Parlare di scuola?
di
Valter Deon

Strano paese il paese nel quale tutti parlano di tutto, e tutti sentono di aver buchi di informazione. Il caso della scuola è emblematico.

In questi giorni la scuola è il tema sul piatto: sta sul tavolo finché altri piatti più saporiti non lo spostano; ricompare quando il tavolo è vuoto. Il dibattito è acceso: cicli sì, cicli no; riforma necessaria, riforma da non fare; scuola da cambiare (su questo tutti sono d’accordo) ma da cambiare un po’ più in là, un po’ più in qua, radicalmente, toccando morbidi. Ecc. La babele delle lingue è alta. Chi è in trincea, chi cioè lavora dentro una scuola, si rende conto di avere un eccesso di informazione, ma non si sente informato.

Le cause di questi strani effetti sono due. La prima. La scuola è l’istituzione più ‘passivamente democratica‘, nel senso che con lei tutti hanno a che fare: o per via di figli, o per via di mogli o di mariti (che ci lavorano), o per via di amici (che sono padri o madri di studenti). La seconda è che tutti sono andati a scuola.

Questi due fatti legittimano tutti a parlare di scuola, ma non impediscono a tanti di straparlarne; resta il fatto che, in quanto istituzione complicata, e in quanto italiana, la scuola del nostro paese è un oggetto del quale è difficile parlare. Nella scuola vanno a esaltarsi - nel bene e nel male - tutti i processi in atto nel corpo sociale, nella cultura, nell’economia. Questo intreccio – che fa della scuola il sistema più delicato e complesso – fa essere la scuola il luogo e l’oggetto affascinante che è; ma fa sì che pochi ne parlino a ragion veduta e con conoscenza. La conclusione è che editorialisti della carta stampata, della TV e di altri mezzi di informazione, quando non hanno altro da fare, pontificano sulla scuola: chi nella scuola vive, guarda e tace, e si meraviglia.

In questi giorni tutti si stracciano le vesti per la tracotanza del ministro che si permette di fare sulla scuola un colpo di mano violento e improvviso: cambia i cicli e l’impianto che sta in piedi da ¾ di secolo. L’opposizione minaccia che straccerà le leggi e azzererà l’operato del ministro. Chi insegna guarda attonito e sorpreso. Per tante ragioni.

  1. Il ministro sta facendo il ministro della repubblica che, in primis, deve dar corso alle leggi che il Parlamento va facendo.
  2. Nel febbraio 2000 il parlamento ha approvato la Legge 30 che ri-disegna la scuola del Paese. La legge ha dato una delega al Ministro per la predisposizione degli atti conseguenti e per la definizione dei curricola; insieme gli ha anche dato una tabella di marcia. Il ministro dà corso alle cose che la legge gli dice di fare.

    E dunque, e per essere precisi. I cicli non li inventati il ministro in carica, ma li ha voluti il parlamento. E li ha voluti così, dopo un lungo e impegnativo dibattito dentro la scuola e tra chi se ne occupa. Chi oggi si straccia le vesti dovrebbe chiedersi dov’era mentre il parlamento approvava la legge. A questo punto viene da dire che il problema, prima che della scuola, è un problema di elementare democrazia: le leggi si fanno, si fanno rispettare, e i ministri della repubblica, se possono, fanno il loro dovere dando alle norme il giusto corso. Fare ‘strame delle leggi’ è un problema, prima ancora che di scuola, di convivenza civile.

  3. Tutti hanno detto che bisogna bloccare i cicli, ma pochi sono entrati nel merito delle questioni (straparlare vuol dire anche questo) . Ad esempio, per dire che in Europa i cicli sono prevalentemente lunghi. Oppure che è meglio che siano più articolati per dare maggior risalto alla storia della scuola italiana. Così come pochi hanno fatto sapere che il ministro, all’inizio dell’estate 2000, quando ha aperto i lavori della Commissione dei 280 – quella che doveva dare le dritte per il lavoro di concreta realizzazione della nuova scuola – ha fatto esplicito riferimento alla Costituzione. A chi è cittadino questa cosa avrebbe fatto piacere saperla.
  4. Da tempo la scuola e l’opinione pubblica non sentivano parlare di Costituzione. Ebbene, il ministro ha declinato i 12 articoli della prima parte della legge fondamentale dello Stato per avere una bussola, e per darla alla scuola degli anni 2000. Si può essere d’accordo o meno con la proposta del ministro, si può legittimamente dissentire sui contenuti della riforma, ma sentirsi commentare l’articolo 6 con parole che richiamano al dovere di "costruire le condizioni per la parità di opportunità e per l’integrazione", fa bene. In questi ultimi dieci anni, chi aveva sentito nominare la Costituzione si era sentito dire che quella Costituzione – scritta alla fine della guerra e per la nascita di questa Repubblica – doveva essere cancellata e riscritta. Che un ministro cerchi nella Costituzione la bussola per la scuola di domani era una notizia da dare agli insegnanti, ai cittadini, all’opinione pubblica.

  5. Tutti dicono che la scuola, nel bene e nel male, ha bisogno di una energica cura riformista. Lo dicono i cattolici e i laici da almeno trent’anni; lo dicono le destre e le sinistre; lo dicono gli uomini di cultura e lo sentono gli operatori scolastici. Quel che nessuno ha detto è che oggi tutti sono fuori-legge. I curricola sommersi (sono quelli del buon senso e quelli che fanno tesoro di anni di Commissioni, di cultura silenziosa, di adeguamento ai bisogni degli studenti del 2000) sono la coperta sotto la quale si nascondono latitanze politiche, sindacali, scolastiche. La scuola militante prova a camminare nonostante tutto, ma fuori dalla legge e in assenza di quadri certi di riferimento. A questa cultura dell’illegalità è bene e giusto che la politica dia un segnale in controtendenza. Che un paese dia alla sua scuola una cornice che ispiri il quotidiano operare di insegnanti, di operatori scolastici, di famiglie, di studenti, è un dovere di civiltà e di democrazia. Anche perché in questa situazione di illegalità istituzionalizzata tutto è vero, ed è vero il suo contrario. Sulla certezza della legge il confronto assume legittimità: sul vuoto, ognuno è legittimato a dire quel che gli va bene, e quel che gli pare. E a fare quel che reputa giusto.
  6. Di questa situazione di illegittimità qualcuno avrebbe dovuto parlare.

  7. La scuola sta vivendo momenti di grande incertezza: è in mezzo al guado, in una situazione di stallo: tornare a riva significherebbe tornare indietro nel senso più bieco della parola; stare in mezzo significherebbe correre il pericolo di lasciarsi travolgere dalle correnti. Andare avanti è l’unica cosa che rimane da fare. La scuola, autonoma sulla carta, adesso ha bisogno di gambe e di sostegni per camminare. Rispettare la storia non significa tornare sui propri passi, ma guardare indietro per sapere per dove continuare a camminare. Anche questo forse era da dire.

 È una riforma che piace? Sul piacere o meno ciascuno naturalmente ha il diritto di dire la sua. La battaglia adesso, in ogni caso, non è tanto sulla scuola, sui cicli lunghi o brevi, sulla elementarizzazione della secondaria o sulla secondarizzazione delle elementari: è una battaglia di democrazia, di civiltà, di convivenza civile, fatta e da fare, possibilmente con parole piene.