Obiettivi di un insegnamento della storia


Non è cosa di poco conto ridurre il tasso di riproduzione-ripetizione nella scuola sia per l'insegnante sia per lo studente, renderli entrambi protagonisti della situazione didattica, promuovere una comune capacità di «lettura» e di inserzione nel presente. Se si vuole, come scrive de Certeau, «introdurre lo studente come attore nella città storiografica» e renderlo «produttore di storia e storiografia» (4), occorre un lungo lavoro di riflessione collettiva e di elaborazione di strumenti idonei. Non vedo, quindi, come si possa per ora andare oltre la formulazione di alcuni orientamenti.
Lo scarto tra ricerca e didattica è comune a tutte le discipline. Secondo Bourdieu e Passeron si tratta di un dato strutturale. Ogni sistema scolastico tenderebbe «a riprodurre con un ritardo proporzionale alla sua autonomia relativa i cambiamenti sopravvenuti nell'arbitrario culturale che ha il mandato di riprodurre (ritardo culturale della cultura scolastica)» (5) . La storia insegnata registra questo ritardo con particolare evidenza. Essa non sembra essere stata scossa in profondità e in estensione dai rivolgimenti sociali e politici avvenuti a livello mondiale, né dalle risultanze del lungo e fitto dibattito epistemologico svoltosi tra gli storici. Del resto, se non si è disposti a chiamare « ricerca » ogni iniziativa che trasgredisca i programmi o metta tra parentesi il manuale, bisogna riconoscere che, nella pratica e nella teoria, è prevalso il riferimento a un'indagine di tipo sociologico mediante questionari, interviste, ecc. oppure la valorizzazione delle forme democratiche di didattica. Intendiamoci: la democratizzazione della didattica è indispensabile, le ricerche sul campo sono necessarie per molti problemi, ma poche sono state le ricerche specificamente storiche. E questo deve farci pensare se è vero che «il problema decisivo sta nel fare scuola quotidianamente in modo diverso e non nell'organizzare una bella ricerca domenicale» (6). Per questo è forse più fecondo misurarsi con le molteplici difficoltà specifiche prima di pronunciarsi per la sola ricerca o per la combinazione di propedeutica e ricerca o per il modulo tradizionale di spiegazione-interrogazione-voto. Preferisco personalmente parlare di formazione di base che fornisca strumenti per pensare storicamente e per ricercare storicamente, senza inseguire l'impossibile idea di produrre uno «storico di mestiere» nella scuola secondaria.

Ma veniamo alle difficoltà.
Una didattica non ripetitiva deve rendere visibile il modo in cui si costruiscono le rappresentazioni storiografiche, deve fare apprendere il linguaggio storico, a meno che non si creda che la « pratica» farà da sé. Sappiamo che questo linguaggio - tratto com'è dal linguaggio comune, con terminologia costruita dagli storici stessi o desunta dalle altre scienze sociali, aperto a molti transfert - è difficile (7).  Non si vuole qui entrare nel merito del dibattito se la storia sia scienza e fino a che punto, se lo storico sia un detective che insegue le piste lacunose dell'accaduto o un tecnico di laboratorio che prepara il suo reperto da analizzare o un'artigiano, secondo la formula di Bloch, o, infine, tutte queste cose insieme e altre ancora. Si vuol solo dire che chi non condivide l'idea di una storia costruita secondo le regole dell'«empatia» e della «comprensione», ma crede piuttosto a una storia capace di «promuovere una classificazione e una progressiva intelligibilità, anziché una semplice enumerazione senza nessi e quasi senza limiti» (8), non può esimersi - dinanzi a una spiegazione storica - dal valutare la tenuta e la specificità dei vari tipi di «causalità» impiegati, dei vari criteri di «periodizzazione» adottati, dei vari statuti storici dei «fatti» indicati.

Promuovere e verificare l'apprendimento di questo linguaggio e di queste categorie da parte degli studenti è un obiettivo irrinunciabile. Prendiamo per esempio Che cos'è la storia di Chesneaux. Questo testo che mette la pratica sociale e il presente al posto di comando in opposizione a una cultura mandarinale, corporativa e gerarchica, riconosce tuttavia la necessità di un «minimo previo di conoscenze», di una «accumulazione primitiva» in cui vengano «definite» e messe «a disposizione di tutti» informazioni basilari di storia e di tecnica dell'indagine (9).  Riconoscimento importante, al quale mi riferisco senza per questo voler ridurre o piegare al mio ragionamento il senso dello scritto di Chesneaux. Ma come riuscire a realizzare questa accumulazione originaria quando il linguaggio e le categorie degli studenti funzionano in senso realistico e tendenzialmente semplificatorio? Ha senso reprimere, rifiutare questo linguaggio comune e questo realismo? Non lo credo. Condivido infatti la tesi di chi riconosce al linguaggio comune - inteso come amalgama di vari usi linguistici, specialistici e non, e come base comune storicamente, socialmente e culturalmente determinata - la capacità di cogliere significati e collegamenti che possono sfuggire ai linguaggi specializzati(10). Del resto la tendenza realistica degli studenti esprime la giusta convinzione o la sana pretesa che le «parole» abbiano a che fare con le «cose». Si tratta allora piuttosto di promuovere un arricchimento della competenza linguistica sia in termini di comprensione sia di produzione. Bisogna passare da spiegazioni semplici che trattano il fatto storico come un «dato» o la causa come un «soggetto» (11), a spiegazioni più complesse che mettano in gioco fatti non puntuali, processi, sistemi di causalità. Per questa via si potrà forse evitare una delle situazioni più imbarazzanti della scuola che consiste proprio in un fingere di capire e di capirsi prima ancora di avere posto dei problemi.

Dalla complessità delle «parole» bisogna risalire alla complessità dello «stato di cose». Se dovessi riassumere il senso della riflessione epistemologica indotta dalla nuova storiografia, direi che esso consiste in un enorme complicarsi dell'immagine della storia. Si è consumata da tempo la fine delle teleologie e dell'«ampio e molle guanciale dell'evoluzionismo» comtiano, per dirla con Lucien Febvre (12). L'ipotesi stessa di un «motore della storia» sembra perdere di vigore. In ogni caso è la fine di una serie di miti storiografici: la «totalità» come organismo sociale omogeneo in ogni suo elemento e in continua evoluzione nel tempo, il tempo come schermo omogeneo della successione di fatti unici e irripetibili, lo spazio come neutra geometria dei popoli, etc. Subentra invece la registrazione delle discontinuità, la misura degli scarti, il rilevamento di temporalità diverse, la descrizione di spazi che dicono le pratiche degli uomini. Lo storico, per così dire, si storicizza, prende atto della sua incidenza nella costruzione del «fatto», sa che l'idea di totalità può avere per lui, come per Kant, valore «regolativo» e non «costitutivo».

Come tradurre nell'insegnamento questa complessità, rapidamente richiamata, quando la situazione didattica evoca costantemente quelle semplificazioni e quei «fantasmi» che l'epistemologia vorrebbe già demoliti? Appare dunque inevitabile che nell'insegnamento della storia non si possano separare riflessione metodologica e acquisizione dei contenuti. In altri termini, bisogna tenere compresenti almeno tre «attenzioni»: una di ordine epistemologico, una di ordine contenutistico e una di ordine pedagogico. E' necessaria una riflessione mediante la quale tenere sotto controllo l'intero circuito didattico. Riflessione quindi, e non solo «pratica» e, insieme, «riflessione» che proceda dalla «pratica».Non basta quindi cambiare la materia del consumo didattico: dalla storia generale alla histoire nouvelle con i suoi «nuovi problemi», «nuovi approcci», «nuovi oggetti» o alla Oral History. È' la situazione subalterna di puro consumo di storia che va modificata. Perciò bisogna storicizzare la storiografìa e rendere trasparenti i vincoli che legano gli storici a determinate «comunità» che hanno i loro paradigmi, le loro convenzioni, le loro strategie, i loro mezzi. Se è vero che «ogni ricerca storiografica si articola su un luogo di produzione socio-economico, politico e culturale»(13) allora non ha molto senso dare in mano agli studenti dei libri o delle antologie di interpretazioni senza che gli autori siano ricondotti alla posizione che occupano nella rete della produzione storiografica. In assenza di tale collocazione, i conflitti di interpretazione rischiano di ridursi a divergenze tra autori, occultando così gli schieramenti ideologici e politici che animano la produzione storiografica ed esprimono i legami contratti dallo storico con le problematiche emergenti nella «storia che si fa». Ovviamente ricondurre un testo al suo luogo d'origine, non significa ridurlo ad esso. Finora si è parlato solo di orientare gli studenti tra i libri, non delle regole del loro uso.

Non vi è tuttavia consapevolezza metodologica che possa esimere l'insegnante dal tematizzare le scelte di contenuto, dall'esibire un punto di vista, dal privilegiare una determinata strategia dell'attenzione. Nulla vieta infatti che possa darsi una didattica raffinata su questioni irrilevanti. Per questo bisogna decidere che la didattica deve realizzare una formazione di base orientata alla comprensione dei conflitti e delle tendenze dei proprio tempo e all'intervento consapevole nel presente. Porsi questo problema, scegliere quali siano le conoscenze storiche oggi indispensabili, non significa ignorare che la ricchezza teorica e problematica del presente permette una misura sempre rinnovata della distanza e della prossimità del passato; significa semplicemente fare i conti col tempo-scuola e prendere atto che la storia contemporanea è entrata più nei temi di maturità con cui il ministero fa mostra di aggiornarsi e nei ponderosi manuali dell'ultimo anno che nella pratica dell'insegnamento. Si tratta anche di constatare che la storia insegnata è ancora prevalentemente - se non esclusivamente - nazionale, mentre già da due secoli l'espansione del capitalismo ha unificato la storia del mondo. È' quindi indispensabile respingere le tradizionali partizioni cronologiche e geografiche senza per questo cadere nel «presentismo».Scrive Barraclough che «la storia contemporanea ha inizio quando i problemi che sono- attuali nel mondo odierno assumono per la prima volta una chiara fisionomia»  (14). Ciò vuol dire che si ha «presentismo» solo quando si annullano i tempi propri dei problemi. Il rifiuto, quindi, delle ricerche improvvisate non implica la rivalutazione di quella sensibilità «antiquaria» (prevalente nella nostra scuola, specie nei bienni) che schiaccia il presente in nome del passato Più spazio dunque alla storia contemporanea. Ma con quali contenuti?

E' ormai un luogo comune, anche se scarsamente praticato, sostenere che va respinta la storia «trattati-e-battaglie» e va invece promossa la storia delle strutture economiche, delle istituzioni, delle mentalità, di ciò che dura e non si riduce a puro « avvenimento ». I conflitti dei presente generano domande sulla natura dello stato e sul ruolo delle formazioni politiche, sul peso delle ideologie e sull'esercizio del potere economico, sulla composizione delle classi e sulla dinamica dei movimenti, sulla logica dei sessi e sulle differenze delle generazioni, sui bisogni degli individui, sulla rilevanza dell'ambiente «naturale» e sull'organizzazione degli spazi. Restituire a questi temi la loro storia è difficile perché richiede competenze di ordine sociologico, economico, giuridico, ecc. che la formazione universitaria non ha dato agli insegnanti. A tale acquisizione di competenze deve poi accompagnarsi la conoscenza dello stato del dibattito storiografico. Problemi rilevanti («transizione», «crisi» , continuità/discontinuità, etc.) hanno suscitato vasti dibattiti che raramente trovano eco nell'insegnamento. Ed è un'altra caratteristica imbarazzante della storia insegnata che spesso vi tornano dei conti che non tornano affatto nella storiografia. Piano «logico» e piano «genetico» vanno tenuti insieme. Non si tratta di studiare storia risalendo all'indietro nel tempo, ma di avere presenti due movimenti: la forma sviluppata del processo illumina il passato, le tappe del processo chiariscono come si è giunti a quella forma. In breve, i due percorsi già additati dalla riflessione teorica di Marx (15). Ricapitolando: più spazio alla storia contemporanea, più risalto ai momenti «critici», attenzione al piano evolutivo e a quello strutturale.

Ma nella didattica rispunta il problema della «totalità». Mi riferisco, da una parte, al fatto che le unità di apprendimento devono avere una dimensione significativa quanto ai tempi e ai temi che coprono; dall'altra, mi riferisco alla domanda di totalità - cioè di coerenza e completezza nella quale lo studente individua la forma che devono assumere le conoscenze acquisite. Richiamo rapidamente due esperienze fatte in anni successivi in classi terze di liceo scientifico. Nel primo caso si era concordato dí analizzare più a fondo la formazione economico-sociale propria dell'alto e basso medioevo e di farlo privilegiando la lettura di documenti. Questi vennero reperiti a partire da un registro tematico che conteneva divisione del lavoro, rapporti di classe, tecniche produttive, rapporto città/campagna, ideologia del lavoro ecc. Nel secondo caso si era deciso uno studio della vita quotidiana dell' uomo medievale. Ci si è affidati a una ricerca bibliografica sulla famiglia, i giovani, le donne, la sessualità, i divertimenti, le credenze, il lavoro. In entrambi i casi i testi non erano scolastici e venivano usati contestualmente al manuale. Necessariamente, in entrambe le unità di studio affrontate, si è cercata una relativa razionalità sistematica sulla base della quale pro- cedere nel « giuoco » delle relazioni e delle dipendenze fino ad abbozzare la « ricostruzione » di una totalità. Pratica libresca? Non è un'obiezione rilevante. Qualcuno chiama ricerca anche quella sui libri purché abbia il carattere di un'indagine orientata coerentemente da una domanda e sottoposta ai necessari controlli di rilevanza e pertinenza. Personalmente preferisco chiamarla didattica della sollecitazione. Mi preme invece sottolineare che in entrambi i casi ci siamo trovati a ricostruire visioni «globali», «totalità». E' un errore? Non credo che sia questo il problema. Non credo cioè che abbia senso sottomettere meccanicamente la didattica della storia al « divieto di totalità » su cui convergono le analisi epistemologiche, le quali - per altro - accolgono la totalità come «ambizione» (16) e «orizzonte» (17) della ricerca storiografica. Si tratta piuttosto di controllare se è una «buona» totalità, che studenti e insegnanti sappiano essere forma transitoria di conoscenze acquisite con sufficiente ricchezza documentaria e consapevolezza metodologica.

Per sottolineare il grado di approssimatezza della totalità conseguita, per evitare i rischi di riduzionismo e di semplificazione che essa comporta, per impedire appunto che «i conti tornino» più di quanto non avvenga in sede storiografica, tendo a valorizzare una didattica che chiamerei «strabica» o «dispersiva» fondata sulla presentazione di testi dalle logiche divergenti come possono essere per es. Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg e Problemi di storia dei capitalismo di Maurice Dobb. Ma se a queste letture non si accompagnasse una conoscenza di base, un parallelo patrimonio di informazioni desunto da altri testi, la scelta sarebbe assurda e il suo effetto disorientante.

Muovendomi in questa prospettiva, che vuol tenere legati informazione di base e  «ricerca» sui libri, non posso condividere la scelta di Mattozzi (18). .Il filo del suo ragionamento mi sembra il seguente: gli studenti imparino a far ricerca, poi, appreso il metodo, continueranno ad applicarlo. Anch'io sono convinta che promuovere l'abito della ricerca sia d'importanza decisiva. Ma sono anche convinta che non si possa eludere, come invece sembra fare Mattozzi, il compito di dotare lo studente di un capitale di conoscenze storiche più o meno acquisite. Un interrogativo: lo studente che, finita la scuola secondaria si iscriverà a ingegneria, farà ricerca sulla crisi del '29 mai affrontata a scuola? Ma chi, anche tra i ricercatori di professione, ricerca su tutto? La fine della bella certezza cartesiana, di un dio che garantisce i nostri assiomi, ci impone delle scelte e, tra le scelte, anche quella di utilizzare le ricerche degli altri. Questa unilaterale riduzione-dissoluzione del lavoro didattico a esecuzione di una ricerca, mi sembra d'altra parte privilegiare ancora l'idea di un rinnovamento giuocato tutto su singoli insegnanti innovatori e non su una sperimentazione-aggiornamento di massa che sappia darsi delle ipotesi e costringersi a delle verifìche.

Si chiamano in causa i «bisogni culturali delle masse giovanili» (19). L'enunciato è generale, per non dire generico. Quali sono queste esigenze? Personalmente conosco le domande di conoscenza e le proposte di ricerca fattemi dagli studenti negli ultimissimi anni: crisi economica e politiche economiche, ruolo dello stato nella storia moderna e contemporanea, meccanismi della esclusione in riferimento al «folle» e al «delinquente», movimenti di massa più recenti e radici del terrorismo, rapporti tra cultura popolare e cultura delle classi dominanti, infine, ricorrente, la nota domanda brechtiana. Mi chiedo: in quanti casi e in che misura si può rispondere con una storia «orale» e «locale»? con l'iniziativa di singoli insegnanti? con competenze strettamente storiche? Ricordo due delle risposte fornite: un corso extracurriculare di economia tenuto da docenti di Bologna e Modena, sul tipo di quelli già tenuti dagli stessi docenti per le 150 ore e pubblicati da «Inchiesta»; un incontro con Carlo Ginzburg per discutere - sulla traccia del suo libro - la problematica della cultura popolare, l'orientamento storiografìco da lui privilegiato, etc. Fare entrare «esperti» nella scuola, programmare itinerari di lavoro sono momenti di ciò che intendo per «laboratorio».
 

NOTE

4. M. de Certeau, dibattito pubblicato dal « Magazine litteraire », 1977, n. 123, cit. in I. Mattozzi, Contro il manuale, per la storia come ricerca. L'insegnamento della storia in « Italia Contemporanea » 1978, n. 131, p. 40.
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5. P. Bourdieu, J.C. Passeron, La riproduzione, Firenze, 1972, p. 111.
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6.  A. Cabella, Una proposta alternativa per le superiori: il lavoro di gruppo, Torino, 1976, p. 15.
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7.  Cfr. M. Bloch, Apologia della storia, Torino, 1950, pp. 130-52; H.I. Marrou,
La conoscenza storica, Bologna, 1962, pp. 148-178.
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8. M. Bloch op. cit. p. 28.
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9.  Cfr. J. Chesneaux, Che cos'è la storia. Cancelliamo il passato?, Milano, 1977, pp. 181-190.
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10.  Cfr. la voce Creatività curata da E. Garroni in Enciclopedia, Torino, IV 1978, pp. 26-28.
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11.  Cfr. L. Von Friederburg e P. Hubner, Immagine della storia e socializzazione politica in Scuola, potere, ideologia, a cura di M. Barbagli, Bologna, 1972, pp. 271-284. A. Calvani, L. Pentolini, A. Tendi, P. Scardigli, Uso di categorie storiche nell'adolescenza: la personalizzazione della storia in «Scuola e città», 1977, n. 6, pp. 241-250.
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12. L. Febvre, Problemi di metodo storico, Torino, 1976.
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13. M. de Certeau, L'opération historique in Faire de l'histoire, sous la direction de J. Le Goff et P. Nora, Paris, 1974, I, p. 4.
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14. G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Bari 1975.
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15. Cfr. M. Godelier, Prefazione a Marx, Engels, Lenin. Sulle società pre-capitalistiche , Milano, 1970.
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16.  P. Vilar, Storia marxista, storia in costruzione in Problemi di metodo storico a cura di F. Braudel, Bari, 1973, p.602,
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17.  F. Furet, Le quantitatif dans l'histoire in Faire de l'histoire, cit. p. 55.
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18.  Cfr.. I. Mattozzi, Contro il manuale, cit.
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19.  I. Mattozzi, art. cit., p. 34.
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