Il libro, costruito come un dizionario che definisce le principali parole dordine
dello sviluppo ("Aiuto", "Mercato", "Popolazione",
"Povertà", "Risorse", "Stato", "Uguaglianza", per
citare solo alcune delle 18 voci in esso contenute), è diretto ai "professionisti
dello sviluppo" e ad operatori coinvolti nel lavoro di base, ma il contenuto e il
tono delle "definizioni", costringono qualunque lettore, non solo laddetto
ai lavori, a profonde riconsiderazioni di molte delle assunzioni della società moderna.
Questo libro è stato pubblicato
originalmente in inglese nel 1992, con il titolo The Development Dictionary: A guide to
knowledge and power. Molte delle idee contenute in esso sono ancora sconosciute o non
accettate in molti ambiti, a causa della loro natura autenticamente eretica, che mette in
questione i credi fondamentali dellera presente. E un testo specialmente
"pericoloso" e importante, perché lancia sfide (minacce?) intorno ad alcune
delle idee che la Sinistra ritiene particolarmente consolidate, non ultima tra di esse il
riconoscimento delle assunzioni che formano il concetto di "buon tenore di
vita", che non è qui ricondotto primariamente al benessere materiale e al ruolo
dello Stato. Un libro insomma "sconveniente", ma capace di fornire importanti
elementi di giudizio per coloro che abbiano iniziato il processo di ricostruzione della
società dal basso.
Il più importante aspetto del libro,
indicato nella postfazione, "sta nellaltissimo grado di non-convenzionalità
del ragionamento" (p. 457), che rompe quel vizio autoreferenziale e di
autorafforzamento che ha permesso che concetti quali ad esempio quello di povertà, di
standard di vita, di crescita demografica, vengano assunti come dati di fatto o entità in
sé, la cui misura, naturalmente arbitraria, ha perso per strada la propria contingenza
per diventare un qualcosa di preesistente. Grazie a questi contributi
"infrastrutturali", il libro riesce nellintento, dichiarato da Sachs
nellintroduzione, "di inabilitare il professionista dello sviluppo togliendogli
via le fondamenta concettuali della sua routine" (p. 11), e rappresenta quindi un
contributo che va molto oltre lambito specifico, visto che tali fondamenta sono
comunque largamente condivise in tutto loccidente, e, in alcuni ambienti
(accademici, burocratici, etc.), anche nel resto del mondo.
Alcuni autori (per esempio Illich,
Latouche, Sachs) sono piuttosto noti in Italia, mentre altri (come Escobar, Esteva), non
meno interessanti, sono quasi sconosciuti. Le loro diverse voci condividono il desiderio
di muovere oltre il progetto sociale della modernità, e rifiutano altre strade che non
siano il riconoscimento dei molti futuri che la ricchezza della diversità umana offre e
il bisogno di riconoscere (o forse ri-riconoscere) limportanza delle relazione tra
gli umani e gli altri abitanti del pianeta - "unalleanza tra uomo e
natura", come viene definita nella postfazione alledizione italiana, "di
tipo radicalmente alternativo alle proposte della cultura umanista ottocentesca
occidentale" (p. 447).
Nei diversi contributi sono facilmente
riconoscibili anche altri elementi di condivisione: la comune ispirazione agli scritti di
Polanyi, e la comune relazione che lega gli autori a Ivan Illich (presente peraltro nel Dizionario,
di cui firma la "definizione" della voce "Bisogni").
Molti degli autori provengono da esperienze
professionali che, direttamente legate al campo dello sviluppo, hanno permesso loro una
elaborazione critica, insieme puntuale e di ampio respiro, delle sue vaste implicazioni
teoriche e politiche.
Ogni saggio è dedicato ad un particolare
tema del campo dello sviluppo, e sceglie di discutere a volte il percorso storico del
termine in questione, a volte le implicazioni pratiche della sua applicazione sulla
"popolazione bersaglio" delle "strategie dello sviluppo". Parole il
cui significato si è considerato universalmente acquisito, quali "Ambiente",
"Pianificazione", "Produzione", "Progresso",
"Scienza", "Standard di vita", "Tecnologia" sono
rianalizzate criticamente, riconoscendo la validità delle prospettive epistemologiche
non-moderne, e lasciando quindi il lettore nella difficile e scomoda posizione di perdere
i punti di riferimento cardinali.
Pongo qui due sole "voci", scelte
tra quelle firmate da autori poco noti in Italia. In uno dei saggi centrali, Sviluppo,
Gustavo Esteva traccia una breve storia del termine e del suo uso. Di Esteva, studioso
messicano vicino al movimento Zapatista e sfortunatamente non tradotto in Italia, vanno
ricordati: Regenerating People's space ("Alternatives" 10, 3, 1987) e il
suo libro più recente, scritto con Madhu Suri Prakesh, Grassroot Postmodernism.
Remaking the Soil of Cultures (Londra, Zed Books, 1998). Egli, come altri
autori del libro, individua come momento chiave della storia del termine
"Sviluppo" il discorso inaugurale di Truman del 1949, concludendo con
unanalisi, aggiornata al momento della stesura del testo, dei più importanti
orientamenti nella "teoria dello sviluppo". Nel discorso di Truman il concetto
di "sottosviluppo" finisce dessere un termine relegato ai documenti
dellONU, e diviene una nozione, acquisita e professata, del potere egemonico
mondiale del tempo. Con luso che del termine fa Truman, "due milioni di persone
divennero sottosviluppate. In termini reali, da quel momento, esse smisero di essere
quello che erano, con tutte le loro diversità, e furono magicamente trasformate, come
allo specchio, in un riflesso inverso della realtà altrui: uno specchio che li sminuisce
e li spedisce in fondo alla fila, uno specchio che definisce la loro identità,
corrispondente nella realtà a quella di una maggioranza eterogenea e mutevole,
semplicemente nei termini di una minoranza omogenea e limitata" (p. 348). Esteva nota
che più recentemente nuove comunanze si sono date, nuove forme di creazione di
mondi sociali a livello di base, da parte di quegli stessi "sottosviluppati" che
hanno iniziato a rifiutare definizioni ad essi estranee e a creare risposte ai
"bisogni" che loro stessi percepiscono. M. Rahnema discute
"Partecipazione", affrontando - in maniera critica, seppur rispettosa -
lopera di Freire, la Participatory Action Research (PAR), lo "sviluppo
partecipativo" in generale e il ruolo delle ONG in questo campo, nel corso degli
ultimi trentanni. I nodi più complessi - che riguardano il problema di come
ciascuno, indipendentemente dalla propria posizione (professionista dello sviluppo, agente
di mutamento...) possa proporre di lavorare con un gruppo di persone in una situazione di
libero intercambio e mutuo apprendimento, senza professare una conoscenza maggiore e senza
fare uso di tecniche di manipolazione - vengono affrontati in modo diretto ed efficace.
LAutore riconosce le buone intenzioni dei teorici di queste diverse iniziative,
ma nota anche che sono ben pochi i casi in cui tale reciproco apprendimento si è dato, e
che comunque in questi casi l'"agente del mutamento" è quasi sempre una persona
della stessa comunità. Rahnema ci ricorda che mentre le forme di partecipazione
"transitive" sono, per definizione, orientate verso un obiettivo o uno scopo,
esistono forme "intransitive" nelle quali il soggetto vive il processo di
partecipazione senza alcuno scopo predefinito, poiché "mentre si ascolta, si ama, si
crea, si vive appieno la vita, si prende parte senza necessariamente cercare di conseguire
un particolare obiettivo" (p. 115). L'autore conclude quindi domandandosi se il nuovo
mito della partecipazione non assomigli "più ad un cavallo di Troia che finisce con
il sostituire alle vecchie modalità di partecipazione proprie delle società
tradizionali, intransitive e culturalmente definite, una sorta di partecipazione più
subdola, teleguidata e magistralmente organizzata" (p. 131).
In linea dunque con la generale finalità
di questo singolare Dizionario, il contributo di Rahnema conduce ad un importante
ripensamento della società moderna (in se stessa, ma soprattutto come modello per il
resto del mondo) e alla chiara identificazione delle imposizioni dello sviluppo, persino
nelle sue forme "culturalmente più rispettose".
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