« L'universo (che altri chiama la Biblioteca) ... »
(J.L. Borges, Finzioni)

« Ogni potere di violenza simbolica, cioè ogni potere che riesce a imporre dei significati e a imporli come legittimi dissimulando i rapporti di forza su cui si basa la sua forza, aggiunge la propria forza, cioè una forza specificamente simbolica, a questi rapporti di forza  »
(P. Bourdieu, J.C. Passeron, La riproduzione)

 Premessa


Il punto di vista che assumo nel corso di questo contributo è quello di un'insegnante di scuola secondaria superiore che non può né vuole prescindere dal suo ruolo e dal momento storico che ne segna l'esercizio. 1968, 1977: sono date rilevanti nella storia dell'istituzione scolastica e nella esperienza di ogni insegnante, anche di storia. Questo insegnante si domanda non già « perché » fare storia o «come» farla, ma «perché» trasmetterla e «come» trasmetterla. Le sue domande non coincidono dunque con quelle dello storico, anche se alla radice può esservi un'analoga crisi di identità.

Nel caso dell'insegnante la crisi e le domande sono complicate dal ruolo di riproduttore-ripetitore che gli è affidato e dalla disaffezione specifica che questo ruolo induce. Emersa nel 1977 (condenso in una data la fase più acuta di disgregazione negli istituti secondari superiori è dello scaricarsi al loro interno di violente tensioni giovanili), tale disaffezione è legata alla presa di coscienza di un più profondo grado di subalternità che inerisce allo status degli insegnanti: la loro figura di « lectores », di dilettanti estromessi dal circuito della produzione culturale in senso lato. Che questo riconoscimento - e la voglia di farvi i conti - avvenga in presenza della crisi sociale, politica e ideologica che attraversiamo e in rapporto all'emergere di soggetti portatori di nuove istanze (donne, giovani), poco toglie al fatto che il modello politico di stampo sessantottesco di un docente democratico, sindacalizzato e portavoce delle classi lavoratrici, non sia più sufficiente (1).
L'insufficienza di tale modello appare ancora più netta se si pensa che il processo di riforma della scuola graverà in buona parte sugli insegnanti, investendo la loro capacità di rinnovarsi per rinnovare contenuti e metodi delle discipline. E' in questa prospettiva che mi appaiono inadeguati - fino al punto di diffìdarne - i molti e riduttivi richiami ad assumersi le proprie responsabilità come se in tale assunzione risiedesse il segreto per risolvere la crisi della scuola e di chi vi lavora. I problemi sarebbero veramente pochi e semplici se bastasse la « responsabilità » dell'adulto verso il giovane, del docente (in particolare di storia) verso il discente, a promuovere il recupero di identità da parte degli studenti(2).
Che «nelle questioni intellettuali, come nelle altre, l'orrore della responsabilità non sia un sentimento da raccomandare» ce l'ha insegnato, tra gli altri, Bloch nella sua Apologia della storia. Che rifugiarsi nel pessimismo sociologico sia analiticamente povero e praticamente sterile, poiché esistono nella scuola contraddizioni e forze su cui fare leva, che dare le dimissioni dal ruolo e dall'istituzione sia un'illusione del soggetto, ce l'ha insegnato la militanza politica. Per questo la riflessione teorica e la battaglia politica non possono attardarsi nella denuncia scontata di coloro che si riconoscono «sempre solo in ciò che assume il ruolo di negativo, di marginale, di non conformista » e sanno « pensarsi solo in funzione di opposizione»(3). Il problema che va posto e risolto è un altro.

Perché mai è sempre più stanco della scuola proprio l'insegnante che in passato non si è disperso nel « sociale », non si è confuso immediatamente con gli studenti, non si è dimenticato di essere « adulto » e di avere un ruolo? In questa stanchezza, io credo, non c'è fuga dalle responsabilità, ma disagio per la loro bassa qualità in termini di potere e competenze. A questa stanchezza, che viene dalla « miseria » dei ruolo, non si può rispondere con appelli volontaristici alla coscienza, ma con interventi specifici che modifichino, nella pratica, la qualità del lavoro didattico. In questa opera di modifica occorre che anche gli insegnanti siano chiamati a svolgere oggi un ruolo di protagonisti e non di subalterni su cui scaricare, domani, la responsabilità dei mancato rinnovamento. E occorre anche tenere ferme certe acquisizioni politiche del 1968 (di nuovo condenso in una data la fase che, per chi già operava nella scuola, va dalla Lettera a una professoressa alla rivendicazione delle 150 ore da parte della FLM).

L'esigenza di un bilancio critico sul terreno della didattica - che Ricuperati, tra gli altri, avviava fin dal 1972 - non può suonare come una liquidazione. Suonano invece come tali molte interpretazioni che oggi si formulano; in esse si esprime una concezione regressiva della scuola e si configura il ritorno dell'insegnante a un ruolo puramente «tecnico», con tutte le deleghe e le mistificazioni che questo comporta.
Rifiuto della selezione di classe, spaccatura della corporazione docente, rivendicazione della figura di lavoratori e non di pubblici funzionari, contestazione della separatezza della scuola, riferimento alla fabbrica: furono questi i modi attraverso cui si comprese il carattere politico del ruolo insegnante (ben pochi erano, dentro la scuola, gli iscritti ai partiti o i lettori dei «Quaderni rossi»); ma non è tutto: di qui venne anche un salto di qualità nella domanda di sapere e una singolare esperienza di accelerazione dell'apprendimento dalla « storia che si fa ». «Scoprire» di trasmettere la «storia delle classi dominanti» fu, insieme, scegliere un «punto di vista» ed eleggere un passato non detto che andava studiato e trasmesso: quello della classe operaia e delle sue lotte. La formula gramsciana «tecnici e politici» sembrò riassumere le caratteristiche del nuovo ruolo che si voleva costruire.

Non si può tagliare netto con la forma incompiuta di quell'esperienza solo perché molti hanno preso la scorciatoia del primato assoluto della politica, della identificazione di cultura e politica, di scuola e società. Non siamo all'anno zero quanto al dibattito e alle esperienze. Le tematiche sono tracciate: rapporto scuola-lavoro, governo democratico della scuola, rinnovamento di contenuti e metodi, aggiornamento. Certo non si può dire che siamo in una fase di prevalente tensione al rinnovamento. La disgregazione ha camminato. Vi sono segni notevoli dì un ritorno all'indietro, a una «serietà degli studi» che ripropone il messaggio della selezione e del vecchio modo di fare scuola, in un rinnovato rifìuto della scuola di massa. Ma una terza via che eviti il «ritorno al passato» e il «rifiuto del ruolo» ha bisogno d'insegnanti competenti, politicamente consapevoli, e di una scuola che si voglia socialmente produttiva.
 

NOTE

1. Le tematiche della crisi di identità del soggetto, dell'emergenza di istanze connesse all'individualità, etc. sono state discusse da un gruppo di donne insegnanti del sindacato scuola CGIL di Bologna in riferimento al ruolo di riproduzione « naturale » e « culturale » cui è relegata la donna nella divisione dei lavoro. Su questo tema cfr. DWF, 1977, n. 2. Si è rilevato in particolare l'inconsistente contributo richiesto all'insegnante - uomo o donna - nella produzione culturale e lo specifìco stato di derealizzazione che ciò comporta.
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2. cfr. L. Passerini, Storia e identità in « Rivista di storia contemporanea », 1978, n. 3.
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3. Ibid., p. 420.
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