Il
volume si propone come una rassegna di "sensate esperienze e
necessarie dimostrazioni" compiute nell’area milanese da
insegnanti che attingono a piene mani al loro bagaglio culturale e
professionale, con l’occhio puntato al dibattito che, al tempo della
composizione del volume, animava il campo dell’istruzione. Il cambio
di prospettiva nella politica generale sulla scuola non rende, però,
superato ciò che essi ci mostrano.
Di
là dalla vicenda dei cicli e dei curricoli, il mutamento di rotta
politica più chiara è visibile nella scomparsa dall’orizzonte
ministeriale di una scuola concepita come luogo di ricerca e d’elaborazione
del sapere, come punto di raccordo fra territorio e formazione
culturale: l’insegnante, nei documenti ministeriali non è più
"produttore" ma semplice "trasmettitore" di
conoscenze già confezionate, indipendenti dalle trasformazioni del
rapporto fra società giovane e adulta, dai problemi del dialogo e
della comunicazione. Indipendenti dalle domande di senso che si
affacciano in un mondo in rapidissima trasformazione.
Nel libro si affaccia più volte il problema del rapporto fra l’autonomia
delle scuole, la loro evoluzione verso la produzione del sapere e la
necessità di linee d’indirizzo comuni. Questo problema ora sembra
superato perché, mentre scompare ogni preoccupazione di definire il
campo generale in cui tutte le autonomie possano ricondursi, si
riconosce alle "famiglie" il diritto di operare scelte in un
mercato dell’istruzione liberamente articolato tra divergenti
indirizzi confessionali e laici, tra scuole d’élite e un tipo d’apprendistato
che nemmeno la Confindustria apprezza. Anche l’autonomia, del resto,
si riduce a poca cosa nell’attenzione dei progetti che si
susseguono.
Si va formando da tempo, tuttavia, nella scuola italiana un tessuto di
esperienze e di elaborazione, un desiderio di provare a mutare i
vecchi canoni, che cerca un suo spazio collaudato, che tende a
collegarsi in una rete dal basso intorno a luoghi di raccordo, che
assorbe indicazioni e metodi di lavoro sperimentati. A questi
insegnanti, questo volume può dire molto, ed è tanto più necessario
quanto più la deriva conduce altrove.
Il
caso del laboratorio di storia è uno di quelli che rappresentano con
maggiore evidenza questo bisogno. Completamente sconosciuto ai più,
il tam tam tra le scuole, tra le reti professionali, tra enti
di ricerca e promozione dell’innovazione, sta aprendo diversi
luoghi, mentali e fisici, che si connettono all’idea di una storia
insegnata come nelle antiche botteghe dell’arte, con un giusto
dosaggio di sapere e saper fare, connettendo memoria e storiografia,
fonti ed immaginario, categorie interpretative e materiali del
passato. Questo tipo di laboratorio non può dar luogo ad un sapere standard,
come da programma. Il suo riferimento pedagogico è al curricolo, come
pluralità di percorsi e di opportunità, autonomo nelle scelte. Ma le
scelte sono difficili nell’assenza di riferimenti metodologici e
culturali.
Questo lavoro collettivo ne offre molti, dalla ricerca didattica
simulata legata a un "fare scuola aperto alla società e
al mondo per significative esperienze culturali di educazione ai
valori" a un possibile percorso di storia ambientale (Giuseppe
Deiana) a problemi di sviluppo curricolare sul tema del Medioevo
(Giancarlo Pennacchietti), alla prospettiva della storia di genere fra
teorie e pratiche didattiche (Concetta Brigadeci), a una riflessione
accurata sull’impatto che le nuove tecnologie possono avere su una
storia che si muova nell’ambiente del laboratorio. È interessante
notare come, spesso, coloro che non hanno idea di questa metodologia
confondano l’attività che essa propone con l’introduzione tout-court
delle nuove tecnologie in aula, mentre per la maggior parte delle
reali esperienze, questo è un nodo da sciogliere, un "buco
nero" nella progettazione, nell’ impossibilità di connettere
le competenze informatiche degli/delle studenti, che sanno come fare
ma non conoscono gli obiettivi, con quelle dei/delle docenti, che
conoscono le vie del percorso ma ignorano le possibilità della
tecnologia. Antonino Criscione offre un grande aiuto nell’operare
questa connessione, attento a scarti ancora irrisolti ed alle
possibilità di nuove risorse che vengono dal web.
Accanto a problemi di tipo generale, affrontati soprattutto da Angelo
Malinverno, Maurizio Gusso e Giuseppe Deiana, si incontrano
osservazioni generate dal lavoro reale nelle classi, dai rapporti con
l’ambiente scolastico, dalla risposta degli/delle studenti. Concetta
Brigadeci, ad esempio, da un lato offre il risultato di un’esplorazione
sul terreno degli women’s studies, dall’altro, in linea con
un progetto che coniuga soggettività e rilevanze storiografiche, dà
voce ai suoi, alle sue alunne con spiragli che possono generare
ulteriori approfondimenti sul significato di una storia piena di
domande su noi stessi, sul mondo.
Certo, la pratica del laboratorio sta dando vita a molti modelli, a
molti tipi d’intervento, ispirati a diversi presupposti teorici.
Questo presentato da Deiana si fonda sull’idea di una ricerca
"simulata", che non cerca di "emulare" quella
degli storici perché se ne riconoscono le differenze profonde, che si
colloca in una "parte libera" del curricolo, distinta dallo
"zoccolo duro" del sapere minimo di storia generale ma
integrabile ad esso. Si potrebbero indicare altre logiche per il
laboratorio, ma osserverei soltanto che il concetto di
"simulazione" sottovaluta la portata dell’operazione
didattica che descrive. Per gli/le studenti niente si simula. Se
ricercare è trovare risposta ad una domanda, allora il compito è
reale, vissuto, coinvolgente. È ricerca didattica, con un’epistemologia
distinta da quella degli storici, ma sicuramente ricerca. La
simulazione non è categoria sufficiente a descrivere il complesso
rapporto convergente-divergente tra il lavoro dello storico e quello
della didattica.
Per insegnanti che provano ad entrare in una nuova logica, una nuova
idea di scuola, questo libro è un utile arricchimento di esperienze e
di riflessioni, per uscire dall’individualismo didattico che è tra
le maggiori cause della rigida ripetitività delle procedure
scolastiche. Ed è anche una risposta concreta a quanti ritengono che
le ansie di nuovo siano soltanto effetti scriteriati di una concezione
tutta "didattichese" dell’insegnante-ricercatore. |