A PROPOSITO DI UNA DIDATTICA ORIENTATA ALLE COMPETENZE

di Elena Bertonelli*
Ispettrice , Direzione , Istruzione classica, scientifico e magistrale, Ministero della Pubblica Istruzione.




1. verso l’integrazione dei percorsi formativi

Non sono poche le norme approvate di recente che contengono riferimenti, diretti o indiretti, alla nozione di competenza: tutte queste norme non si limitano a prefigurare, ma di fatto cominciano a sancire l’esistenza di un nuovo sistema formativo. In estrema sintesi, si può dire che tale sistema trova il proprio fulcro nella "capitalizzazione" delle varie esperienze di istruzione, educazione e formazione di cui ciascuno riesce a fruire durante la propria vita di studio e di lavoro.

Lo snodo decisivo consiste allora nella certificazione delle competenze, che appunto consente la possibilità di garantire la mobilità all’interno del sistema - le cosiddette "passerelle" -, il raccordo tra sistemi diversi e la circolazione dei titoli in Europa. Le connessioni tra un quadro strutturale così ampio e innovativo e i problemi più specificatamente tecnici della didattica non sono però né evidenti, né facili da realizzare. Si tratta tuttavia di un problema chiave, con il quale occorre misurarsi.

Gli aggiustamenti e le riforme parziali imposti dalle grandi trasformazioni sociali, politiche, culturali ed economiche operatesi negli oltre settant’anni che ci separano dal 1923, ci hanno consegnato una organizzazione formativa che ha perso progressivamente quella compatta logica di sistema che (nel bene e nel male), sorreggeva con forza l’asse gentiliano. Ne è risultata una coesistenza, nella nostra attuale organizzazione degli studi, di parti profondamente riformate e di parti neanche sfiorate dalla innovazione; di settori proiettati in avanti e di settori ancorati al passato; di laboratori aperti al nuovo e di aree arroccate attorno alle prassi tradizionali.

La lunga consuetudine a convivere con un impianto degli studi così divaricato e, per così dire, "rappezzato" ha abituato un po’ tutti a rivolgere scarsa attenzione al quadro generale e alla sua coerenza interna. Pensiamo ad esempio alle tante polemiche sollevate dai processi di riforma in corso. Non poche critiche di autorevoli opinion makers sembrano derivare proprio dalla disabitudine diffusa a pensare che un progetto formativo è tale perché è portatore di una ratio complessiva; a loro volta tante preoccupazioni diffuse nella scuola sono causate dall’abitudine consolidata a considerare questa o quella parte piuttosto che il tutto. Non a caso, sia queste critiche (di sapore spesso nostalgico), sia queste preoccupazioni (frutto di un sentire circoscritto non di rado alla propria diretta esperienza personale) finiscono al dunque per occultare puntualmente le esigenze pressanti a cui l’odierno contesto appare incapace di dare risposta: a cominciare da quelle migliaia e migliaia di giovani che ogni anno vengono precocemente espulsi dalla scuola.

In realtà un progetto formativo che pretenda di essere organico non solo deve consentire una lettura trasparente delle sue finalità educative e dei suoi tratti generali, ma deve anche esplicitare le scelte istituzionali e politico-sociali, nonché i riferimenti teorico-culturali che lo ispirano. Ma l’organicità di progetto si coglie (e si misura) soprattutto nel fatto che ogni sua parte contribuisce a definirne l’assetto generale.

Il sistema formativo integrato ha l’ambizione (e, a mio giudizio, ha tutte le carte in regola) per presentarsi appunto come un progetto organico. Ma se questo è vero, diventa allora indispensabile che i vari elementi che lo costituiscono siano tra loro strettamente collegati: a cominciare da quella nozione di competenza che, per non vivere come un momento accessorio, va strutturalmente inserita all’interno del rapporto insegnamento-appprendimento, nel cuore stesso della scuola.

 

2. la competenza nel rapporto insegnamento-apprendimento

Senza una diffusione capillare in tutto il sistema di una prassi didattica fondata sulle competenze, si rischierebbe di avere di esse una visione del tutto riduttiva, limitata magari al solo settore della formazione professionale e ai suoi diretti rapporti col mondo del lavoro. Ma in tal caso, la capitalizzazione di tutte le esperienze formative postulata dal sistema integrato risulterebbe una mera petitio principii, perderebbe molta della sua ragion d’essere, configurandosi al dunque non come il compiuto e coerente superamento di un sistema da troppo tempo in sofferenza, ma come l’ennesimo aggiustamento di una sua parte.

Quale è, in buona sostanza, il nocciolo del sistema formativo integrato, la sua primaria finalità? A me sembra che si concentri in un’idea forte, ormai largamente enuciata anche dal legislatore: l’idea, cioè, che occorra sostenere ogni allievo sulla via del raggiungimento del successo formativo; che si debba garantire a ciascuno oltre il diritto allo studio anche il diritto all’apprendimento.

Raggiungere un tale obiettivo comporta la necessità di una radicale svolta sul terreno delle metodologie didattiche. Queste devono essere in grado di affrontare sul serio i nodi irrisolti - e solo apparentemente antitetici - della dispersione e dell’innalzamento del livello complessivo degli studi. Soltanto così si può pensare di adeguare la scuola italiana sia alle esigenze ormai consolidate della nostra democrazia, sia a quelle sollecitate dal nuovo contesto europeo.

Ebbene, crediamo che una svolta metodologica di questa portata renda in qualche modo irrinunciabile la diffusione di una prassi didattica fondata sulle competenze.

Che il rapporto dell’insegnamento con l’apprendimento debba mutare nel passaggio da un impianto selettivo a un impianto orientativo sembra una considerazione del tutto ovvia. In realtà, gli anni che ci separano dall’organico progetto di selezione di gentiliana memoria, ci hanno abituato a negare una tale ovvietà e a convivere così con una patente antinomia: quella tra i metodi che sono mutati solo parzialmente e le inedite esigenze imposte dalla scolarizzazione di massa. Nel contesto di un mutamento che voleva essere radicale, ed è invece rimasto incompiuto, la dispersione ha finito per essere però il surrogato un po’ filisteo della tradizionale selezione.

Il problema cui siamo oggi di fronte è allora proprio quello di trasformare sino in fondo il rapporto tra insegnamento e apprendimento in modo da essere pienamente coerente con un impianto che, cogliendo progressivamente le vocazioni, le potenzialità e le stesse difficoltà di ogni giovane, riesca a condurlo al traguardo di uno specifico successo formativo.

Ma un sistema scolastico, che sostituisca compiutamente lo strumento della selezione con quello dell’orientamento, non è davvero praticabile senza un salto di qualità sul terreno della didattica. Direi anzi sommessamente che, nel nuovo contesto del sistema formativo integrato, proprio la didattica acquista un ruolo e un peso specifico sinora sconosciuti. Se non altro per il fatto che essa dovrà investire tutta la scuola, comprese le sue parti strutturalmente meno predisposte all’accettazione della metodologia.

 

3. il nuovo ruolo della didattica

Dicevo che un sistema formativo è tale se al suo interno "tutto si tiene". Era nella logica e nei riferimenti teorico-culturali del vecchio sistema la drastica sottovalutazione della didattica. Nella lunga fase di transizione che stiamo ancora attraversando, tale sottovalutazione ha alimentato l’antinomia di cui dicevo: una antinomia, tra l’altro, davvero onerosa per gli insegnanti, i quali - come hanno potuto e senza troppi riconoscimenti - ne hanno sopportato il peso, svolgendo per decenni un’indispensabile funzione di supplenza.

Nella logica del sistema integrato - che è la logica della generalizzazione, articolata e non gerarchica, del successo formativo - la didattica è invece chiamata ad assumere un ruolo di primissimo piano nella funzione docente. Ma quale è questo ruolo peculiare?

Quello di un insegnamento che si fa carico dell’apprendimento, secondo i tempi e ritmi di ciascuno. Non a caso, uno dei cardini dell’autonomia - sancito con chiarezza dal nuovo Regolamento - è costituito proprio dalla possibilità di adottare percorsi personalizzati.

Rendere concrete queste esigenze comporta chiarezza rispetto ai traguardi che il processo formativo si prefigge in ogni sua parte. E si tratta di una chiarezza di impegni rigorosi validi tanto per chi insegna quanto per chi impara.

Mettiamoci nei panni di un docente: se provassimo a definire questi traguardi, dovremmo forse identificarli con il mero possesso di determinati contenuti disciplinari, con il bagaglio di un certo numero di conoscenze? Io credo di no, soprattutto se ciò che ci si deve attendere dal processo formativo è quel sapere critico in grado di sostanziare l’intelligenza duttile e la learnig ability richieste dalla complessità della "società conoscitiva" contemporanea.

Dovremmo dire allora che quei traguardi non sono le conoscenze, bensì la loro utilizzazione teorica e pratica in un contesto storico. E cos’altro è la competenza se non proprio questa capacità di utilizzare e di padroneggiare una conoscenza fino a farne anche il punto d’origine e di generazione di una spirale virtuosa di altre conoscenze e competenze?

Ma se questa è una possibile definizione di competenza ne discende che tale definizione è valida per ogni segmento formativo e per ogni ambito disciplinare: per il greco come per l’economia aziendale, per l’accoglienza alberghiera come per la filosofia, per l’elettrotecnica come per l’educazione all’immagine, per il "sé e l’altro" come per la filologia romanza. È valida insomma per la scuola come per la formazione professionale, per l’università come per le esperienze di lavoro. Ogni conoscenza teorica ha difatti implicazioni pratiche e ogni abilità pratica ha uno specifico spessore teorico.

Mi pare di poter affermare che il ragionamento, per così dire induttivo, condotto sin qui approdi a una definizione di competenza dal taglio pragmatico. In ogni caso, mi sembra che essa non entri in rotta di collisione né con le diverse articolazioni dell’attuale dibattito pedagogico, né con la ricerca in corso sui saperi essenziali.

 

4. dalle competenze ai nuclei fondanti

La definizione di competenza qui rapidamente delineata - la competenza come utilizzazione e padroneggiamento della conoscenza - ha difatti quel carattere di flessibilità che ne permette la circolazione in tutto il sistema formativo. Questa definizione consente, in primo luogo, di superare la tradizionale dicotomia tra "sapere" e "saper fare" e di superare quindi anche il consolidato pregiudizio che la competenza possa riguardare solo le qualifiche professionali.

In secondo luogo, può aiutarci a sciogliere il nodo del rapporto tra competenze trasversali e competenze disciplinari, nel senso che queste ultime costituiscono, a un tempo, il necessario presupposto e la naturale verifica delle prime. In realtà, non si abbattono i rigidi steccati oggi presenti nella scuola rinunziando al possesso degli statuti, dei linguaggi formalizzati e dei contenuti delle attuali discipline, che in ogni caso - non si può certo dimenticarlo - costituiscono il patrimonio dato della nostra storia e della nostra identità culturale. La questione è invece quella di favorire una acquisizione dei contenuti in termini così strutturali da permettere la permeabilità, la reciproca interrelazione, la valenza generativa delle discipline. Che è poi il modo di consentire ai giovani di "stare dentro", di interpretare le continue trasformazioni dei processi della conoscenza.

Sciogliere questi nodi sembra offrire a sua volta una duplice opportunità.

Se i contenuti cessano di essere il mero fine del percorso didattico - e divengono invece il crogiolo in cui si formano le competenze - i contenuti stessi non potranno non perdere quella caratteristica di enciclopedico ed esaustivo dispiegamento che li ha sinora caratterizzati.

Al contrario essi verranno quasi naturalmente a dover essere rivisitati secondo la chiave di quei nuclei fondanti e di quelle categorie costitutive che, mentre rispecchiano dinamicamente gli statuti disciplinari, ne consentono il necessario collegamento. Non si tratta, va da sé, di una impropria bignamizzazione dei contenuti, ma di una loro ristrutturazione in termini di essenzialità e di trasversalità.

Al tempo stesso non si deve, con un atteggiamento giacobino, ignorare che ogni riforma può aspirare ad avere successo solo se può contare sull’adesione e sul consenso di quanti vi vengono direttamente coinvolti. La definizione pragmatica di competenza, qui pur sommariamente delineata, offre anche un indubbio vantaggio. Un vantaggio per così dire "tattico". Ma mi domando se può mai esistere una strategia senza tattica.

Quale è questo vantaggio? È appunto il vantaggio di fornire da subito alla scuola, quale oggi è, l’occasione di cominciare a misurarsi con le profonde trasformazioni dell’epistemologia contemporanea, senza perdere il patrimonio culturale e professionale sino a oggi consolidato e senza arroccarsi in una stanca cristallizzazione di quest’ultimo o peggio in una sua riverniciatura gattopardesca.

Mettiamoci di nuovo nei panni di un docente. Abituarsi via via a considerare le conoscenze come uno strumento per formare le competenze - il che non significa, si badi bene, declassare o peggio eliminare i contenuti ma semplicemente servirsene in modo diverso - solleciterà gli insegnanti a individuare proprio negli statuti, nei linguaggi e negli oggetti delle discipline quei nuclei fondanti, quelle categorie costitutive, quei momenti più incisivamente formativi in grado di favorire la costruzione di quel sapere critico, di quella intelligenza duttile che hanno proprio nella trasversalità la loro ineliminabile cifra costitutiva.

Questo e non altro ci sembra il senso - davvero innovativo perché realistico - della disciplina transitoria del Regolamento. Il nostro incontro di oggi avrà allora avuto successo se contribuirà a fornire un primo strumento per incoraggiare le scuole - così come sono oggi - a misurarsi con i nodi di quel sistema formativo integrato alla cui piena coerenza sarà affidato non poco del futuro delle giovani generazioni.