Premessa


La valigia come oggetto evoca scoperta, voglia di sapere, conoscenza sperimentata; ma anche imprevisti, valutazioni errate sugli scopi, aspettative deluse, cattive attrezzature predisposte per affrontare un viaggio, talvolta decisivo.

E del viaggio questo libro si assume una caratteristica: scegliere fra la navigazione affidata agli dei, un po’ come Enea, e quella ponderata, progettata, sullo stile di Ulisse. Abbiamo adombrato storie, proviamo a partire con una storia; tutti la conoscono, come la favola di Cenerentola, ma sentirla ripetere fa sempre piacere.

Il protagonista ha un nome impronunciabile, Qfwfq; di esso si sa che è un dinosauro, e tanto basta al lettore per attivare una qualche traccia di riferimento; gli antagonisti, da immaginare. Sono i così detti Nuovi, esemplari piccoli ma forti, che in tempi non remoti hanno ricacciato i dinosauri sulle montagne. Qfwfq migra dai suoi monti: sa di rischiare di essere riconosciuto, emarginato, magari ucciso, ma prova lo stesso. I Nuovi sorprendentemente non fanno troppo caso alle diversità, anzi lo accolgono, gli affidano un lavoro; nella sua vita entra Fior di Felce, una ragazza (ma sarà una ragazza?) molto bella, la sorella di uno che gode di un certo prestigio nella società d’accoglienza; con lei si intreccia anche una storia, che porterà allo scontro, vittorioso, del nostro protagonista con il fratello. Tutto sembra pro- cedere nel migliore dei modi: i Nuovi lo hanno accettato, e stato inserito nelle regole, finanche in quelle più delicate della rete dei rapporti sociali. La memoria delle vecchie diffidenze pare sopravvivere ormai solamente nelle storie che gli anziani raccontano, la sera attorno ai fuochi; da esse emergono immagini di dinosauro assolutamente inverosimili, si è persa dell’antica progenie di nemici qualsiasi connotazione: si sa solo che facevano paura. Giunge al villaggio una carovana di girovaghi; fra essi Qfwfq nota una Mulatta, la più bella, la quale si distingue per dichiarare attraverso i caratteri, perfino nel modo di parlare, la inequivocabile origine dinosaura. È corteggiatissima da tutti, ma il più fortunato (o il più intraprendente?) risulta il Nostro. In una notte di luna, guadano il fiume e scompaiono fra la fitta vegetazione...

Passano gli anni, Qjwfq ha ormai lasciato il villaggio; in una sera di nostalgie ripercorre sentieri conosciuti, scenari della sua storia. Lungo il fiume l’attenzione si ferma su un carro di girovaghi, accanto alle ruote del quale gioca un bimbetto; poco più in la sua madre: la Mulatta, un po’ ingrassata, ma sempre bellissima. Ignora la madre, si accosta al bimbo, un Dinosauro cosi perfetto, tanto pieno della propria essenza di dinosauro quanto ignaro di esserlo, suo figlio. Il bambino lo guarda curioso. – Chi sei? – chiede.

  • Nessuno, e tu chi sei? –

– 0 bella! Lo sanno tutti: sono un Nuovo! –

È ciò che il nostro protagonista attendeva di sentirsi dire. Saluta suo figlio e, percorse valli e pianure, se ne va.

È la catarsi della storia, la rinuncia all'identità in cambio d’integrazione sorprendentemente, e polemicamente, raccontata da Italo Calvino in un suo arcinoto lavoro del 1965: Le Cosmicomiche. Insistendo nella metafora, gli ingredienti del problema, cosi come trenta anni dopo da alcuni viene proposto, ci stanno tutti. La conoscenza occasionale del diverso: flussi migratori scomposti, incontrollati, non quantificabili sottopongono istituzioni anche educative all’urgenza di approntare strategie di emergenza non sempre adeguate alla situazione.

E poi la percezione dell’altro, legata spesso a stereotipi "leggendari", nel senso che di essi si è persa memoria. O meglio: la memoria è fluttuante, i convincimenti individuali variano a seconda dei casi, degli episodi offerti dalla cronaca quotidiani.

Poi le certezze del gruppo di accoglienza, le consistenze dell’identità. La storia locale, la ricerca antropologica, hanno per un lungo periodo costituito strumento utile nella scuola per il cosiddetto recupero delle radici: il senso di appartenenza ad un gruppo si misurava anche dalla quantità di conoscenze relativa alle caratteristiche che lo connotano.

Ma tutto ciò, per far cosa? Per offrire ai ragazzi (e non solo a loro) riferimenti valoriali, chiavi interpretative degli accadimenti circostanti? Oppure parametri discriminanti per riconoscere il diverso? Ed ancora: un senso di appartenenza "forte", impacciava di fatto atteggiamenti favorevoli all’accoglienza’?

Sono interrogativi aperti, che chiamano risposte anche di metodo ed allo stesso tempo non vogliono "demonizzare" il valore autentico delle tradizioni, e dell’utilizzare come scelta educativa strategica il vicino per attivare categorie di pensiero utili per comprendere il lontano.

Su questo aspetto particolare è questione di misura e di prospettiva: di misura, in quanto ogni conoscenza non è fine a se stessa, ma va costruita per acquisire altre conoscenze. La prospettiva: le conoscenze che pongo, nella piena libertà delle strategie, sono talmente aperte da non diventare discutibili ? In altre parole, il pacchetto delle informazioni è strutturato in maniera tale di accogliere altre informazioni, o piuttosto costruisce solamente certezze?

Qfwfq accantona la propria memoria storica: è 1’auspicio di coloro i quali sostengono che qualsiasi integrazione passa attraverso un adeguamento incondizionato alle regole, alla cultura in cui va ad innestarsi; è la strategia di Enea, che si affida alle proprie forze, ad alleanze occasionali con questo o quell’altro dio per uscire da situazioni tanto imprevedibili quanto ingovernabili con le sole risorse umane.

Ulisse agisce valutati i termini del problema: e tali termini nella situazione attuale sono costituiti dalla presenza, nelle nostre aule scolastiche, di modi diversi di vedere il mondo, generati da appartenenze eterogenee, da relazioni fra mentalità caratterizzate da rapporti di adattamento/accettazione/diffidenza, soggetti per di più a forti accelerazioni (i tempi di cambiamento sono sottoposti alle suggestioni di una comunicazione che ha assunto caratteri "planetari", dentro i quali ogni nuova informazione provoca aggiustamenti di prospettiva imprevedibili).

In altre parole, prodotti dalla propria storia. La catarsi è da respingere; cosa, in alternativa? L’elaborazione epistemologica delle discipline che si insegnano a scuola è osservata con interesse dalla didattica: le "materie" si usano, non si apprendono soltanto, per attivare nei ragazzi categorie di pensiero che trovano il loro campo di applicazione nel confronto quotidiano con i fatti. Torniamo a questi fatti: 1’istituzione scolastica si trova a confrontarsi con gli esiti di flussi migratori che vanno a sovrapporsi, a livello adulto, a risultati di un momento di forte cambiamento (ridistribuzione delle risorse, incertezze circa il posto di lavoro, valori che vengono messi in discussione...); a ciò si somma il dibattito aperto sulle strategie: multicultura o intercultura? Cioè: sovrapposizione di diverse culture che convivono nel nome della tolleranza (quello che 1’area anglofona chiama salad bowl, insalatiera), oppure cooperazione più o meno consapevole verso un progetto di regole, di codici di comportamento, di modi di sentire comuni nel rispetto delle specificità? O ancora: fusione dei contributi di culture "regionali", il cui esito finale porti al non riconoscimento delle specificità? (il cosi detto melting pot, crogiolo).

Rispetto a questo quadro, quale può essere il contributo della storia? Occorre innanzi tutto precisare che un atteggiamento di consapevolezza multiculturale nei ragazzi risulta un prodotto dal sapore storico: conoscere le diversità, modi plurimi di rispondere a problemi analoghi nel tempo e nello spazio, rappresenta il primo gradino verso la costruzione di una mentalità interculturale; e poi, armandosi di umiltà, convenire che quello della conoscenza storica è uno dei campi d’esperienza possibili (altri possono essere la prassi della convivenza, la conoscenza programmata ed indotta di aspetti di altre culture...).

Un obiettivo minimale potrebbe essere quello di "usare" questa disciplina per costruire atteggiamenti intellettuali finalizzati al decentramento del proprio punto di vista. Rispetto alle conoscenze non si tratta di "inventare" una nuova materia, ma di selezionare, nei diversi curricula previsti nei programmi, quei contenuti che evidenzino nel passato (o meglio, nei passati) l’esistenza di periodi di confronto/scontro, di accettazione/tolleranza innestati da migrazioni; all’interno di tali dinamiche, sottolineare i tempi di sviluppo, le accelerazioni e le permanenze che di fatto denotano la civiltà occidentale come indubbiamente multiculturale (nel senso che un’attenta analisi, tradizionale, rivela palesi tracce di contributi che i popoli del Mediterraneo hanno offerto diacronicamente uno all’altro) e forse interculturale (tali tracce sono riconoscibili proprio perché comprensibili solo se riferite al contesto della cultura di origine).

Azzardiamo in tale contesto un’ipotesi: esistono al di fuori dei tempi tradizionalmente periodizzati e dello spazio delimitato dalla cultura eurocentrica che da sempre ha scritto la storia, costanti che attraversano qualsiasi migrazione. Sono le stesse che hanno spinto popoli di diversa provenienza geografica, in epoche diverse, a muoversi; possono essere dette sotto forma di interrogativi: perché partire? Dove andare? Chi parte? Come si viaggia? Cosa si va fare? Come si percepisce la nuova situazione? Quali legami restano con quella lasciata? Esiste una cultura di ritorno? È possibile individuarne le caratteristiche? Qui si riapre il campo di una strategia didattica che punta sul versante degli atteggiamenti culturali da sviluppare attraverso la storia. Partire dall’individuazione di tali costanti serve, a nostro parere, non solo ad integrare conoscenze storiche curriculari, ma soprattutto a costruire atteggiamenti di comprensione, oltre che di decentramento.

Altra operazione, dichiarata, da compiere, consiste, a nostro parere, nel dirigere la ricerca (posto che questa sia prassi ormai consolidata nella scuola dell’obbligo), verso un campo fluttuante, a margine della storia delle migrazioni (che spesso diviene storia economica, storia politica, storia diplomatica...), il campo dell’indagine sugli stati d’animo, sulle emozioni, sul ricordo e sulle sue distorsioni. Si potrebbe chiamarla storia della mentalità, ma non vorremmo spingerci oltre.

Tutto ciò si gioca su un presupposto: la memoria collettiva, quella umbra ma non solo, conserva anche grazie a generazioni vicine, traccia di questi interrogativi e delle risposte che ad essi si sono date. Rendere partecipi i ragazzi delle pieghe di tale memoria, ed allo stesso tempo ancorare ai fatti quelli dei vecchi può costituire una strategia "a costo zero", in quanto dispone di risorse presenti, solo da leggere da una diversa prospettiva. La storia dell’emigrazione umbra, come quella di tante altre regioni d’Italia, rappresenta un serbatoio prezioso in tal senso, e la proposta del libro, muovendo dall’ipotesi formulata, vuol essere un contributo verso tale direzione.

I materiali pubblicati, rivolti in prevalenza alla scuola dell’obbligo, sono stati concepiti su questo scenario. Innanzi tutto un percorso che recuperi la memoria su un topos delle migrazioni, il viaggio, letto con gli strumenti metodologici dell’interazione fra ragazzi e documentazione, e proposto attraverso fonti locali; poi un tentativo, su materiali analoghi, di narrare le costanti delle migrazioni attraverso un linguaggio consueto ai ragazzi, il video; infine un classico della letteratura ovvio, e nella sua ovvietà significativo, perché dimostra come ad un dibattito cosi complesso ci si possa accostare con strumenti sofisticati, ma rintracciabili perfino nei libri di testo. Fra Enea ed Ulisse, basta scegliere Ulisse.

 


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