla base delle indispensabili conoscenze di storia generale, le tappe dalla nascita alla morte di una fabbrica "fordista" significa aprire la cultura scolastica al territorio e alla storia dell’impresa, rendere operativa l’idea di laboratorio didattico, immergersi nel tessuto industriale, ambientale e sociale di una città in crisi di identità, tentare di capire le trasformazioni della metropoli che cambia "pelle" assumendo quella del cosiddetto "terziario avanzato", appropriarsi di frammenti di storia industriale e di vita operaia; significa reggere l’impatto con la desertificazione produttiva di ampie periferie corrispondenti alle "aree dismesse" (l’unico e poco "accogliente" rifugio per immigrati irregolari, clandestini e disperati), su cui converge la pressione della speculazione edilizia e finanziaria o la forza politica e amministrativa della pianificazione urbanistica di una città postmoderna; significa entrare negli scenari del postfordismo e capire le logiche, più o meno perverse, del "lavoro autonomo di seconda generazione"; significa, insomma, imparare a leggere e a vivere la città sempre più mondializzata.

Attraverso un lavoro del gruppo-classe coordinato si può condensare la ricerca in un vero e proprio libro, di valore scientifico-divulgativo, secondo una metodologia di lavoro rigoroso che è compito del/i docente/i mettere a punto, a partire dal problema delle fonti, finalizzato a perseguire l’obiettivo strategico dell’educazione alla scrittura saggistica come uno dei corollari dell’educazione alla "ricerca", la quale costituisce il fulcro dell’innovazione. Si tratta di saper individuare e mettere in atto senza improvvisazione le sequenze operative necessarie e idonee: dall’individuazione delle condizioni preliminari alla valutazione delle potenzialità del "materiale umano", dalla delimitazione del gruppo di lavoro (per lo più una classe) alla scelta del tema, dall’avvio della ricerca al trattamento delle fonti (scritte, orali, materiali, multimediali, ecc.), dal coinvolgimento delle discipline curricolari (a partire dal ruolo centrale della Storia) all’indicazione dei tempi e del carico di lavoro per "i piccoli storici", dalla lettura di libri e articoli al reperimento di documenti "sul campo", dalla produzione di elaborati per sottotemi all’armonizzazione delle parti dando vita a un testo organico, dalla stampa dello stesso alla socializzazione dei risultati attraverso la loro presentazione in pubblico da parte dell’équipe di lavoro (studenti e docenti), davanti a cittadini, studiosi, amministratori, ecc. Per trasformare la scuola in un luogo oltre che di "consumo" anche di "produzione" culturale.

Come ho ampiamente verificato in quasi un decennio, praticare la didattica della "ricerca", intesa anche in senso particolare e specifico (almeno una nel ciclo scolastico triennale della secondaria superiore), è un modo concreto e proficuo di ripensare l’insegnamento e apprendimento della storia, di segnare cioè i contorni di un nuovo paradigma didattico restituendo valore culturale e formativo ad una disciplina scolastica che, secondo la didattica di senso comune ancora dominante, dopo undici anni di studio (dalla terza elementare alla fine delle superiori) non fa maturare una cultura storica degna di questo nome. Significa fissare alcuni capisaldi come altrettanti punti fermi (ad esempio, l’intreccio tra epistemologia storica e quella didattica, tra mondo globale e realtà locali, tra sapere e saper fare, tra storia e memoria, tra passato e presente; gli indicatori del Novecento e della complessità del mondo contemporaneo, il rapporto tra storia ed etica, il compito formativo e l’uso pubblico della storia, ecc.) legati in una visione "olistica" che, valorizzando le esperienze realizzate e riprogettandone altre, metta in gioco le potenzialità di un artigianato didattico6 inteso come cantiere aperto di "lavori in corso", guidato da un buon "direttore dei lavori", in un rapporto (verticale e orizzontale) tra docente e studente di doppia centralità, che è un modo di lavorare insieme e vivere esperienze di democrazia culturale a scuola, ispirate dal valore della responsabilità nella ricerca di nuove forme di cittadinanza adeguate al passaggio di civiltà che stiamo vivendo nelle città e nel mondo.

Dunque, educazione alla "ricerca" come educazione alla responsabilità: un modo per rinsaldare l’unione tra istruzione e educazione, come guadagno e cifra di una scuola rinnovata e riqualificata. Lavorare oggi in questa prospettiva per i docenti, capaci di interrogarsi e di rinnovarsi, può equivalere a liberarsi dalla sindrome depressiva della fuga e maturare la convinzione che "la riforma siamo noi", nella consapevolezza che i veri problemi della scuola sono, prima ancora di quelli legati all’ingegneria istituzionale, quelli culturali e formativi. E’ la prospettiva di un lavoro difficile ma bello, come dice Le Goff (di questi tempi va ribadito), soprattutto se alla fine dell’anno, o di un ciclo scolastico, ci consente di ripetere agli studenti le parole scritte da Gramsci al figlio: "Io penso che la storia ti piace, come piaceva a me quando avevo la tua età, perché riguarda gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa. Ma è così?"7.

Si tratta, dunque, di scoprire il piacere della "ricerca" per rimotivare i giovani in formazione e per rinvigorire una professione che non è solo di chi la esercita, per la sua natura etico-civile (che non può essere dimenticata o perduta).

 

 

NOTE

1 P. Bevilacqua, Sull’ utilità della storia per l’avvenire delle nostre scuole, Donzelli Ed., Roma 1997, p. 72. torna su

2 G. Serri, In tema di storia" minima", prefazione a F. Sonis, Uras. Un paese del Campidano tra XIX e XX secolo, Ed. Della Torre, Cagliari, 1994, p. 11. torna su

3 I. Mattozzi, Che il piccolo storico sia!, "I viaggi di Erodoto", n. 16, 1992, pp. 170-180 e La cultura storica: un modello di costruzione, Faenza Ed., Faenza 1990, p. 33. torna su

4 Cfr. G. Ferroni, La scuola sospesa. Istruzione, cultura e illusioni della riforma, Einaudi, Torino 1997, pp. 108-9. torna su

5 Cfr. G. Deiana, Io penso che la storia ti piace. Proposte per la didattica della storia nella scuola che si rinnova, Ed. Unicopli, Milano 1997. torna su

6 Cfr. G. Deiana (a cura di), La ricerca storica. La scuola come laboratorio Ed. Polaris, Faenza 1999. torna su

7 A. Gramsci, Lettere dal carcere, Einaudi, Torino 1978, p. 294. torna su