6. Una storia tutta da scrivere

 

Come abbiamo cercato di dimostrare, la prospettiva interculturale non si risolve mettendo insieme i cocci delle diverse prospettive nazionali e locali, ma obbliga a ricercare strumenti per ripensare collettivamente la storia e confrontare le proprie osservazioni. Non si realizza con i racconti storici già in circolazione, ma postula nuove narrazioni: una storia tutta da scrivere e nella quale noi possiamo solo tentare i primi passi.

I prevedibili oppositori a questa prospettiva non li ritroviamo là dove la letteratura interculturale corrente ha spesso lasciato credere - in chi rifiuta o tollera le diversità, rigetta le storie degli altri, si oppone all’esotismo - bensì in luoghi insospettati.All’interno stesso delle classi politiche dirigenti dei singoli stati, all’interno della comunità scientifica c’è chi è talmente legato alla tradizionale storia insegnata che rifiuta di abbandonarla perché è convinto che da essa dipendano le sorti ed il futuro della propria cultura e della propria identità.

Lo si scopre facilmente analizzando i programmi di storia dei paesi dell’Europa occidentale. Essi sono organizzati su due livelli.
Nel primo livello, quello delle finalità e degli obiettivi, si accolgono in pieno le istanze interculturali: apertura al mondo, comprensione dell’altro, conquista di capacità critiche.
Nel secondo livello, quello dei contenuti, riemergono tutti i problemi prima denunciati. In questo modo, l’identica storia insegnata negli ultimi due secoli viene finalizzata ad obiettivi formativi opposti:

- costruire il senso della propria identità, sollecitare all’amor di patria e alla difesa dagli altri;
- stimolare la formazione alla mondialità e (più recentemente) costruire il senso di appartenenza all’Unione europea.

Paradossalmente, questo estremo tentativo di salvare il modello tradizionale della storia insegnata, definitivamente lo svilisce e lo affossa: è storia ‘serva’ se è in grado di piegarsi a due padroni.

Oppositori ancora più duri alla prospettiva illustrata li ritroviamo nelle comunità scientifiche e nelle scelte politiche dei paesi extraeuropei. Nei programmi e nei manuali di storia dei paesi post-comunisti e dei paesi che una volta erano considerati il terzo mondo è forte l’istanza identitaria e nazionalista, legata all’ansia di costruirsi, così come accadde negli stati europei del secolo scorso, una vera e propria identità nazionale.

A questa necessità sentita si somma la paura che si ripeta ‘il vecchio inganno’. Infatti, soprattutto nei paesi colonizzati dall’Europa, la vecchia storia, eurocentrica ed etnocentrica, fu contrabbandata come ‘storia mondiale , generale o universale’.

Di qui il rifiuto, oggi pressoché assoluto, di aderire a qualsiasi ipotesi di storia mondializzante. Il timore è grandemente rafforzato dai modi con i quali si sta sviluppando l’attuale processo di globalizzazione che ricentra economie e destini di sette miliardi di uomini attorno ai nuclei forti dell’Occidente sviluppato.La situazione reale vede spesso insegnanti innovatori, comunità scientifica e ottusi gestori di stati nazionali, tutti insieme dalla parte del recupero dell’identità e contro ogni idea o ipotesi di racconto-confronto collettivo del passato.

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