Wolfgang Sachs (a cura di) Dizionario dello Sviluppo ( edizione italiana a cura di Alberto Tarozzi, traduzione di Marco Giovagnoli), Torino, Gruppo Abele 1998, £ 30.000

di Aaron Pollack


Il libro, costruito come un dizionario che definisce le principali parole d’ordine dello sviluppo ("Aiuto", "Mercato", "Popolazione", "Povertà", "Risorse", "Stato", "Uguaglianza", per citare solo alcune delle 18 voci in esso contenute), è diretto ai "professionisti dello sviluppo" e ad operatori coinvolti nel lavoro di base, ma il contenuto e il tono delle "definizioni", costringono qualunque lettore, non solo l’addetto ai lavori, a profonde riconsiderazioni di molte delle assunzioni della società moderna.

Questo libro è stato pubblicato originalmente in inglese nel 1992, con il titolo The Development Dictionary: A guide to knowledge and power. Molte delle idee contenute in esso sono ancora sconosciute o non accettate in molti ambiti, a causa della loro natura autenticamente eretica, che mette in questione i credi fondamentali dell’era presente. E’ un testo specialmente "pericoloso" e importante, perché lancia sfide (minacce?) intorno ad alcune delle idee che la Sinistra ritiene particolarmente consolidate, non ultima tra di esse il riconoscimento delle assunzioni che formano il concetto di "buon tenore di vita", che non è qui ricondotto primariamente al benessere materiale e al ruolo dello Stato. Un libro insomma "sconveniente", ma capace di fornire importanti elementi di giudizio per coloro che abbiano iniziato il processo di ricostruzione della società dal basso.

Il più importante aspetto del libro, indicato nella postfazione, "sta nell’altissimo grado di non-convenzionalità del ragionamento" (p. 457), che rompe quel vizio autoreferenziale e di autorafforzamento che ha permesso che concetti quali ad esempio quello di povertà, di standard di vita, di crescita demografica, vengano assunti come dati di fatto o entità in sé, la cui misura, naturalmente arbitraria, ha perso per strada la propria contingenza per diventare un qualcosa di preesistente. Grazie a questi contributi "infrastrutturali", il libro riesce nell’intento, dichiarato da Sachs nell’introduzione, "di inabilitare il professionista dello sviluppo togliendogli via le fondamenta concettuali della sua routine" (p. 11), e rappresenta quindi un contributo che va molto oltre l’ambito specifico, visto che tali fondamenta sono comunque largamente condivise in tutto l’occidente, e, in alcuni ambienti (accademici, burocratici, etc.), anche nel resto del mondo.

Alcuni autori (per esempio Illich, Latouche, Sachs) sono piuttosto noti in Italia, mentre altri (come Escobar, Esteva), non meno interessanti, sono quasi sconosciuti. Le loro diverse voci condividono il desiderio di muovere oltre il progetto sociale della modernità, e rifiutano altre strade che non siano il riconoscimento dei molti futuri che la ricchezza della diversità umana offre e il bisogno di riconoscere (o forse ri-riconoscere) l’importanza delle relazione tra gli umani e gli altri abitanti del pianeta - "un’alleanza tra uomo e natura", come viene definita nella postfazione all’edizione italiana, "di tipo radicalmente alternativo alle proposte della cultura umanista ottocentesca occidentale" (p. 447).

Nei diversi contributi sono facilmente riconoscibili anche altri elementi di condivisione: la comune ispirazione agli scritti di Polanyi, e la comune relazione che lega gli autori a Ivan Illich (presente peraltro nel Dizionario, di cui firma la "definizione" della voce "Bisogni").

Molti degli autori provengono da esperienze professionali che, direttamente legate al campo dello sviluppo, hanno permesso loro una elaborazione critica, insieme puntuale e di ampio respiro, delle sue vaste implicazioni teoriche e politiche.

Ogni saggio è dedicato ad un particolare tema del campo dello sviluppo, e sceglie di discutere a volte il percorso storico del termine in questione, a volte le implicazioni pratiche della sua applicazione sulla "popolazione bersaglio" delle "strategie dello sviluppo". Parole il cui significato si è considerato universalmente acquisito, quali "Ambiente", "Pianificazione", "Produzione", "Progresso", "Scienza", "Standard di vita", "Tecnologia" sono rianalizzate criticamente, riconoscendo la validità delle prospettive epistemologiche non-moderne, e lasciando quindi il lettore nella difficile e scomoda posizione di perdere i punti di riferimento cardinali.

Pongo qui due sole "voci", scelte tra quelle firmate da autori poco noti in Italia. In uno dei saggi centrali, Sviluppo, Gustavo Esteva traccia una breve storia del termine e del suo uso. Di Esteva, studioso messicano vicino al movimento Zapatista e sfortunatamente non tradotto in Italia, vanno ricordati: Regenerating People's space ("Alternatives" 10, 3, 1987) e il suo libro più recente, scritto con Madhu Suri Prakesh, Grassroot Postmodernism. Remaking the Soil of Cultures (Londra, Zed Books, 1998). Egli, come altri autori del libro, individua come momento chiave della storia del termine "Sviluppo" il discorso inaugurale di Truman del 1949, concludendo con un’analisi, aggiornata al momento della stesura del testo, dei più importanti orientamenti nella "teoria dello sviluppo". Nel discorso di Truman il concetto di "sottosviluppo" finisce d’essere un termine relegato ai documenti dell’ONU, e diviene una nozione, acquisita e professata, del potere egemonico mondiale del tempo. Con l’uso che del termine fa Truman, "due milioni di persone divennero sottosviluppate. In termini reali, da quel momento, esse smisero di essere quello che erano, con tutte le loro diversità, e furono magicamente trasformate, come allo specchio, in un riflesso inverso della realtà altrui: uno specchio che li sminuisce e li spedisce in fondo alla fila, uno specchio che definisce la loro identità, corrispondente nella realtà a quella di una maggioranza eterogenea e mutevole, semplicemente nei termini di una minoranza omogenea e limitata" (p. 348). Esteva nota che più recentemente nuove comunanze si sono date, nuove forme di creazione di mondi sociali a livello di base, da parte di quegli stessi "sottosviluppati" che hanno iniziato a rifiutare definizioni ad essi estranee e a creare risposte ai "bisogni" che loro stessi percepiscono. M. Rahnema discute "Partecipazione", affrontando - in maniera critica, seppur rispettosa - l’opera di Freire, la Participatory Action Research (PAR), lo "sviluppo partecipativo" in generale e il ruolo delle ONG in questo campo, nel corso degli ultimi trent’anni. I nodi più complessi - che riguardano il problema di come ciascuno, indipendentemente dalla propria posizione (professionista dello sviluppo, agente di mutamento...) possa proporre di lavorare con un gruppo di persone in una situazione di libero intercambio e mutuo apprendimento, senza professare una conoscenza maggiore e senza fare uso di tecniche di manipolazione - vengono affrontati in modo diretto ed efficace. L’Autore riconosce le buone intenzioni dei teorici di queste diverse iniziative, ma nota anche che sono ben pochi i casi in cui tale reciproco apprendimento si è dato, e che comunque in questi casi l'"agente del mutamento" è quasi sempre una persona della stessa comunità. Rahnema ci ricorda che mentre le forme di partecipazione "transitive" sono, per definizione, orientate verso un obiettivo o uno scopo, esistono forme "intransitive" nelle quali il soggetto vive il processo di partecipazione senza alcuno scopo predefinito, poiché "mentre si ascolta, si ama, si crea, si vive appieno la vita, si prende parte senza necessariamente cercare di conseguire un particolare obiettivo" (p. 115). L'autore conclude quindi domandandosi se il nuovo mito della partecipazione non assomigli "più ad un cavallo di Troia che finisce con il sostituire alle vecchie modalità di partecipazione proprie delle società tradizionali, intransitive e culturalmente definite, una sorta di partecipazione più subdola, teleguidata e magistralmente organizzata" (p. 131).

In linea dunque con la generale finalità di questo singolare Dizionario, il contributo di Rahnema conduce ad un importante ripensamento della società moderna (in se stessa, ma soprattutto come modello per il resto del mondo) e alla chiara identificazione delle imposizioni dello sviluppo, persino nelle sue forme "culturalmente più rispettose".