L'annuncio della pace è stato dato dalla Tv serba alle 22.30 del 9 giugno 1999 con
il seguente testo: E' cessato l'attacco della Nato, ha prevalso la volontà di pace di Milosevic.
Con l'entrata delle truppe internazionali (KFOR), inizia l'esodo
dei Serbi dal Kosovo: altri profughi si dirigono verso
Blegrado e altre zone, dove, in precedenza, sono già arrivati flussi di popolazione serba
dalla Croazia e dalla Bosnia. le prime stime indicano lo spostamento di alcune migliaia di
persone.
LUCK conduce rappresaglie e vendette contro i serbi e le loro
proprietà, creando panioco tra la popolazione. A Prizen le truppe
tedesche scoprono un luogo in cui lUCK tortura i serbi. A Pec le
truppe italiane devono garantire la popolazione da rappresaglie ed atti di violenza degli
albanesi.
La Chiesa ortodossa (15 giugno 1999) chiede le dimissioni di Milosevic e invita i serbi a rimanere nella terra sacra del
Kosovo. Il 28 giugno, anniversario della battaglia di Kosovo Polje,
Il 20 giugno è avvenuta una manifestazione a Belgrado di circa 200 serbi fuggiti dal
kosovo, denunciando il trattamento subito dal governo jugoslavo, che hanno tentato di
impedire che i profughi arrivassero nella capitale. Altre centinaia di serbi, accettando linvito
del governo, sono rientrati nel Kosovo, sperando nella protezione della Kfor.
In tutto il Kosovo si aggravano in modo preoccupante i saccheggi, le violenze e la resa dei conti degli albanesi contro i serbi e gli zingari Rom e le
forze internazionali non sono in grado di garantire l'incolumità della popolazione.
Le vendette si susseguono senza tregua e migliaia di serbi ( si presume circa 80.000
persone) fuggono in massa dal Kosovo per sottrarsi alle violenze e alla morte. Quasi un
terzo della popolazione serba ha lasciato la zona, senza sapere bene dove ricollocarsi,
poiché la Serbia ha già, al suo interno, oltre 600.000 profughi serbi, espulsi dalla
Bosnia e dalla Croazia. Sia il governo di Belgrado che la Nato non considerano il
fenomeno, che rappresenta un fallimento sia della politica di Milosevic che
dell'organizzazione internazionale, che non riesce a fermare la pulizia etnica dei serbi
da parte dell'UCK.
Dopo la fine del conflitto armato, gli albanesi colpiscono particolarmente i rom,
insediati da circa cento anni in quel territorio e ora accusati di aver collaborato con i
serbi. Moltissime famiglie nomadi raggiungono le coste pugliesi e vengono accolte come
profughi fino a che il governo italiano, riferendosi alla fine del conflitto, decide di
considerare i rom clandestini e quindi di espatriarli.
L'organizzazione internazionale Human Rights Watch, dopo una settimana di indagine,
ha concluso che l'Uck, che non ha consegnato tutte le armi e mantiene operativa la sua
organizzazione militare, è responsabile di abusi sistematici nei confronti degli zingari.
Guido Rampoldi, giornalista di
"Repubblica" scrive:
- A Belgrado tintinnano in un vento leggero i vetri
sbilenchi del grattacielo bruciato e distrutto che ancora in marzo ospitava la direzione
del partito di Milosevic. La municipalità vuole farne un monumento alla guerra di
Milosevic. (
) Il municipio di Belgrado annuncia il razionamento dell'elettricità,
solo otto ore al giorno, e dell'acqua, nella parte nuova della città. Sono in pagamento
le pensioni di febbraio, per marzo chissà. Sotto le pensiline anziani attendono gli
autobus municipali, quasi tutti fermi per mancanza di carburante; viaggiano i bus privati,
pullman di seconda mano nei più vari colori, ma il prezzo del biglietto, 250 lire, non è
alla portata di tanti.(
) Se non la fame, la miseria non è lontana. Il prodotto
interno lordo è caduto del 45% rispetto a marzo, che a sua volta era inferiore del 40% al
pil dell'anno precedente. Il governo promette due stipendi ai dipendenti delle fabbriche
chiuse purché si licenzino, ma nessuno si fida, preferendo la certezza dei pochi dinari
al mese alla probabilità di non incassare mai quella buonuscita. Le imprese sono travolte
dalla crisi di liquidità.
(da La triste festa di Belgrado con
l'incubo del dopoguerra in "La Repubblica", 10 giugno 1999)
Vanna Vanuccini, inviata di "Repubblica":
- Passiamo lungo villaggi bruciati e cannoneggiati. A
Vuctrin due case fumano ancora. Chiedo all'autista che di mestiere è geometra: si può
riparare una casa così e quanto tempo ci vuole. La risposta è tecnica: "Due
settimane al massimo. Queste sono case bruciate, è distrutto tutto ciò che era di legno
ma le strutture murarie rimangono intatte". Per tutta la strada però lui e
l'interprete continuano a guardarsi intono desolati dicendo: ah, le bome, ah la Nato.
Finché gli faccio osservare che le bombe quando cadono non bruciano solo il legno. Così
non dicono più nulla, ma sono visibilmente sollevati non appena vedono un ponte o un
fabbricato effettivamente distrutti dalle bombe della Nato.
(da Il Kosovo che aspetta la Nato deserto
di macerie e fuggitivi in "La Repubblica", 10 giugno 1999)
Steven Erlanger scrive sul "Corriere della
sera":
- Piccolo villaggio a pochi chilometri da Pristina, Kosovo
Polje è
considerato la culla della coscienza nazionale serba. E ora i suoi abitanti sono nello
stesso tempo preoccupati e spavaldi. Più che all'arrivo delle truppe occidentali, la
gente è interessata all'Uck, agli alabnesi e alle loro capacità di vendicarsi contro i
serbi. Qui, comunque, a differenza di altri villaggi sperduti e isolati nel Kosovo, gli
slavi non hanno nessuna intenzione di sloggiare e di abbandonare case e affari. Peter
Rapajic è proprietario di un autonoleggio. Vive a Devet-Jugovica, un villaggio misto
serbo-albanese. Racconta di come i paramilitari serbi abbiano dato fuoco alle abitazioni
degli albanesi, talvolta aiutati dai vicini di casa delle vittime, e di come gli uomini
dell'Uck abbiano ucciso a sangue freddo un uomo e i suoi due figli. "Dio - impreca -
non ha dato a nessuno il diritto di fare queste cose".
(da Ma i contadini resistono:
"Questa terra è sacra, andarcene sarebbe tradire sei secoli di storia", in
"Il Corriere della sera", 11 giugno 1999)
Massimo Nava scrive sul "Corriere della
sera" della ritirata dell'esercito serbo:
- Se questa è l'iniziale applicazione degli accordi, la
smobilitazione ha poco di epico, di spettacolare e di gigantesco, soprattutto se
rapportato alle stime delle forze serbe in Kosovo al dispiegamento delle postazioni
missilistiche, carri armati e artiglierie pesanti. Ci vorranno giorni, e forse è bene che
sia graduale e contestuale all'ingresso dei primi reparti delle truppe internazionali. Il
senso di paura e di incertezza della popolazione serba è palpabile e nessuno ha una
risposta per le prossime ore.(
) Mitrovica è spettrale e deserta molto più di
Pristina. Fra le macerie si avverte un odore insopportabile di carogne e immondizie,
aggravato dal caldo e dall'incuria. Della popolazione albanese, la larga maggioranza, non
c'è traccia nelle strade. (
) Sulle pareti scrostate ci sono i necrologi dei
poliziotti caduti. L'ultimo nel giorno della pace, Slavisha Todjc, 29 anni, ucciso da uno
dei tanti cecchini albanesi appostati in attesa di pattuglie.
(da L'addio dell'armata serba al
Kosovo: torneremo in "Il Corriere della sera", 11 giugno 1999)
Pietro Del Re descrive la situazione di un villaggio
di 1500 serbi protetti dalla Nato:
- Per le strade di Hoche e Made incrociamo
sui loro trattori contadini con grosse croci ortodosse di legno legate al collo.
Intorno al villaggio, ci sono solo filari di vigna. Poi, più giù, le case albanesi
di Hoche e Vogel con i tetti bruciati, Possibile che qui nessuno abbia
assistito alle persecuzioni razziali perpetrate dai Serbi? Neanche di notte vedevate
gli incendi? "Qui non ci occupiamo di politica", sentenzia Brkic. "Con
gli albanesi abbiamo sempre vissuto in pace. Loro non parlano la nostra lingua e noi non
parliamo la loro: ma ci siamo sempre capiti. Negli ultimi anni, ci sono stati molti
matrimoni misti. Detto questo, non credo al disarmo dell'UCK".
(da Viaggio tra i Serbi assediati
"Da qui non ce ne andremo" in "La Repubblica", 22
giugno 1999)
Elisabetta Rosaspina, inviata de Il corriere
della Sera:
- Con decreto d'emergenza del 29 giugno, l'Onu ha istituito
una commissione di giudici scelti a Pristina. Tra magistrati serbi ed albanesi, L'ha
battezzata Joint advisor council, una specie di consiglio consultivo misto che, con il
codice penale jugoslavo alla mano, gira di città in città ad amministrare la giustizia.
Più precisamente a scarcerare gli arrestati dalla polizia militare della Kfor, con accuse
che vanno dai saccheggi alle aggressioni, dai furti agli incendi, e naturalmente
all'omicidio. Insufficienza di prove per tutti o quasi. Nikola Mark Abdyli, l'albanese
accusato da un testimone di aver partecipato all'omicidio di Besim Bishtrazhni, capo della
polizia dell'Uck a Giacova, 10 giorni fa, se la caverà con un mese di carcere. (
)
Rischiano poco anche i cinque albanesi arrestati ieri notte a Pec con un pugnale sporco di
sangue in macchina. Qualche ora prima, nella stessa zona, Olga Novacovic, una serba di 42
anni, era stata uccisa con cinque coltellate nel cortile di casa. Certo basterebbe l'esame
del Dna sulle tracce di sangue a chiudere il caso.(
)
Olga era rimasta sola in città e fino a dieci giorni fa se ne stava nascosta con
centinaia di altri serbi nel monastero ortodosso protetto dai carri armati italiani. Poi
ha scoperto che i militari della Kfor avevano occupato una scuola proprio accanto alla sua
casa. Si era sentita più tranquilla e aveva pensato di poter ricominciare una vita
normale, all'ombra di un'altra bandiera. Anche se difficilmente avrebbe potuto continuare
ad esercitare la sua professione di ingegnere. Invece l'hanno fatta fuori con quattro
coltellate all'emitorace destro e una all'emitorace sinistro posteriore, come ha
tempestivamente concluso l'autopsia.
(da Sangue e complotti, allarme Nato in
Kosovo in Il Corriere della sera, 26 luglio 1999)
Riccardo Orizio traccia questo quadro della
condizione dei Rom in Kosovo:
- Ci sono stati pestaggi e delitti. Perché a Pec e in
tutto il Kosovo la gente giura che i "Romi", nei mesi scorsi hanno commesso
atrocità al fianco dei serbi. Si punta il dito contro i "gabel", uno deiu due
clan di zingari kosovari, quello che parla un dialetto vicino ai serbi e che ha al proprio
interno molti rom di religione ortodossa. I più poveri, i più disperati. A loro i
paramilitari serbi avevano affidato il lavoro sporco: scavare le fosse comuni, depredare
le case albanesi dopo che i serbi avevano portato via i pezzi più pregiati. Sono loro -
si dice - che hanno fatto da informatori, segnalando alle squadracce serbe quale casa era
albanese e quale no. L'altro clan, quello9 dei "maxhup", si è invece mantenuta
più neutrale. Alcuni di loro sono stati perseguitati perché parlano albanese e sono
musulmani.
Ma, nonostante questa divisione tra "gabel" e "maxhup", la guerra del
Kosovo ha segnalato probabilmente la fine della presenza centenaria di una forte minoranza
rom.
( da Kosovo, gli zingari nella spirale
dell'odio in Il Corriere della sera, 27 giugno 1999)

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