Il tempo limitato che abbiamo a disposizione
suggerisce di conferire al mio intervento il carattere di una introduzione di carattere
generale che presenti la problematica della politica della razza nel contesto dell'evoluzione
del regime fascista - in che cosa essa è consistita e perché si è sviluppata in
quel determinato frangente - e che la collochi anche dal punto di vista della storiografia
sul fascismo, che sicuramente per molti decenni ha trascurato la tematica che, oggi, a
sessant'anni dalle leggi del 1938, si ripresenta in maniera prepotente all'attenzione
degli storici e alla memoria civile. Come ho avuto
modo di rilevare altra volta, gli studi sul fascismo e la stessa memoria pubblica hanno a
lungo trascurato la problematica delle leggi razziali per una serie complessa di ragioni.
Da una parte ha contribuito ad allontanare dalla memoria il ricordo delle leggi del 1938 la
cesura dell'8 settembre del 1943; grazie infatti alla ben più dura fase della
persecuzione avviata con l'occupazione diretta dell'Italia da parte della Wehrmacht dopo
l'armistizio e l'uscita dell'Italia dallo schieramento dell'Asse e del patto tripartito,
l'attenzione anche delle vittime è stata polarizzata interamente sui fatti accaduti nel
periodo 1943-1945, che ha visto la deportazione di oltre 8 mila ebrei dall'Italia,
pochissimi dei quali poterono sfuggire ai campi di sterminio. Anche nella memoria ebraica,
almeno sino ad un certo momento, è comprensibilmente mancata la percezione della
continuità tra la prima fase - quella anteriore all'armistizio del 1943 - e la seconda
fase della persecuzione. Ma oggi a nessuno più è lecito concentrare l'attenzione solo su
quanto è accaduto dopo l'8 settembre del 1943, come se prima di quest'epoca il fascismo
non avesse esso stesso promosso una estesa legislazione contro gli ebrei, che alla data
nella quale entrò in vigore si presentava, dopo quella della Germania nazista, come la
più imponente legislazione antiebraica esistente nel mondo intero.
La sottovalutazione del ruolo del fascismo nello sviluppo
della politica contro gli ebrei è derivata anche in una parte degli studi dal sottinteso
di attribuire la paternità della politica razziale all'influenza determinante della
Germania nazista, come sa da essa e da essa soltanto, quasi addirittura per sua
imposizione, avesse tratto origine la legislazione del 1938. Questa sottovalutazione
inoltre riusciva a nascondere la continuità, pur nell'evidente salto di qualità, tra la
prima e la seconda fase della persecuzione - il passaggio cioè, come è stato
efficacemente detto, dalla persecuzione dei diritti alla persecuzione delle vite -; e al
tempo stesso, coprendo le responsabilità del fascismo nella prima fase, perveniva ad
attenuare o addirittura a obliterare e negare le responsabilità del fascismo nella
seconda fase, ossia le corresponsabilità della neofascista Repubblica sociale italiana
nella stessa deportazione degli ebrei. Quali che siano infatti le differenze tra le due
fasi è la presenza del corpo normativo predisposto prima ancora dell'8 settembre che ne
assicurava, con la continuità dell'apparato amministrativo e la sopravvivenza del vecchio
quadro fascista, la continuità nella R.S.I. e la disponibilità a collaborare con
l'ulteriore radicalizzazione promossa dai nazisti.
La campagna contro gli ebrei e la legislazione contro di
essi non furono introdotte dal fascismo per imposizione della Germania. Esse
furono iniziativa e prodotto autonomo del regime fascista, in un contesto europeo e
internazionale, in cui, soprattutto dopo il 1933, l'esigenza di adeguarsi ai lineamenti
politici che si stavano sviluppando in Germania rispondeva a una scelta di campo
fondamentale, contro la democrazia e per la modifica ad ogni costo, anche a costo della
guerra, dell'ordinamento di pace che aveva fatto seguito alla conclusione del primo
conflitto mondiale. E tuttavia la spinta a una politica della razza nel fascismo italiano
fu connaturata allo stesso retaggio nazionalista, che esaltava la superiorità
della stirpe come fatto biologico e non solo culturale; che esaltava l'espansionismo
italiano attraverso la concezione tardo-coloniale delle colonie come colonie di
popolamento, ossia sede di trasferimento e di nuovo insediamento dell'eccedenza
demografica dell'Italia e simbolo di superiorità della civiltà e della razza italiane.
Per questo la guerra d'aggressione contro l'Abissinia nel 1935-36 non fu l'inizio ma
l'occasione per mettere a fuoco una politica razzista dell'Italia fascista, che poteva
portare a un momento di sintesi e di unificazione di esperienze diverse, che il fascismo
come regime stava ormai realizzando in settori particolari, dal razzismo nei confronti
delle minoranze nazionali entrate sotto la sovranità dello stato italiano dopo la prima
guerra mondiale (con particolare riferimento alle minoranze slave della Venezia Giulia, ma
non solo ad esse), al razzismo praticato nei territori coloniali. Qui dopo la conquista
dell'Etiopia, peraltro mai interamente conquistata per il sopravvivere di tenaci isole di
resistenza e di guerriglia che mineranno profondamente il dominio dell'Italia ancor prima
dei rovesci militari che nel 1941-42 dovevano decretare la definitiva sconfitta
dell'impero, fu instaurato un vero e proprio regime di separazione razziale,
un vero e proprio prototipo di apartheid, come tutti gli studi più recenti
consentono di caratterizzarlo.
Sin dall'inizio degli anni trenta l'inasprirsi della
polemica contro le potenze coloniali tradizionali, Francia e Inghilterra che impedivano
l'accesso all'espansione coloniale dell'Italia, comportò nell'ottica del fascismo la
riesumazione di motivi che spostavano la polemica dal piano dello scontro di interessi tra
potenze a quello del razzismo tout court, con l'accusa alle democrazie, e
principalmente alla Francia, di essersi resesi responsabili, favorendo una politica di
naturalizzazione delle popolazioni dominate, di una pericolosa contaminazione razziale,
che minacciava l'integrità della razza bianca a favore dei popoli di colore. Il fantasma
della contaminazione e la missione di difendere la razza bianca dal tradimento
dell'occidente - cattiva reminiscenza spengleriana - entrarono nell'universo mentale del
fascismo. E già all'epoca della guerra d'Africa Mussolini significò di volere giocare
nei confronti delle democrazie occidentali anche la carta dell'antisemitismo.
Se sicuramente la conquista dell'impero indusse il regime
ad accelerare i tempi di un regolamento dei rapporti tra le popolazioni dell'impero per
scongiurare l'ossessione del meticciato, non su solo allora che esso si accorse di una
questione ebraica. Del resto, già a seguito del Concordato del 1929 che aveva accordato
al culto israelitico lo statuto di semplice "culto ammesso" preludendo al nuovo
statuto delle Comunità del 1931, era stata intaccata la piena parificazione degli ebrei
italiani al resto dei cittadini italiani, una prima lesione alla realtà
dell'emancipazione che era stata generalizzata con l'unità d'Italia. Nel 1934 a seguito
dell'arresto di antifascisti ebrei (il gruppo torinese del quale faceva parte Vittorio
Foa, che fu arrestato un anno dopo, si diede il primo segnale di una campagna
generalizzata contro gli ebrei sulla base dell'equazione non sostenibile ebrei uguale
antifascismo. Nel 1937 l'esplosione della campagna contro gli ebrei, nel contesto
della polemica contro le democrazie definite schiave della massoneria e del giudaismo, e
del razzismo nelle colonie, cadeva in un clima di "spirito pubblico" già
predisposto ad accettare il discorso razzista ed in cui fra l'altro era ancora viva l'eco
di un antica componente di antigiudaismo cattolico. Stabilire comunque il nesso
tra razzismo coloniale e razzismo antiebraico e la continuità tra di essi è
fondamentale per rendersi conto dell'assuefazione della maggioranza della popolazione al
discorso razzista e della assoluta mancanza di aperte manifestazioni di dissenso, al di
là di casi isolati.
Come si vede, la continuità che ho sottolineato del nesso
razzismo coloniale-razzismo antiebraico aiuta a chiarire come il ruolo della Germania
nella proclamazione delle leggi fasciste consiste nella sua influenza indiretta, mediata
più che immediata, in quanto essa offriva la cornice europea entro la quale venne a
collocarsi la persecuzione in Italia, non per semplice opportunismo del regime nei
confronti del più potente patner dell'Asse, ma per consapevole scelta politica. Per
allinearsi ad una realtà europea (evidenziata oltre che dal caso del Terzo Reich, dagli
sviluppi dell'antisemitismo e di relative normative in Ungheria, in Romania e in Polonia e
dopo l'Anschluss del 1938 dall'estensione delle leggi naziste anche in Austria), in
cui nella lotta contro le democrazie plutocratiche, prima ancora che contro il
bolscevismo, la lotta contro gli ebrei, con il carico di significati simbolici che la
caratterizzava, non era soltanto un espediente propagandistico, ma la componente organica
di un programma politico.
L'antisemitismo fascista si colloca così al crocevia tra
l'inserimento, con la lotta ai "diversi", in un motivo tipico del pensiero
antidemocratico e antiegualitario della destra fascista e filofascista e la ricerca di una
identità forte dell' "italiano nuovo" tipica della fase di costruzione
dell'impero. La costruzione dell'italiano nuovo comportava l'omogeneizzazione di una
mentalità collettiva; la collettivizzazione di un modello fascista applicato agli
individui e alla società, e l'irrigidimento di questo comportamento in un modello
razzista. L'appello al razzismo coloniale non sembrò sufficiente per realizzare la
mobilitazione razzista di cui il regime aveva bisogno per rilanciare la spinta
volontarista e rafforzare il consenso intorno a sé. La possibilità di utilizzare
direttamente la mobilitazione all'interno della stessa società italiana offerta dal fatto
di additare l'ebreo come "il nemico fra noi", fu la ragione ultima della
riesumazione e addirittura dell'invenzione di un pericolo ebraico.
Sono i mesi in cui Mussolini persegue una "rivoluzione
nel costume" degli italiani, che parla di una "terza ondata"
della rivoluzione fascista per sferzare la borghesia italiana ad essere veramente se
stessa con un linguaggio vagamente antiborghese, superficiale residuo della sua antica
milizia socialista. E' l'epoca in cui si vagheggia una maggiore rigidità degli strumenti
del terrore in Italia e la creazione, sull'inasprimento dell'antico istituto repressivo
del confino, di veri e propri campi di concentramento. In questo contesto, la campagna
contro gli ebrei rivela un carattere essenzialmente strumentale, per creare l'obiettivo
contro il quale convogliare la mobilitazione popolare per una più rigida fascistizzazione
della società. Contemporaneamente, la campagna contro l'ebreo assume la funzione di
creare un "nemico" e, al di là del nemico effettivo, la possibilità di
agitare l'immagine di un nemico nel momento in cui, già alla fine del 1938, il regime
marcia consapevolmente verso l'avventura bellica e la minaccia di guerra si fa sempre più
incombente.
Per sintetizzare: la strumentalizzazione della lotta
contro gli ebrei, al di là del generico connotato razzistico, assume grande rilevanza sia
nel tentativo di rivitalizzare dall'interno il costume di vita fascista, sia nella sua
proiezione verso l'esterno come creazione di un mito collettivo destinato ad assolvere
primaria importanza nella preparazione psicologica della guerra. Null'altro che una
anticipazione dell'immagine dell'ebreo come longa manus dello straniero e del nemico, che
sarà diffusa alla vigilia e nel corso della guerra. In questo senso la questione del
razzismo antiebraico si configura come una delle componenti di quel processo di accelerazione
totalitaria (l'espressione è di Emilio Gentile) che la politica del regime avvia dopo
il 1936.
Non ci soffermeremo in questa sede sulla ricostruzione
puntuale dei passaggi che portarono all'emanazione dei provvedimenti legislativi contro
gli ebrei, tanto meno sulla loro analisi filologica, rinviando per questi aspetti agli
studi di Michele Sarfatti. Ci interessa piuttosto sottolineare, sulla base delle premesse
enunciate, le modalità attraverso le quali il regime fascista pervenne di diritto e di
fatto alla revoca dell'emancipazione degli ebrei, ovvero al diniego della loro
eguaglianza. Sebbene uno dei primi provvedimenti legislativi riguardasse gli ebrei
stranieri - si tratta del RDL del 7 settembre 1938 - esso fu nondimeno e
proprio per questo estremamente significativo dello spirito illiberale e liberticida che
ispirò l'intera legislazione antiebraica: contemplando l'espulsione immediata dall'Italia
di tutti gli ebrei stranieri (una misura che in quella forma poneva l'Italia in testa alle
norme più radicali mai emanate contro gli ebrei) il decreto annullava una tradizione di
ospitalità e di garantismo, privando di un rifugio, ancorché "precario",
secondo la definizione suggerita da Klaus Voigt, gli ebrei che avevano trovato momentaneo
ricetto o addirittura una nuova patria in Italia sottraendosi alla persecuzione dei
nazisti o di altri regimi antisemiti. Un testo che letto insieme allo norme sulla revoca
della cittadinanza accordata a ebrei stranieri dopo il 1° gennaio 1919 fornisce intero il
quadro della chiusura razzistica e nazionalista che caratterizzò l'intero pacchetto
legislativo.
Lungi dall'avere un significato meramente agitatorio e
propagandistico le misure contro gli ebrei alterarono profondamente non soltanto la
personalità giuridica dei destinatari delle norme persecutorie, ma la struttura stessa
dell'amministrazione. Contemporaneamente infatti all'emanazione dei primi provvedimenti
restrittivi dei diritti degli ebrei furono emanate le norme per la creazione degli
organismi deputati a sovraintendere alla nuova sfera di competenza rappresentata dai nuovi
soggetti a cittadinanza limitata, ossia dagli ebrei. Con RD in data 5 settembre 1938
fu data vita infatti presso il ministero degli interni a quella Direzione generale per la
Demografia e la razza, nota agli studiosi come la Demorazza, che rappresentò il
cervello burocratico e amministrativo, ma non per questo meno perverso, della
persecuzione, dal quale scaturì quella congerie di disposizioni, generalmente in forma di
circolari, che si risolvevano spesso in gratuite vessazioni a carico degli ebrei, a
rendere sempre più analitiche le normative generali delle quali diremo subito. Il
richiamo alla trasformazione dell'apparato amministrativo ha particolare rilievo non
soltanto per sottolineare le responsabilità di un settore non secondario della burocrazia
ministeriale nella messa in moto del meccanismo della persecuzione ma anche perché pone
in evidenza il carattere capillare con il quale essa fu praticata e la larga cerchia di
complicità che comportò. Si stenta a immaginare oggi con quale solerzia funzionari
dell'apparato della pubblica amministrazione dovettero dedicarsi a studiare i modi per
avvilire e umiliare i concittadini e connazionali ebrei a sottolinearne in ogni modo la
diversità moltiplicando i divieti a loro carico. Non avendo il tempo di farne neppure una
pallida esemplificazione non mi resta che rinviare all'ampio e tuttavia non esaustivo
florilegio di circolari pubblicato nel cinquantenario delle leggi razziali nel numero
speciale della "Rivista mensile di Israel". Una circostanza comunque che va
ricordata anche perché spiega tra le altre cose la persistenza di atteggiamenti
razzistici (anche nella loro indifferenza reale o apparente) nella pubblica
amministrazione e le stesse traversie così prolungate nel tempo che accompagnarono
l'abrogazione lenta e tardiva della legislazione antiebraica, come ha ricostruito
attentamente Mario Toscano.
Il nucleo principale delle disposizioni legislative, che
incisero profondamente sulla sfera giuridica degli ebrei limitandone drasticamente i
diritti civili e talvolta anche umani, fu emanato tra l'inizio di settembre e il
novembre del 1938. Queste disposizioni incidevano sulle libertà e sui diritti degli
ebrei sia sotto il profilo personale che dal punto di vista patrimoniale. E non è casuale
che il primo in assoluto dei provvedimenti destinati a codificare la separazione degli
ebrei dal resto della popolazione riguardasse la loro espulsione dalla scuola pubblica,
il RDL del 5 settembre 1939 per "la difesa della razza nella scuola fascista",
promosso dal ministro Bottai. Come sapete agli alunni ebrei fu proibito di
frequentare la scuola comune a tutti i cittadini, così come ai docenti ebrei fu proibito
di continuare a insegnare nella scuola che avrebbe dovuto essere la scuola di tutti. In
questa sede credo che sia opportuno spendere qualche parola per cercare di capire che cosa
significasse la scelta del regime fascista di colpire per primo il settore
dell'istruzione. Lungi dall'essere un provvedimento dettato da esigenze pratiche, come
talvolta si è voluto spiegare il suo iter cronologico, ossia l'urgenza che i
provvedimenti per la scuola fossero varati prima dell'inizio delle attività scolastiche
per non turbarne il regolare andamento, come se l'espulsione di alunni e docenti ebrei non
fossero la turbativa e l'elemento di novità più gravi, il provvedimento aveva un preciso
significato politico. La scelta della scuola come primo obiettivo su cui incidere
non fu una scelta pratica ma una scelta strategica. Essa voleva indicare il ruolo
prioritario che il regime attribuiva alla scuola come istituzione portante della
trasformazione politico-culturale di cui la campagna per la razza era parte integrante.
Cominciare dalla scuola - e ciò spiega quello che spesso viene definito
semplicisticamente lo zelo del fascista Bottai - voleva dire porre in primo piano
l'immagine e la missione dell'uomo fascista, che era stato sempre l'obiettivo di un
processo globale di rigenerazione dal punto di vista fascista della società italiana,
voleva dire puntare sulla mobilitazione di quei settori della società, in primo luogo i
giovani, che si presumeva, e non sempre a torto, fossero maggiormente sensibili alle
istanze volontaristiche e alle spinte giovanilistiche che il regime intendeva alimentare.
Al di là del tentativo di umiliare una categoria di cittadini appartenente a una
minoranza che nelle sue tradizioni culturali aveva la spiccata tendenza a collocarsi al di
sopra della media di istruzione della generalità della popolazione italiana, l'intervento
sulla scuola va visto però come il tentativo di coinvolgere un settore chiave della
società in un processo di mobilitazione e di trasformazione di lunga durata nonché
di grande risonanza politica ed anche emotiva.
Nella stessa linea va posta l'enfasi che fu portata
nell'epurazione degli ebrei dall'insegnamento universitario e dalle sedi dell'alta
cultura. Le ricerche specifiche che sono state condotte su alcuni atenei - Padova e
Bologna e quella di imminente pubblicazione su Firenze - confermano con quale accanimento
Bottai e l'amministrazione perseguirono l'obiettivo della cosiddetta
"arianizzazione". In un libro recentissimo, giunto in libreria nelle ultime
settimane, Scienza e razza nell'Italia fascista, Giorgio Israel e
Pietro Nastasi denunciano in maniera documentata quella che definiscono "la
devastazione della comunità scientifica" provocata dai provvedimenti di
espulsione del regime fascista. Pesanti dal punto di vista quantitativo, gli esiti della
cosiddetta bonifica razziale lo furono ancor più dal punto di vista qualitativo, non solo
perché costrinse all'abbandono o all'emigrazione cervelli di prim'ordine e di statura
internazionale, ma anche perché soffocò la potenziale crescita di quadri scientifici in
settori strategici della formazione tecnico-scientifica. Un incidenza dunque di
lunga durata, cui non pose rimedio neppure la pratica incerta reticente e parziale delle
reintegrazioni dopo la liberazione. Una tematica complessa che coinvolge le molte
responsabilità di tanti esponenti della cultura italiana, che non trovarono nulla da
ridire nella estromissione o nella messa a berlina di altri autorevoli scienziati e
intellettuali. Se è vero che relativamente pochi furono i corifei dell'ideologia razzista
- ma non furono certo solo i firmatari del Manifesto della razza - la più
parte del mondo della cultura ostentò solo indifferenza e acquiscienza; poche le
dissociazioni nette e consapevoli. Una constatazione dalla quale non si può prescindere
nel fare il bilancio della persecuzione razziale. Del resto, non molto diverso si presenta
il quadro della carta stampata, in cui giornalisti e pubblicisti di nome fecero a
gara per non arrivare ultimi nell'opera di diffusione del veleno antisemita. Ebbene, per
molti di questi giornalisti non vi fu soluzione di continuità tra prima e dopo del 1943,
tra prima e dopo della liberazione. Anche questa una circostanza che aiuta a farci capire
perché vi sia stata tanta fretta nel cercare di dimenticare la campagna per la razza del
fascismo e perché sia stata così facilmente accolta la tendenza a scaricare tutte le
responsabilità sui tedeschi.
La personalità degli ebrei fu colpita nella sfera
privata e nei loro rapporti patrimoniali. Il divieto dei matrimoni tra ebrei e
appartenenti alla razza ariana o italiana (come talvolta fu definita a misconoscere
addirittura l'appartenenza degli ebrei alla nazione italiana) e i limiti posti alle loro
capacità patrimoniale furono i primi passi per la configurazione di uno statuto di
cittadinanza limitata. Uno statuto che fu completato dall'espulsione degli ebrei dalla
pubblica amministrazione e in particolare dalle forze armate - un provvedimento
quest'ultimo che ferì in modo particolarmente offensivo i sentimenti di appartenenza
nazionale di una comunità così fortemente assimilata quale era quella degli israeliti in
Italia - e più gradualmente dalle attività professionali e commerciali, con il fine
ultimo di ridurli all'indigenza o di costringerli all'emigrazione.
Operazioni politico-amministrative come il censimento degli
ebrei dell'agosto del 1938 (e i successivi aggiornamenti) o la denuncia dei patrimoni
ebraici se mai avevano un significato conoscitivo era sempre e soltanto in funzione
persecutoria e demagogica, sempre nella direzione di sottolineare la separazione degli
ebrei dal resto della popolazione italiana e di imporre un'immagine pubblica della loro
diversità. Ma anche all'interno della fase 1938-1943 si potrebbero indicare linee di
periodizzazione; una cesura sicuramente fu rappresentata dall'entrata in guerra
dell'Italia il 10 giugno 1940. Non fu solo uno dei culmini dell'accanimento
propagandistico contro gli ebrei, fu anche il momento in cui più evidente si fece
l'inasprimento dell'attenzione persecutoria e del tentativo di controllare da vicino gli
ebrei. L'ordine di internamento per gli ebrei stranieri che non avevano ottemperato al
decreto di espulsione del 1938, sommato ai provvedimenti di internamento per i cittadini
degli stati con i quali l'Italia veniva a trovarsi in stato di guerra, e in taluni casi le
due ipotesi si cumulavano, diede l'avvio all'espansione degli istituti repressivi e
intimidatori del regime fascista, uno dei momenti in cui più indissociabile si
rivelò l'intreccio tra politica della razza e stato di polizia.
Alla vigilia dell'entrata in guerra, con circolari
telegrafiche del ministero dell'interno (in data 27 maggio e 6 giugno 1949), oltre
all'internamento degli ebrei stranieri, veniva contemplato anche quello di ebrei italiani:
"In caso emergenza - diceva testualmente il dispaccio - oltre ebrei stranieri (...)
sarà necessario internare quegli ebrei italiani che per la loro reale pericolosità fosse
necessario allontanare da abituali loro residenze". Le prefetture e le questure
venivano invitate a preparare gli elenchi di questi ebrei considerati pericolosi: un altro
di quei censimenti dentro il censimento destinato a produrre gli innumerevoli elenchi di
ebrei dei quali si serviranno dopo l'armistizio del 1943 tedeschi e fascisti della R.S.I.
per rintracciare gli ebrei da deportare. Come sappiamo dalla prassi che fu attuata, la
nozione della pericolosità fu interpretata essenzialmente in base all'antifascismo reale
o presunto degli ebrei, in genere di una certa notorietà, che si intendevano internare.
In altri casi è presumibile fossero presi in considerazione ebrei cui era possibile
imputare reati annonari in tempo di guerra. Quanti siano stati gli ebrei così internati
non è ancora possibile dire con esattezza: le cifre correnti, sicuramente più di
duecento, probabilmente meno di mille, offrono oscillazioni molto larghe. Esse derivano
dalla difficoltà di compiere per la ricerca accertamenti di questa natura in percorsi
burocratici di per sé piuttosto complessi; un'altra discrepanza tra le diverse cifre
risulta sicuramente dalla differenza tra le proposte di invio all'internamento e il numero
effettivo degli invii in campo di concentramento o a domicilio coatto di fatto realizzati.
Quello che deve risultare chiaro comunque è l'accresciuto livello di controllo nei
confronti degli ebrei tanto da procedere adesso anche alla restrizione della loro libertà
personale. Il concetto che l'ebreo è cosa e non persona incomincia a farsi strada per
questa via anche nella burocrazia fascista.
Nel corso del conflitto i segnali che l'aggressività del
sistema nei confronti degli ebrei si andava radicalizzando furono di varia natura. Tra di
essi vanno annoverate anche le disposizioni, in apparenza innocenti, che stabilivano la
precettazione degli ebrei per il servizio del lavoro in tempo di guerra. Il 5
agosto 1942 la Demorazza dava inizio all'operazione, destinata anch'essa a produrre altre
liste provincia per provincia, con una circolare nella quale si ribadiva fra l'altro il
principio della separazione degli ebrei dalla società prescrivendo che gli ebrei da
inviare al lavoro manuale non dovessero comunque lavorare in "promiscuità" con
non ebrei. Apparentemente si potrebbe pensare che ammettendo gli ebrei al lavoro per la
collettività si operasse una parziale reintegrazione nella società a loro favore. Di
fatto, non era così, si trattava di una misura meramente demagogica se non addirittura
punitiva, che mirava solo ad attirare l'attenzione sugli ebrei e ad additarli ancora una
volta verso la generalità della nazione come profittatori che si erano sottratti ai
sacrifici imposti dalla guerra, come se a escluderli dal servizio militare e dai posti di
lavoro non fossero state le leggi dello stato!
Un iniziativa che si fece ancora più pesante e che
doveva rivelare rutto il suo carattere punitivo allorché il 15 luglio 1943, dieci giorni
prima del colpo di stato, il governo fascista decretò la mobilitazione totale degli
ebrei, donne comprese, per il servizio del lavoro: non solo si allargava l'area degli
ebrei da mandare al lavoro obbligatorio, ma si prevedeva addirittura la possibilità di
creare appositi campi di concentramento cui inviare coattivamente gli ebrei mobilitati per
il lavoro.
A quest'epoca Mussolini e il governo fascista conoscevano
di sicuro che era in pieno svolgimento la "soluzione finale" nelle aree
dell'Europa controllate dalla Wehrmacht, così come nel novembre del 1938
Mussolini conosceva i fatti e il significato della cosiddetta "notte dei
cristalli" e tuttavia non si lasciò distogliere dal portare a compimento il suo
progetto razzista. Non sappiamo con precisione se Mussolini e il governo fascista
conobbero nei dettagli il contenuto della conferenza del Wannsee del 20 gennaio 1942, che
prevedeva fra l'altro l'inclusione nel meccanismo della "soluzione finale" anche
degli ebrei italiani. Ne conoscevano comunque le grandi linee e avevano avuto, attraverso
dispacci di rappresentanti diplomatici italiani, messaggi e resoconti di militari italiani
in grado di riferire ciò che accadeva nei territori occupati dai tedeschi o addirittura
delle richieste che a proposito della consegna degli ebrei ai tedeschi avevano ricevute
essi stessi, molteplici conferme. Ciononostante il governo italiano non solo non prese
posizione e non si differenziò dal comportamento dei tedeschi ma continuò in una
politica di isolamento degli ebrei e almeno in un caso, in quello degli ebrei libici, di
diretta deportazione dei libici nella penisola italiana al momento dell'evacuazione della
Libia che anticipò un concreto pericolo per la loro stessa incolumità fisica, come
avvenne allorché essi caddero sotto controllo dei tedeschi (nei campi di concentramento
in Toscana) e furono deportati nei campi di sterminio.
Gli eventi posteriori all'occupazione tedesca sono per la
loro drastica evidenza anche quelli più noti. Per questo non ripeterò l'informazione su
fatti presumibilmente conosciuti. Vorrei indicare piuttosto in quale senso ho accennato
anche in precedenza alla continuità tra la prima fase della persecuzione e quella nuova
sotto l'occupazione tedesca, per sottolineare le responsabilità e le corresponsabilità
della R.S.I.
In primo luogo molti protagonisti della prima fase della
persecuzione tornarono ad essere attivi, spesso con responsabilità superiori, anche nella
nuova fase. Alcuni nomi tra i tanti: Buffarini Guidi, Giovanni Preziosi, Giorgio Almirante
e tanti altri.
In secondo luogo va sottolineata la radicalizzazione di
impostazioni e istituti già esistenti nel contesto della legislazione fascista prima
fase, muovendo dall'estremizzazione del processo di estraneazione giuridica, ideologica e
sociale avviato nel 1938 ai danni degli ebrei: il 17 novembre del 1943 il manifesto di
Verona del partito fascista repubblicano, che di fatto divenne la carta costituzionale
della Repubblica di Salò, spingendo alle estreme conseguenze l'emarginazione degli ebrei
li dichiarava privi della cittadinanza italiana e in quanto "stranieri"
attribuiva loro la cittadinanza degli stati nemici in guerra con l'Italia. Cittadini
nemici, gli ebrei erano privati dunque di qualsiasi tutela giuridica da parte dello stato
italiano e totalmente consegnati alla mercé dei tedeschi. L'ordinanza del 30 novembre
1943 con la quale Buffarini Guidi disponeva il raduno degli ebrei, compresi i cosiddetti
discriminati, in campo di concentramento non poteva rappresentare perciò alcuna
salvaguardia per le loro vite ma fu solo una trappola che ne facilitò la cattura da parte
dei tedeschi. Di fatto il provvedimento segnò anche la fine della discriminazione.
Peggiore addirittura fu la sorte di quanti, già rinchiusi
in campi di concentramento prima dell'8 settembre 1943, furono automaticamente consegnati
ai tedeschi allorché con l'occupazione dell'Italia essi assunsero anche il controllo dei
campi preesistenti al loro arrivo, prima di aprine altri (da Fossoli a S. Sabba).
Un ulteriore radicalizzazione infine subì anche la
disciplina dei beni patrimoniale degli ebrei. Con il decreto legislativo del 4 gennaio del
1944 la Repubblica sociale aveva disposto la confisca totale di tutti i beni appartenenti
agli ebrei, anche se discriminanti, che venivano così privati totalmente e
definitivamente di ogni avere. Una circostanza che nel contesto in cui venne emanata e poi
applicata la norma non aveva più risvolti soltanto demagogici ma assai ben più tragici.
E in questo contesto non è possibile non accennare anche a un ulteriore risvolto non
privo di interesse nella realtà italiana a segnalare la persistente continuità di
istituzioni e spesso anche di personale: l'operazione di spossessamento totale degli ebrei
fu demandata a quello stesso Ente di gestione e liquidazione (E.G.E.L.I.) che già aveva
gestito la prima fase delle limitazioni parziali dei patrimoni ebraici e che dopo la
liberazione avrebbe gestito anche le pratiche delle reintegrazioni dei vecchi titolari dei
patrimoni confiscati. Un esempio, ma non il solo neppure in questo campo, di come la
persistenza dell'istituto e dei suoi funzionari sia sopravvissuta al mutamento di regime
politico, non sappiamo con quale spirito e con quale bagaglio di cultura
politico-amministrative nei rapporti tra lo stato e i suoi cittadini.
Una conclusione con la quale non intendiamo archiviare
l'esperienza razzista del fascismo come una parentesi conclusa per sempre con
l'abrogazione della legislazione contro gli ebrei, ma piuttosto sottolineare la necessità
di non perderne né la memoria né la consapevolezza; anche per la lezione civile
che possiamo trarne in questa nostra società che deve essere necessariamente sempre più
aperta a molteplici influenze culturali e in cui spetta fra l'altro alle istituzioni
scolastiche il compito di educare alla convivenza e di impedire il cumularsi di vecchi e
nuovi odi di razza.
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