Stasa Zajovic è una militante femminista di Belgrado e
dal 91 partecipa al movimento delle Donne in nero, che hanno manifestato contro la
politica nazionalista e discriminatoria del regime di Milosevic e contro la guerra. Parlando di questa esperienza, fa
riferimento alla pazienza necessaria per "fare spazio", fuori e dentro di sé,
al dolore delle donne, persone vilipese nel corpo e nelle menti durante i dieci
anni di guerre. Il codice delle donne nelle guerre è quello di nascondere,
consolare, nutrire, proteggere e il colore del lutto è il nero. Ma le contraddizioni tra
le donne sono profonde: lacerazioni tra serbe, croate, bosniache e ora kosovare e sembrano
spezzare le reti solidali che si è tentato di mantenere nonostante i conflitti. Alla
guerra e alle sue gerarchie, Stasa Zajovic tenta di contrapporre la sua gerarchia del
dolore.
I brani sono tratti da
unintervista, condotta da Carla Casalini, intitolata Stasa alle prese col regime
in "Il Manifesto", 22 maggio 1999.
Io sapevo che nel Kosovo la situazione
era orribile, una repressione lunga lunga, ma la guerra ti impone le sue gerarchie, e la
gerarchia ti costinge là dove la violenza è più brutale e quotidiana a dover reagire di
più, anche le nostre menti in un certo senso si militarizzano.
(..)
Sotto le bome il giorno è troppo breve e la notte troppo lunga. Il giorno passa facendo
le cose di sempre, ma molto più in fretta, la notte, dove prima ritrovavo me stessa, mi
bastava mezzora di solitudine e di silenzio, ora è invasa dal rumore che ti
aggredisce il cervello, aerei, esplosioni.
(..)
Tante donne sono diventate nazionaliste e si schierano con i rispettivi stati etnici,
perché dieci anni e più di gravissima crisi economica, prima, e poi di guerre, come
sempre in frangenti del genere, hanno sottinteso più violenza per le donne: domestica,
economica, sessuale. E le donne con il loro lavoro invisibile, privato, hanno in un certo
senso comprato la pace sociale, sia in famiglia che con lo Stato. Lo Stato, per parte sua,
ha puntato su questa loro abnegazione: prima cacciate a casa con la crisi, licenziate,
donne abituate a lavorare fuori altissimo il tasso disoccupazione femminile, in
Serbia, per esempio, - poi la propaganda nazionalista a glorificare il ruolo di spose e
madri, come risarcimento allalienazione dai figli perpetrata ai loro danni nei
trentanni precedenti.
E la campagna demografica sempre più esplicita. Le serbe devono combattere la peste
bianca che minaccia la nazione di estinzione, devono fare più figli. Le albanesi del
Kosovo, invece, ne fanno troppi: non in sintonia con la loro condizione economica,
sociale, ma perché convinte a una politica di aggressione, di secessione.
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