Documentazione, ricerca e didattica  negli Istituti di storia della Resistenza

     Alla fine della guerra, si pose il problema di come raccogliere, e tramandare, i documenti di quell'eccezionale esperienza che era stato il movimento di liberazione in Italia. Eccezionale perché nessuno Stato maggiore ne aveva guidato le azioni e predisposto tattiche e strategie, nessun Ministero ne aveva controllato gli adempimenti, nessuno insomma di quegli Enti sotto cui nell'ordinata vita civile si raggruppano e coordinano le azioni umane collettive era stato preposto alla scelta della Resistenza. E dunque, sotto il profilo della raccolta dei documenti, nessun archivio sembrava deputato a raccoglierne le tracce. Si pensò d'incaricare della cosa l'archivio di Stato centrale, che avrebbe dovuto conservare atti e memorie del periodo appena concluso, ma ciò evocava immediatamente immagini di depositi polverosi e sottratti alla ricerca per chissà quanti anni, così Ferruccio Parri e gli alti esponenti del movimento di liberazione scelsero un'altra strada, lasciare che nelle città italiane, nelle province, nelle regioni nascessero Istituti liberamente fondati da coloro che avessero da tramandare la memoria di ciò che si era vissuto, come centri di raccolta dei documenti, archivi dunque, e poi come biblioteche, sedi d'incontro e d'elaborazione e trasmissione della memoria, aperti a tutti ma in modo speciale ai giovani.

    A poco a poco nel tempo in Italia nacquero sessantadue Istituti, ed ognuno fu archivio, biblioteca, polo di ricerca e di diffusione della cultura storica; autonomi ma raccordati in una rete che aveva al centro l'Insmli di Milano, gli Istituti esplorarono la storia del loro territorio e, facendo ciò, costruivano la storia d'Italia, invertendo l'ordine che la divulgazione scolastica della storia prescrive: prima le linee generali, poi le analisi di dettaglio. Così, quando un numero sempre maggiore di insegnanti si aggiunse alle due componenti originarie degli Istituti, i testimoni e gli storici, il modello di riferimento fu fin dall'inizio innovativo anche sul piano della didattica. Questo cammino è ben leggibile, per chi ne abbia voglia, nelle prime annate della rivista che gli Istituti si diedero, "Il movimento di liberazione in Italia", pubblicato dall'Insmli. Il cammino che si sviluppò da questo incrocio dì saperi, di ottiche, di competenze ebbe momenti di svolta molto significativi.

    Si pose il problema, storiografico ma anche immediatamente didattico del rapporto fra storia locale e storia nazionale, e sull'onda di questa riflessione comune (1) sorsero negli Istituti le prime sezioni didattiche, caratterizzate appunto dalla coincidenza, nello stesso luogo fisico ma anche negli interessi e negli scopi, dell'attività archivistica, della ricerca e dell'impegno nella scuola. E in quale altro posto allora, in Italia, potevano incontrarsi tali esperienze in un campo comune di lavoro? Tra l'altro, l'Insmli aveva già fatto la sua parte contribuendo alla campagna nazionale che aveva prodotto nel 1960 l'estensione dei programmi scolastici "fino ai nostri giorni".

    L'attività nella scuola e per la scuola esplorò sentieri diversi, che spesso finirono per incontrarsi costituendo strade maestre che portavano lontano. L'accento posto sulla dimensione nazionale, per cui il locale assumeva una funzione di verifica e banco di prova, conduceva ad una riflessione su temi di grande respiro: le dimensioni dei fenomeni, gli intrecci delle durate, i nodi significativi, le periodizzazioni; in una parola, si affacciava il problema della contemporaneità, e immediatamente dopo quello della insegnabilità dei suoi temi, della molteplicità delle fonti, delle modalità di comunicazione, delle sue interpretazioni. In quegli anni la scuola incontrava finalmente, con decenni di ritardo, la lezione francese delle "Annales E.S.C.", e intravedeva un nuovo senso della disciplina storica, destinato a rimodellarne la struttura metodologica stessa; più tardi si aprirono gli spazi sconosciuti della world history, come la chiamava Immanuel Wallerstein, della storia del mondo a cui sono necessari punti di vista multipli; comunque, il problema era quello di arricchire le competenze degli insegnanti e delle insegnanti abituandoli a "liberamente lavorare sulla frontiera, sul confine " delle scienze sociali "un piede di qua, uno di là. Lavorare utilmente" (2).

    L'accento posto sulla storia locale, per cui la storia generale era contesto e cornice, apriva d'altra parte il grande problema del rapporto con la storia non scritta, di quella che è a portata di mano ed a cui siamo spesso inconsciamente ciechi; sapere e saper fare secondo le logiche interne della storia, fuori del dettato meccanico dei libri di testo, recuperando una storia che avesse carne e sangue, era allora la grande scommessa. A quel tempo la critica all'insegnamento stereotipato della storia passava attraverso una radicale revisione dell'uso del manuaIe (3), fino all'ipotesi della sua abolizione. L'esperienza didattica della storia locale si muoveva secondo diverse linee di tragitto: recuperare alla coscienza critica degli studenti, fin dai primi anni, la strumentazione della ricerca storica autentica, costruire una storia che avesse il senso dì un rapporto attivo con il passato attraverso la dimensione della memoria, recuperare alla storia tutti i suoi spazi, eliminando l'idea che potessero esistere "vuoti di storia", aprire lo sguardo, attraverso un gioco di zoom, sui soggetti della storia, i più nascosti, per far assumere ai giovani la consapevolezza di essere essi stessi protagonisti di storia.

    Da tutte queste esperienze nasceva una nuova figura, l'insegnante - ricercatore, e fu allora che nacque l'idea del "laboratorio di storia" (4), riprendendo temi e pratiche già diffusi nell'ambiente della didattica innovativa, dal Movimento di Cooperazione Educativa alla pedagogia di Francesco De Bartolomeis e di altri. Il filtro degli anni ha trasmesso, di quella stagione, il succo di una didattica che sembra "normalizzata", anche perché è rifluita in molte disposizioni ministeriali, ed è diventata sapere comune, pratica allargata a molti che ne vivono gli esiti magari senza conoscerne i presupposti e le implicazioni teoriche, e tuttavia rappresenta la radice di nuovi sviluppi, dopo che il tempo ha smorzato alcune asprezze, ha dimostrato l'inconsistenza di alcuni irrigidimenti di principio come quelli sulla questione dei manuali che oggi si pone in altri termini.

NOTE

1. Seminario di studio sul tema "Storia d'Italia, storia della Resistenza, storia locale", Rimini, 25 - 27 maggio 1979. Atti pubblicati nella rivista degli Istituti, che nel frattempo aveva cambiato la testata in "Italia contemporanea". torna su

2. L. Febvre, Verso un'altra storia, in Problemi di metodo storico, Einaudi, Torino, 1976, pag. 174. torna su

3. I. Mattozzi, Contro il manuale, per la storia come ricerca, in "Italia contemporanea", n. 131, 1978. torna su

4. R. Lamberti, Il laboratorio di storia, in "Italia contemporanea', n. 132, 1978. torna su