La scuola di base

 

I problemi che questa pone sono fondamentalmente due:

  1. quanta parte "assegnare" alle ex-elementari, e quanta alle ex-medie;
  2. come "legare fra di loro" le diverse discipline dell’ambito.

Per quanto riguarda il primo problema, un orientamento generale (peraltro suggerito dalle stesse indicazioni parlamentari, che su questo punto non erano però vincolanti), era sintetizzato nella formula 2+3+2 (ossia, cinque anni alle elementari e due alle medie). La Sottocommissione ha optato invece, per una formula 2+2+3, cercando di scollegare il curricolo dalla rigida ripartizione in quote delle professionalità. Questa scelta, unita a quella più nota e discussa (di collegare la media al biennio, con una storia generale studiata in cinque anni), ha suscitato vivo allarme in una vasta area - associazionistica, sindacale, e universitaria - impaurita dalla prospettiva di vedere infranto un asse ormai secolare, che lega la scuola elementare al Magistero e di veder svanire il progetto del suo rimodernamento nel nuovo asse, scuola di base-Scienze della formazione. Quest’area temeva, ancora, che la nuova partizione assegnasse alla media 3 anni, e solo 4 alle elementari. Queste preoccupazioni furono aggravate da due caratteristiche evidenti del curricolo che si stava disegnando. La prima era la forte "disciplinarizzazione" dell’ambito, derivante dal fatto che in ogni suo settore (dalla scuola dell’infanzia fino al triennio terminale della base) si indicano chiaramente gli aspetti disciplinari da tenere presenti. La seconda derivava dal collegamento con le superiori (quello che nel gergo ministeriale viene chiamato "scavalco") che aveva l’effetto evidente di "tirare verso l’alto" l’intero insegnamento della storia di base, e non di "abbassarlo", come invece si è detto nel dibattito sulla stampa. E in realtà, il contrasto è evidentissimo, soprattutto con l’intepretazione che molti storici hanno dato di queste vicende: appunto la mancanza di storia e la preponderanza della pedagogia. Ma si dovrà tenere pure conto di quelli che da un secolo operano nella scuola elementare, e che, al contrario, leggono la situazione in modo del tutto opposto. D’altra parte, questo problema, a sua volta, è legato strettamente alla formazione dei docenti, questione di forte rilevanza per gli universitari: nel prossimo futuro: ci si dividerà i compiti, fra le facoltà umanistiche e quelle pedagogiche? Oppure si collaborerà? Oppure le facoltà pedagogiche formeranno i docenti della scuola di base e quelle umanistiche i docenti delle superiori? Sicuramente, l’opzione della Sottocommissione richiede "un docente di storia, geografia, scienze sociali" che sappia insegnare anche a bambini piccoli (e quindi abbia bisogno di conoscenze pedagogiche e psicologiche), e contrasta con le altre opzione, sia con quella sostenuta dai pedagogisti e, paradossalmente, anche con quella VIllari - che prospettano, invece, la formazione di "un pedagogista, che conosca elementi di storia geografia e scienze sociali", per la scuola di base, e lasciando campo completamente libero alle facoltà umanistiche, per quanto riguarda le superiori. E su questa spartizione di campi, si è saldato l’accordo fra la componente "pedagogistica" del ministero e quella "classicista", anch’essa fortemente ostile al programma, paventando la perdita di centralità del modello formativo del Liceo Classico.

Il secondo problema, quello di legare tra di loro le discipline, è stato risolto dalla Sottocommissione – anche in questo caso di comune accordo fra antropologi e geografi – mettendo la storia al centro dell’ambito e coordinando con questa le altre discipline (tutto questo in piena armonia con un principio accettato dalle altre materie, e cioè, quello della centralità formativa della storia). Dunque: fra gli otto e i nove anni i bambini studieranno delle società, e a questo studio verranno aggregate le conoscenze relative geografiche e delle scienze sociali; ai dieci anni, quando incominceranno a studiare la storia generale, invece, le discipline geo-sociali proporranno conoscenze utilizzabili nella spiegazione storica. Quindi, mentre i docenti attuali, quando spiegano la preistoria debbono poi fare un salto al paesaggio italiano in geografia, e se rimane tempo, introdurre qualche nozione di educazione civica, in futuro, quando spiegheranno preistoria, metteranno a fuoco il concetto di ecosistema, e cercheranno di far capire in che modo avvenne il popolamento del mondo. Perciò, si tratta di un’integrazione squisitamente didattica, che non va confusa con una particolare impostazione storiografica, o per un improvvisa conversione braudeliana della commissione, come temono gli estensori dei curricoli alternativi, senza peraltro preoccuparsi di una qualsiasi forma di collaborazione con fra le tre discipline.