Lo storico Eric Hobsbawm afferma che l’emergere
delle politiche identitarie è una conseguenza delle trasformazioni accelerate
dell’ultima parte del secolo, in particolare dell’inebolimento degli Stati
nazionali e dei partiti. Si abusa del termine comunità proprio quando gli uomini e le
donne avvertono delle crisi di appartenenza in un mondo in cui tutto cambia. Il
sentimento di appartenenza fa riferimento ad identità collettive, le quali, a loro
volta, si definiscono contro altre identità, sottolineando le differenze più che gli
elementi in comune tra i propri membri. E’ inevitabile constatare che gli esseri
umani sono una combinazione di tante caratteristiche e di tante identità. Infine lo
storico inglese si chiede quale rapporto vi sia tra le politiche identitarie e la sinistra
europea e nota una differenza radicale, la politica della sinistra è universalistica,
mentre quella dell’identità etnica è localistica e chiusa.
I tre brani sono tratti dall’articolo Le carte d’identità non sono di sinistra in "Il
Manifesto", 15 maggio 1999.
La mia opinione è che l’emergere
delle politiche identitarie è una conseguenza degli sconvolgimenti e delle trasformazioni
straordinariamente rapide e profonde della società umana nell’ultimo quarto di
questo secolo, come scrivo nella seconda parte della mia storia del "secolo
breve". Sappiamo che sia lo stato nazione sia i vecchi partiti politici e i movimenti
basati sulle classi sono stati indeboliti da queste trasformazioni. In più abbiamo
vissuto - e stiamo vivendo – una gigantesca "rivoluzione culturale", una
dissoluzione straordinaria dei valori, delle strutture, delle norme sociali tradizionali,
che ha lasciato tanti abitanti del mondo sviluppato orfani e soli.
Mai la parola "comunità" è stata usata in modo tanto indiscriminato e vuoto
come nei decenni in cui le comunità, nel senso sociologico del termine, erano tanto
difficili da trovare nella vita reale. Uomini e donne cercano gruppi ai quali appartenere,
con certezza e per sempre, in un mondo in cui tutto il resto si muove e scivola via.
Ma su cosa si fonda questo sentimento di appartenenza? Voglio evidenziare alcuni punti.
Primo: le identità collettive si definiscono negativamente, cioè contro gli altri.
(..)
Naturalmente, ci sono collettività basate sulle caratteristiche oggettive comuni ai loro
membri, incluso il genere biologico o il colore della pelle. Tuttavia, la maggior parte
delle identità collettive somigliano più alle magliette che alla pelle, vale a dire che
sono, almeno in teoria, facoltative e non inevitabili. Gli esseri umani non possono essere
descritti, nemmeno a scopi burocratici, se non attraverso una combinazione di molte
caratteristiche. Ma le politiche identitarie asseriscono che una tra le molte identità
che abbiamo è quella che determina, o almeno domina, la nostra politica.
(..)
In genere le persone non hanno problemi a combinare le diverse identità, ed è questa la
base della politica generale, distinta dalla politica identitaria di parte. (…)
Insomma, assumere una politica identitaria esclusiva, non è naturale. E’ più
probabile che ciò avvenga quando si è costretti dall’esterno, nel modo in cui i
serbi, croati e musulmani abitanti nella Bosnia che vivevano insieme, socializzavano e si
sposavano tra loro, sono stati costretti a separarsi.
|

|