IL LABORATORIO E LA SUA POLISEMIA
Mario Pinotti
Istituto regionale "F. Parri" per la storia del movimento di liberazione e
dell'età contemporanea in Emilia Romagna .

Non
storia, ma storiografie.
Il significato più radicale che attribuisco al
"laboratorio" di storia è quello di essere una alternativa complessiva al modo
tradizionale di INSEGNARE LA STORIA.
A che cosa si riduce il modo tradizionale di insegnare la
storia? Al presentare agli alunni un discorso storico come dato, mai come indagato nei
suoi criteri di costruzione. Non si può sostenere che il vecchio modo di insegnare la
storia si esaurisse in una richiesta di memorizzazione passiva: spesso accadeva questo, ma
i docenti più intelligenti chiedevano di più. Chiedevano di comprendere, analizzare,
stabilire collegamenti, prendere, persino,posizioni valutative di fronte ad una tesi
storiografica, ma non ci si poneva mai il problema su quali categorie fondanti si
basassero le tesi affrontate, su quali rappresentazioni di spazio e di tempo
organizzassero i loro racconti, attraverso quale modello esplicativo cercassero di
spiegare il mondo sociale.
In laboratorio si deve fare, invece, proprio questo tipo di
percorso. Nel caso che lo scopo sia di produrre una narrazione storiografica o di
controllarne una prodotta da altri, in ogni modo il laboratorio è l'occasione per svelare
questo fondamento. Le categorie di spazio e di tempo, il concetto di fonte e il criterio
di lettura e critica di essa, il modello interpretativo che si adotta devono essere chiari
agli alunni. In altri termini in laboratorio è possibile ripercorrere (anche se in modo
simulato) tutte le tappe essenziali della logica della ricerca storiografica in senso
lato. Si svelano così i percorsi intenzionali compiuti dai "produttori di
storia". L'attenzione si trasferisce dalle conoscenze già organizzate al cammino che
le informazioni devono percorrere prima di venir dotate di senso. Il racconto storico cede
il passo ai CRITERI STORIOGRAFICI da cui scaturisce la narrazione.
La ricaduta di questo modo di lavorare su chi ne è
protagonista è altissima: il laboratorio è l'occasione per diventare costruttori del
proprio sapere; qui il passaggio dal sapere al saper fare acquisisce un significato
circostanziato. In laboratorio ci si libera dalle "catene" del dato, del già
elaborato e si affronta l'avventura dell'uomo controllore e creatore del proprio sapere.
Nulla di spontaneistico in tutto ciò: In laboratorio chi
apprende non è abbandonato a se stesso, ma guidato ad affrontare in modo diretto e voluto
dal regista i passaggi nodali del percorso logico dello storiografo. La serie delle
operazioni si scandisce: l'ipotesi di ricerca che orienta lo sguardo dello storico
illuminando solo una parte dell'infinita complessità della materia d'indagine; le domande
che vengon poste all'universo sociale da scoprire; l'interpretazione da attribuire alle
risposte delle fonti; la conferma del senso dell'ipotesi di partenza.
Il curricolo verticale: un'esigenza irrinunciabile.
La didattica del laboratorio non deve portarsi dietro la
pratica del "frammento", dell'esperienza episodica, bella ma irripetibile
rispetto al resto dell'itinerario curricolare. Al contrario, la didattica del laboratorio
deve imporre le proprie condizioni ad un itinerario scolastico che ne assorba le
implicazioni più profonde. Deve cessare la ciclicità dei programmi, la ripetizione per
tre volte dei movimenti dalle origini al presente, la continua riproposizione di un
teleologismo eurocentrico.
Se in laboratorio si deve imparare a saper fare, occorrerà
assicurare le condizioni preliminari di questa operatività predisponendo
l'alfabetizzazione della grammatica spazio-temporale e disegnando la cornice d'insieme
entro cui collocare l'azione laboratoriale. I primi anni della formazione, allora,
dovranno essere dedicati alla costruzione delle categorie rappresentative ed
interpretative proprie della realtà sociale a partire dall'esperienza immediata dei
bambini stessi. E poiché la realtà sociale non può essere affrontata subito nella sua
complessità sincronica e diacronica, urgerà esplorarla in modo semplificato, senza
esaurirne, d'altro canto, l'intrinseca specificità. Gli studi della vera e propria
realtà sociale dovranno procedere con gradualità dal vicino al lontano, dal presente al
passato. Ma, in questo movimento, lo studio dovrà essere da subito costruzione attiva del
proprio sapere.
Non è, tuttavia, sufficiente questo movimento. I criteri
dal vicino al lontano e dal presente al passato sono criteri didattici, suggeriti dalla
psicologia e dalla pedagogia, ma non garantiscono da soli la costruzione di un'ipotesi
curricolare: serve il soccorso della scienza storiografica. Come procedere verso il
lontano e verso il passato? Indifferentemente, per progressione quantitativa,anno dopo
anno, chilometro dopo chilometro? No, evidentemente!
Alla storiografia, alla geografia ed alle altre scienze
sociali bisogna chiedere i criteri per scegliere le periodizzazioni e i quadri
territoriali da studiare. Essi forniranno i parametri per organizzare un curricolo dando
gli indispensabili punti di riferimento alla quotidiana prassi scolastica.
Con questi riferimenti generali diventerà agevole
frequentare il laboratorio poiché ogni attività in esso compiuta sarà collocabile entro
un percorso progettato e realizzato consapevolmente. E' questa la "visione
generale" che la didattica del laboratorio può opporre alla "generalità"
della didattica della tradizione.
Un altro esempio. E' nota la difficoltà di comprensione
della variabile politica nell'odierna prassi scolastica. Il ricorso alla drammatizzazione
può essere un utile espediente poiché trasfigura concretamente in figure personalizzate
le diverse funzioni dello stato e l'intreccio con la dialettica degli interessi. Ma, anche
in questo caso non si può eludere il soccorso della scienza sociale. La politologia
fornirà i modelli teorici di stato, tra cui il didatta potrà scegliere, con l'obbligo di
esplicitare i criteri della scelta, l'interpretazione che gli servirà da paradigma
orientatore del proprio insegnamento.
Dalla prospettiva del presente.
Ma la didattica del laboratorio, nel candidarsi a diventare
un'alternativa globale alla didattica della tradizione, deve liberarsi anche da un altro
presupposto consolidato: il mito dell'origine. Esso si fonda sulla convinzione che il
senso del presente vada scoperto nel passato, che svela la sua cifra nella concatenazione
causalistica deterministicamente o finalisticamente intesa. Serve, allora, a questa
concezione cogliere il punto di partenza, l'origine del movimento, la premessa da cui
tutto il resto dello sviluppo temporale, in ultima analisi, dipende. Già dal 1944 Marc
Bloch metteva in guardia su questa idea ricordando che l'origine incondizionata di un
qualsiasi processo storico è una finzione, un momento sempre rinviabile a ritroso e
sprofondantesi nelle nebbie dell'atemporalità, regno del mito e delle favole. In realtà,
la consacrazione dell'origine, da cui far cominciare la nostra storia, vela un'operazione,
tutta costruita nel presente, tesa a legittimare il presente stesso.
Dietro ogni storiografia ed ogni scienza sociale c'è un
paradigma categoriale che, sussunto spesso inconsapevolmente, precede l'indagine della
realtà sociale e la orienta, e che, quindi, non sorge dalla conoscenza, ma l'anticipa.
Dove traggono origine questi paradigmi se non dall'orizzonte culturale del presente? Le
categorie di progresso, di oggettività, di catena causale deterministica sono tutte
categorie figlie di una cultura, che è vissuta nel tempo, con un inizio ed una fine, e
che ha saputo indirizzare la comunità degli scienziati sociali in un dato periodo.
Se il senso del passato si fonda nel presente che muove
verso il passato per cercare in esso una propria anticipata autorappresentazione, è
compito di chi insegna condurre gli studenti a comprendere questa operazione.
Riscoprire il presente.
Non è, però, un caso che questa affermazione sia poco
condivisa; dipende da due grandi ordini di problemi:
a) La noia, la difficoltà a memorizzare, la disattenzione
verso la storia deriva dalla manifesta estraneità che le categorie peculiari delle
storiografie del nostro secolo hanno agli occhi dei nostri giovani. Dov'è finita la
fiducia nel progresso? E la credenza che i fatti storici siano governati da una credibile,
ancorché probabile, causalità? E come si può proporre convincentementeun'ottica legata
al primato della prospettiva eurocentrica, tando palesemente l'Europa si è marginalizzata
nella scena mondiale, proprio nel secolo che sta morendo?
b) Su questa estraneità, su questa incomprensibilità ha
agito anche la difficoltà della generazione degli attuali quarantenni-cinquantenni di
trasmettere la memoria collettiva di cui son portatori. Come è potuto accadere un simile
fenomeno, abbastanza unico nel suo genere? Varrebbe la pena interrogarsi a fondo su questo
punto: è una generazione che contende ai propri figli il monopolio della
"giovinezza"? è una generazione che ha smarrito il ricordo di provenire da un
mondo ancora alle prese con problemi ancestrali quali la fame e la miseria? è una
generazione che ha visto crollare un universo attribuendosi il protagonismo di quel crollo
idealizzando il ruolo effettivamente svolto?
Sono due ragioni che illuminano a sufficienza quanto il
presente ci appaia come indecifrabile perché continuiamo ad interrogarlo con chiavi di
lettura consegnateci dei nostri padri, ma che sono andate via via perdendo di fecondità
euristica. Da dove ripartire? Dalla riscoperta del presente.
Senza memoria o memoria più profonda.
Forse, il presente riapparirà più comprensibile se si
rinuncia a pensare che i giovani sono privi di memoria.
E se si trattasse, invece, di una memoria più profonda
della generazione delle loro madri e dei loro padri? Noi siamo cresciuti all'insegnamento
delle filosofie del progresso autorappresentandoci un destino che ci vedeva al centro del
mondo ed arbitri del nostro futuro. Questa fiducia non era una connotazione della
mentalità di massa prima della prima guerra mondiale e non lo è ai nostri giorni.
La piaga della emarginazione sociale sta colpendo
l'immaginario collettivo dell'attuale vita urbana dopo che per alcuni decenni ci si era
cullati nell'illusione di poterla debellare. Il romanzo ottocentesco non aveva al suo
centro queste plebi? Ancora un terzo esempio. La ferocia razziale, il ricorso alla pulizia
etnica, il conflitto tra le diverse culture sta riproponendosi con tutta la sua
drammaticità. Non credevamo che fosse un orrore definitivamente consegnato all'oblìo
della memoria? Quanti ponti tra il presente ed un passato antecedente al secolo breve e
che riaffiora!
Io credo che sia questo il passato, lontano e vicino, più
comprensibile per la generazione dei nostri alunni, affermazione che non vale per la
nostra: come rassegnarsi a considerare comprensibile ciò che aveva rappresentato il vanto
del Novecento, celebrato come fondamento di un nuovo sistema di valori e di certezze?
Eppure, bisogna cambiare gli attrezzi.
In laboratorio per comprendere il presente.
Il laboratorio per la didattica della storia può
acquistare, conseguentemente, un'altra funzione, accanto a quella indicata nel primo
paragrafo: può diventare campo per lo studio, per l'esplorazione della mappa categoriale
e valoriale degli alunni. A cosa servirebbe?
Per gli insegnanti questo studio sarebbe di grande
importanza. La decifrazione di questa mappa darebbe un decisivo apporto alla comprensione
del presente, al ritrovamento di uno scenario sensato da cui riprendere ad interrogare il
passato e a riconsegnarlo ad una prospettiva per le nostre domande di senso.
Sarebbe una conoscenza vera, non solo un'occasione alla
conoscenza. Quegli ordinatori di valore, radicati nella mentalità giovanile, potrebbero
essere molto di più che semplici manifestazioni temporanee di un rapporto con la vita,
catalogabile come giovanile. Potrebbero rappresentare l'emergente alfabeto di una realtà
che in troppi, oggi, continuiamo a vivere come straniera.
In
laboratorio per essere soggetti.
L'indagine del presente, a partire dalla ricognizione della
mappa giovanile, è decisiva anche per gli studenti. L'autocomprensione del proprio
immaginario concorrerebbe a meglio riconoscere la propria soggettività e la peculiarità
di questo modo di essere.
E' impensabile qualsiasi processo di saper fare, se chi è
chiamato a "fare"non scopre la ropria soggettività. Non è certo uno svelamento
che si esaurisce una volta tanto: esso deve essere favorito a più riprese aprendo una
dialettica continua tra ciò che si chiede al mondo e ciò che il mondo ci restituisce. Il
momento laboratoriale deve fornire gli strumenti per dare uno spessore organizzato ad una
simile istanza. La meditazione per cogliere i messaggi profondi delle fonti, l'ascolto e
la posizione di domande, l'esposizione invididuale delle idee, delle convinzioni, delle
fedi, l'assunzione di vari punti di vista sono tutti momenti costitutivi per la scoperta
della soggettività, della propria e degli altri.
Ritrovarsi possessore di opinioni, di desideri, di
progetti, di giudizi, aiuta a capire l'intenzionalità delle fonti e delle ipotesi
storiografiche, aiuta a comprendere scelte, preoccupazioni, progetti di altre civiltà,
aiuta a rendere loquace ciò che, diversamente, sarebbe muto. Se studiare la storia,
significa poter interrogare sempre più a fondo mondi che non ci appartengono, trovare in
essi risposte che parlano alla nostra vita, come potrebbe determinarsi un simile dialogo
senza essere soggetti?
Solo ad un soggetto appariranno voluti dai soggetti i
movimenti della storia, che altrimenti apparirebbe il campo o di volontà transumane o di
casualità inspiegabili o di necessità naturali. Da dove potrebbe scaturire la passione e
la meraviglia per un simile mondo?
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