Farò del mio meglio
I registri di classe

Silvia Zesso Cassano

 

Anche la storiografia, come la letteratura,  ha i suoi classici. Sono le grandi opere che si staccano dalle altre per un qualcosa in più che ne costituisce il fascino. Secondo me è il riflesso di una forte passione personale, che ha indirizzato lo storico verso un oggetto di ricerca piuttosto che un altro. Non può essere stato solo il caso ad  aver fatto scegliere a Bloch di occuparsi dei re taumaturghi guaritori di scrofola o a Ginzburg di ricostruire le vicende di un mugnaio eretico.

Certamente il caso ha grande gioco : sono ricorrenti, nei racconti di chi si è occupato di archivi scolastici, i rinvenimenti casuali in soffitte o cantine di materiali che il rinvenitore sa di aver salvato dalla distruzione o dal perenne oblio.

Anch’io mi sono interessata alla storia della scuola elementare dopo aver trovato un pacco di registri di classe abbandonato in un remoto scaffale della biblioteca della scuola, probabilmente dimenticato nel corso di uno dei tanti traslochi di carte che fanno seguito ad accorpamenti o spostamenti di segreterie. Li ho subito riconosciuti : erano identici a quelli che mia madre (maestra come me) per anni aveva compilato non senza grande insofferenza. Erano anche assai simili a quelli che io compilavo nei primi anni ’60 : avevano i dati anagrafici degli alunni (compresi nomi e  cognomi dei genitori e  mestieri dei padri, una colonna per i poveri (quelli  assistiti dal Patronato) , le valutazioni trimestrali. Le pagine seguenti erano suddivise a metà : nella colonna a sinistra la maestra scriveva il piano mensile delle lezioni e a destra la cronaca della vita della scuola.

Su quest’ultima colonna si è appuntato per primo il mio interesse : è un documento raro. Le maestre infatti hanno sempre scritto poco : mediamente i grandi pedagogisti sono stati uomini (con notevoli eccezioni, è noto) ma soprattutto i Maestri Famosi sono stati uomini : ne è l’archetipo il maestro Perboni di “Cuore” per arrivare via via a don Milani, a Mario Lodi, al maestro Manzi. La visibilità del nome noto (e maschile) corrisponde all’invisibilità della stragrande maggioranza delle maestre, da sempre numericamente maggiori dei loro colleghi.

Ho subito considerato quelle cronache come un esempio di ‘scrittura al femminile’ anche se, ovviamente condizionata moltissimo dal destinatario per cui era prescritta (il Direttore o l’Ispettore). Quel ‘cronaca’ era spesso uno spazio per la riflessione personale, il commento, perfino lo sfogo sentimentale. In quelle righe la maestra aveva modo di parlare di sé - o meglio della sua immagine - sia in quanto  insegnante che in quanto donna. Entrambe erano il prodotto di un lungo (lunghissimo) progetto culturale. Per trovarne le matrici è stato necessario andare indietro nel tempo (almeno fino alle origini della scuola elementare in Italia) e cercare ciò che nei registri era la ricaduta di messaggi che avevano origine altrove.

Perciò ho analizzato  programmi scolastici, circolari ministeriali, e soprattutto quei diffusi ricettari pedagogici che erano allora le riviste e le guide didattiche. 

Essi presupponevano uno stereotipo della maestra (ma anche, ovviamente, della donna) di cui sono andata a verificare l’insistenza e la persistenza nel tempo, e che ho trovato sparsa dovunque, sia negli articoli strettamente pedagogici della prima parte delle riviste, sia nel testi scolastici (dettati, letture per l’insegnante) sia nelle rubriche di piccola posta delle riviste didattiche (dai consigli sentimentali a quelli di arredamento). E’ stata una lettura asfissiante, a tratti insopportabile, per la monotonia del messaggio posto come indiscusso e indiscutibile, grossolano, misogino (anche da parte delle donne stesse rare come collaboratrici, ma presenti) tenacissimo nel legare l’idea di maestra a quella di mamma e a richiedere ad essa le virtù materne, ‘naturali’ sorvolando su una professionalità che allora non esisteva quasi come termine linguistico.

Gli scarti, le divergenze dallo stereotipo sono state rare, quasi delle tracce che si perdevano nella compattezza monolitica dell’ideologia corrente, in qualche caso - penso ad alcune lettere nella rubrica della posta al giornale - probabilmente erano preannunci del cambio generazionale.

Molte delle maestre in servizio negli anni ’50 erano le stesse che per un ventennio avevano fatto scuola secondo le indicazioni del fascismo, che ne aveva marcato troppo a lungo la formazione per consentire cambiamenti che, d’altronde, la scuola elementare non ebbe neppure a livello di programmi ministeriali : quelli del ’55 si riallacciano idealmente ai precedenti.

Perciò ‘Farò del mio meglio’ è il titolo che ho dato al primo capitolo :  

"La mia classe è composta di diciannove  maschietti...mi sembrano svegli e buoni,  sebbene un po' vivaci. Ora  è mio  compito renderli disciplinati, rispettosi e nello stesso tempo  entusiasti d'imparare e di conoscere. Farò del mio meglio con grande volontà" (registro, classe I, ottobre 1957) 

Queste frasi, che sembrano tratte dal tema d'una scolaretta insicura, sono invece l'esordio con cui, nel registro di classe, una maestra esprime i suoi propositi a inizio d'anno. Quel ‘fare del proprio meglio’ è indicativo di un modo di porsi dimesso nei confronti del proprio lavoro : vi si può leggere un senso d’inadeguatezza che è una delle caratteristiche di più lunga durata legate all’immagine della maestra.

Per trovarne la matrice  dobbiamo risalire indietro nel tempo di quasi un secolo : la scuola elementare in Italia, ai suoi esordi è una scuola che non chiede molto, sul piano professionale, ai suoi maestri. La legge Casati (1858)  fu preceduta da una serie di interventi parlamentari in cui emerge il timore che si desse ai maestri  “ un’istruzione ‘troppo ampia’ ‘troppo superiore a quella che essi dovevano trasferire ai loro allievi’, che li rendesse ambiziosi e ‘troppo sovente agitatori’ “ (in Storia d’Italia - Annali IV  ‘Romanzi e realtà  di maestri e maestre’ di Giorgio Bini p.1203)

 Nel cercare le immagini delle maestre ho trovato anche quelle dei bambini e delle bambine, analogamente importanti per capire su quale ipotesi d’infanzia ponesse le sue basi la scuola di allora. Le idee, allora, erano chiare e si possono sintetizzare nei quattro aggettivi che ho messo come titolo alla mia ricerca (non ancora pubblicata) traendoli da una vecchia preghiera che sta nella mia memoria infantile (credo che fosse all’angelo custode) : ‘Buoni, bravi, obbedienti e studiosi’ così dovevano essere, esattamente come le loro maestre ( con qualche insistenza in meno rispetto all’ultimo aggettivo).  

Nella motivazione a condurre questa ricerca ha avuto un peso un’altra immagine, fotografica stavolta.

E’ una foto di classe, la mia, datata anno scolastico 1957/58. Io sono una delle venti scolare tutte in grembiule nero, lo stesso della maestra, e tutte con le mani dietro la schiena. Questa postura è stata da sempre, per me, un ‘punctum’, cioè quell’elemento che, secondo Roland Barthes, colpisce senza che ce ne rendiamo conto pienamente, e che è un dettaglio apparentemente insignificante, ma che rende diversa ‘quella’ fotografia dalle altre.

Perché quelle mani dietro la schiena ? Era un’abitudine diffusissima, non c’è vecchio scolaro di allora che non ne dia conferma. Eppure nessuno dei miei registri ne parla, né si può trovare questa indicazione in nessuna guida o piano preconfezionato dalle riviste. [1]

Alla fine ci sono riuscita, ho trovato la fonte scritta, a conferma di quanto pesi la lunga durata dei comportamenti : ne parlano i programmi della scuola popolare del 1905 :

" Un altro metodo in uso nelle scuole inglesi si è venuto  diffondendo: quello di far tenere durante lo stato di attenti, non le braccia conserte (uso non lodevole che nuoce alla respirazione) e neppure le mani sul banco (che difficilmente  vi restano a lungo) ma le mani intrecciate dietro la schiena. In tale positura il busto rimane naturalmente eretto e il torace più dilatato "

La motivazione di tipo igienico-preventivo non deve trarre in inganno. Non credo fosse vero allora, e tanto meno tra gli anni ’50 e ’60. Si faceva così perché  tutti facevano così. Probabilmente neppure la mia maestra se ne chiedeva il motivo.  Lo stesso vale per i contenuti di ciò che si insegnava e per i riti cui si aderiva allora, riportati dai registri secondo una calendarizzazione che andava dalla festa del risparmio (31 ottobre) con relativo ‘tesseramento, cioè apertura di libretti di risparmio, all’altarino per la madonna nel mese di maggio.

Stessa ricorrenza e calendarizzazione nei contenuti, che si possono verificare nei ‘piani mensili delle lezioni’ sui registri : 4 ottobre San Francesco, 12 ottobre Cristoforo Colombo, i sette re di Roma (in terza), Pietro Micca in V.

Come individuare, in queste scritture così ripetitive, gli scarti, le opposizioni, le ‘trasgressioni’ dalla norma ? E’ un’analisi che ha richiesto molta attenzione e che si può dedurre da una maggior stringatezza e laconicità, dalla mancanza di sentimentalismo nella cronaca, dall’assenza di qualche tematica nei piani, dai primi tentativi di voto unico per materie secondarie come l’educazione fisica o il disegno. L’essere espliciti, sui registri, avrebbe creato problemi con chi aveva il compito del controllo, il Direttore, e non avrebbe contribuito a un eventuale rinnovamento.

Alla trasgressione non visibile non documentata delle maestre corrispondono altre ‘non visibilità’ : quella del mondo esterno e degli eventi storici o sociali che in quegli anni furono di grande portata e che non lasciano quasi traccia nei registri e  quella dei bambini.

Ai bambini ‘invisibili’ ho dedicato il capitolo successivo.

I primi erano quelli che non c’erano, cioè gli scolari che non sono neppure segnati negli elenchi delle prime pagine, perché non frequentavano la scuola, in quanto non era dato loro di accedervi : gli handicappati, i bambini dei collegi, e i ‘disertori, renitenti e veterani’, cioè quelli che ingrossavano le cifre di quella che oggi chiamiamo ‘mortalità scolastica’.

Di questi bambini ai margini i registri recano labili tracce : a volte comparivano fra gli iscritti per poi entrare nella colonna dei trasferiti, degli assegnati alle differenziali, dei bocciati oppure in quella dei promossi 'per anzianità’ in quanto, compiuti i 14 anni, la scuola aveva diritto ad allontanarli.

Di essi le maestre scrivono poco, in qualche caso con toni patetici, in qualche altro senza riuscire a nascondere insofferenza. Gli interventi dei pedagogisti o di altri articolisti sulle riviste convalidavano entrambi gli atteggiamenti.

Solo con l’uscita di ‘Lettera a una professoressa’ le loro cifre assunsero l’evidenza scandalosa che altrove compariva solo come asettico dato statistico che, senza il contesto di una critica profonda alla scuola, non riusciva a modificarne nulla. Ciò che andava messo in discussione, infatti,  non poteva che essere l’impianto ideologico da cui derivava il resto, tutto, dal modo di scrivere i registri, ai contenuti di ciò che si insegnava, alle relazioni con i bambini.

Erano i ‘Grandi Valori’ che ho analizzato nella terza parte, in cui ho voluto trascrivere soprattutto i testi che allora avevano maggior diffusione, cioè quelli dei dettati, delle poesie, delle letture consigliate per arrivare anche a quelli dei problemi di aritmetica e di geometria, attraverso i quali si costruiva il mondo dei rapporti economici e sociali.

‘La cavallina storna’ o il dettato ‘Tutti lavorano’ o i problemi sui contadini che vendono al mercato dozzine di uova percorrendo strade misurate in chilometri e decametri si sono fissati nella memoria di un’intera generazione. La sparizione di questi stereotipi, per chi ha una visione non storicistica della storia della scuola, deve indurre a non abbassare la sorveglianza, riuscendo a individuare quali altri stereotipi hanno sostituito quelli di derivazione, in certi casi, ottocentesca. Devono anche essere stimolo a un’attenzione continua sul mestiere dell’insegnare, ricordando quanto anch’esso sia sottoposto alla persistenza delle ‘lunghe durate’. Dovrebbe infine evitare la tentazione di rimpiangere il passato, che nella genericità del ricordare individuale, spesso si ammanta di una vaga nostalgia per un tempo più semplice, per una scuola che, a cinquant’anni di distanza può far rimpiangere quel mondo ‘delle lucciole’ di cui parlò Pasolini, sulla base di una mitizzazione analoga a quella di chi rimpiange la scomparsa delle rondinelle e dei mandorli fioriti dalle scritture dei bambini d’oggi


[1] Le posture della disciplina scolastica hanno lasciato tracce in più di un film girato in quegli anni o anche successivamente, come ad esempio ‘Scuola elementare’ di Alberto Lattuada (1954). torna su