Il dibattito con gli storici

 
Per quanto sintetico - e ovviamente personale - questo resoconto potrebbe dare la misura della distanza che intercorre fra il lavoro della Sottocommissione, il quadro dei vincoli all’interno dei quali essa ha operato - e il dibattito con gli storici, quale è apparso sulla stampa. In questo si è parlato di tutto: della natura pericolosamente americanizzante delle competenze, della cronologia scomparsa, della storia che non si studierà più, dell’eccessivo pedagogismo, della morte della storia classica e della tradizione, della mancanza di storici in commissione, dell’equiparazione fra bantu e greci, dei laboratori che sono fumosi o velleitari, del prossimo dissolvimento dell’identità italiana e di un triennio del quale nessuno in commissione aveva deciso niente. Tanti articoli che non hanno nemmeno sfiorato il cuore dei problemi: quelli che qualsiasi commissione, con qualsiasi proposta, avrebbe comunque dovuto affrontare. In questa foga argomentativa tutti hanno perso di vista le questioni di fondo e i successi raggiunti: il rischio, evitato, che la storia sparisse dal novero delle materie "importanti", l’affermata necessità di una formazione collettiva chiara, il coordinamento armonico di spezzoni di scolarità per la prima volta collegati, la prospettiva semplificata della formazione dei docenti, il coordinamento fra storia geografia e studi sociali. Si è andati spensieratamente alla guerra, senza considerare che la spartizione fra superiori e scuola di base (di questo in fin dei conti si tratta), lascia in balia della sola cultura pedagogica la parte più ampia della scuola: quella attraverso la quale avvengono effettivamente gli ingressi nel lavoro (si entra nelle elementari, e poi si fanno i concorsi per salire di grado, mentre molto minore è il numero di chi entra direttamente dalle superiori). Si sono combattute, e si combattono con passione, battaglie che non potrebbero che portare a vittorie di Pirro: si rifletta, ad esempio, sulla somiglianza fra la proposta Villari e quella elaborata dall’Aimc. Man mano che la contesa si è infuocata, si è cominciato a esaltare il buon tempo perduto, il liceo classico che tutti ci invidiano, perfino la riforma gentiliana (che sarà andata bene ai suoi tempi, ha commentato perfino Cardini, ma che difendere oggi è un po’ fuori luogo), né è stata risparmiata la pratica (un tempo chiamata staliniana) dell’attacco personale a qualche membro della commissione. La paura dell’apocalissi ha impedito di leggere o di tenere conto di un dispositivo, insieme rassicurante e rivoluzionario (data la tradizione dei programmi scolastici italiani): quello che contempla la verifica triennale del curricolo. Una clausola che assicura tempi per discutere, cercare soluzioni alternative, verificare la validità di ipotesi e di teorie con lo strumento fondamentale a disposizione degli studiosi: la ricerca. Potrebbe essere finito il tempo nel quale i programmi, una volta promulgati, restavano in vita per decenni. Ma è abbastanza agevole ritenere che un periodo nuovo e più produttivo potrà incominciare solo se la Commissione riuscirà a condurre in porto il suo lavoro, entro la presente legislatura.

Durante il dibattito, alcuni argomenti sono stati ripetuti infinite volta, al punto che hanno assunto, quasi, il carattere di verità indiscusse. Ad esempio, il fatto che la storia generale sia l’unica che permetta un apprendimento cronologico: un argomento che si smonta da solo, unicamente riflettendo su come all’Università si organizza lo studio della storia (sia attraverso lo studio generale e sia attraverso una moltitudine di impostazioni tematiche, problematiche, laboratoriali, un tempo chiamate corsi monografici, ma che oggi andrebbero in buona parte ridefinite). Oppure, l’argomento che la storia generale, per impararla bene, bisogna ripeterla più volte (quante? Tre è troppo, si è scritto, e due è la misura giusta: ma in base a quali studi?). Si suppone, sostenendo questa tesi, che l’allievo, che ha studiato "un ciclo di cinque anni" poi lo ristudierebbe con più frutto in altri cinque anni: come se il ciclo, in quanto tale, fosse un oggetto di conoscenza. Ma è un po’ troppo pretendere che un allievo di 12 anni possa sintetizzare in un unico panorama le conoscenze apprese, fin da quando ne aveva 7 o 8 di anni. E in realtà, è esagerato pretenderlo anche per un allievo di terza liceo classico: mentre per noi studiosi, o per i professori che la storia la spiegano ogni anno, ciò è del tutto ovvio. Questa è la differenza: dal punto di vista del discente, non si "ripete un ciclo", ma si ripetono, ogni cinque anni, determinate singole conoscenze. E proprio questo è un procedimento innaturale di apprendimento, anche per noi: come se oggi studiassimo un certo argomento, col proposito di riprenderlo dopo quattro o cinque anni, convinti che in questo modo lo approfondiremmo sempre più. In realtà, questa proposta di "ripetizione dei cicli", fu importata dalla Germania nel 1884, da Villari, nella convinzione che, nella patria della didattica, si era inventato finalmente un metodo efficace per l’apprendimento storico (anche allora avevano i loro problemi!). Una convinzione condivisa da moltissimi stati, che l’hanno adottata, sperimentata per oltre un secolo, e poi pian piano abbandonata.

Nessuno, nemmeno gli storici che furono in passato impegnati nelle riforme, e che ora invece cercano di ostacolarle fieramente, ha ricordato che anche l’Italia ha, da tempo, cominciato ad abbandonare ufficialmente questa organizzazione. Infatti, nel 1979, il programma della media (di Arnaldi) invita il docente a scegliere alcuni "contenuti di studio", sui quali doveva impostare dei laboratori, all’interno di paletti cronologici stabiliti per ogni annualità. Tali momenti laboratoriali, poi, dovevano essere tenuti insieme da "lezioni di collegamento": alquanto improbabili, nella media, come ha dimostrato l’esperienza successiva. In ogni caso, quei programmi tendevano a infrangere, per la prima volta in Italia, il principio di una narrazione continua e ciclica. Nel 1985, i programmi delle elementari, che ebbero in Pitocco uno dei principali animatori, spazzavano del tutto qualsiasi ipotesi di storia generale: vissuto, ambiente, maglie larghe erano i termini ricorrenti, fra i quali mancava un sia pur minimo accenno a un contenuto da studiare. Infine, nelle superiori sono vigenti attualmente un discreto numero di programmi (non sono ancora riuscito a farne l’inventario completo, dal momento che più li ricerco e più ne spuntano fuori di nuovi): i vecchi programmi del 1960 (liceo), quelli delle professionali (1997), i Brocca nella versione contemporanea, o nella versione più tradizionale, perfino le linee di sviluppo, importate in Italia dall’Inghilterra, nel 1986, dal Ministro Franca Falcucci, che sopravvivono in qualcuno degli oltre duecento istituti, che compongono la foresta delle superiori. Su tutti veglia la direttiva 682, emanata da Berlinguer, sulla riperiodizzazione (operazione per la quale fu interpellata la Consulta degli storici, presieduta allora da Villari), che assegna al docente la facoltà di scegliere le tematiche di studio, sia nella media e sia nelle superiori, visto che l’introduzione del Novecento ha "compresso eccessivamente" lo studio dei periodi precedenti.

Però è vero che nella prassi comune della scuola italiana si studia la storia generale sempre - nelle elementari, medie e superiori – ma ciò accade solo nominalmente. Nella realtà, invece, ogni docente sceglie quello che ritiene giusto fare, all’interno di un quadro cronologico che sicuramente funziona nella sua testa, ma che con grande difficoltà riesce a partecipare alla scolaresca. Le critiche, allora, andrebbero rovesciate: è oggi, che si corre il rischio di "studiare la Grecia", una sola volta, in pochissime ore, oppure anche mai; e, al contrario, è il nuovo curricolo che, coordinando e razionalizzando il sistema delle scelte, garantirà lo studio della Grecia, o del Medioevo, o del Rinascimento, almeno una volta (a 11 anni o 12 anni, e per un numero di ore molto più alto di quanto non permetta la periodizzazione attualmente vigente). E’ oggi, che l’apprendimento di una struttura cronologica salda della storia umana è pericolante; mentre, al contrario, il curricolo ufficiale affronta razionalmente questo problema, proponendo un’ipotesi di lavoro concreta e funzionale: ci si prepara adeguatamente a studiare la storia generale, imparando gli strumenti della cronologia (prima fase); si apprendono le trame cronologiche fondamentali della storia (seconda fase); si usano queste trame come strumenti di conoscenza (terza fase). Una buona progettazione del triennio, infatti, potrà, come tutti auspichiamo, permettere anche una ripresa, a livelli di studio più alti, anche delle questioni fondamentali della storia, tutta la storia: come in ciascuno dei segmenti in cui è diviso questo curricolo.