Il laboratorio di storia

 

Forse anche «laboratorio» conoscerà la stessa sorte di altri termini - come «ricerca», «sperimentazione», ecc.- i quali, nati all'insegna del rinnovamento, sono venuti via via coprendo realtà che nulla vi hanno a che fare fino a comparire nel mistificante linguaggio ministeriale.

Con questo termine intendo un luogo e un modo - «fìsicamente» e teoricamente attrezzato - che permetta a insegnanti e studenti l'esercizio quotidiano delle loro capacità operative. Oggi si parla molto di «creatività» nell'ambito della didattica, ma spesso la si intende come spontaneità, libera espressione, ecc. In questa concezione spiritualistica si perdono di vista gli aspetti decisivi della creatività: la «costruttività » e la «legalità», si dimentica che la specificità dell'apprendimento umano è di essere innovativo e insieme fondato su regole. il laboratorio è il luogo e il modo in cui apprendere operativamente le «regole del giuoco» e, insieme, la possibilità di modificarle. Teoria della conoscenza ed esperienza didattica convergono nel riconoscere che l'apprendimento non procede per « definizioni », ma per
« regole d'uso ». Il '68 si limitò a « cambiare solo gli eroi » (lotta delle masse al posto di storia politica-diplomatica). il problema consiste invece nel rendere visibile agli studenti il modo di produzione storiografico e nel rendere accessibile un ricercare storico sui cui limiti di scientificità tornerò. La logica del laboratorio, le condizioni del suo funzionamento (strumentazione tecnica, ricchezza documentaria, attenzione metodologica) sono incompatibili con ogni «robinsonata» pedagogica che si affìdi al singolo insegnante di buona volontà e all'interesse dello studente motivato. L'apporto individuale di insegnanti e studenti, il peso delle loro motivazioni è certo rilevante, ma non decisivo per effettuare cambiamenti di vasta portata.

«Lettura», «analìsi secondarie», «ricerche» - ed altro ancora - hanno a che fare col «laboratorio». I libri di storia (manuali e monografia) non offrono lo «spettacolo della ricerca», ma i suoi risultati. Bisogna quindi imparare a interrogare libri e documenti. Il passaggio da «il testo è tutto» a «tutto è testo» (20), ha reso più arduo e non più semplice il dominio dei segni. Passare da una lettura impressionistica, che scivola sulle pagine dei libri, a una lettura guidata da una scheda problematica non è cosa che avvenga da sé. Ed ancora: oggi bisogna imparare a leggere grafici, statistiche, serie, bilanci, documenti di «cultura materiale», ecc. Nel laboratorio lo studente deve imparare a costruire questi grafìci e queste tabelle se non vuole essere tagliato fuori non solo dalla lettura di molte monografie ma anche da quella dei migliori manuali, senza dire del peso che questi strumenti hanno oramai nel quotidiano. Non sostengo affatto l'esclusività delle analisi quantitative. L'indagine qualitativa è insostituibile in molti casi. Dico solo che bisogna imparare a «quantificare» là dove è necessario.

Lo studente deve saper misurare la legittimità e plausibilità di un nesso causale, deve capire che la forza relativa di un modello sta nella quantità e nella coerenza delle variabili che mette in movimento, deve abituarsi al giuoco dei «giudizi controfattuali» per rendersi conto delle differenze di «peso» dei fattori in esame. Funzionali a tale scopo sono anche procedimenti più «selvaggi» come l'enumerazione, «quel procedimento primitivo e inadeguato che consiste nell'elencare come in un giuoco il maggior numero possibile di esempi senza nessuna prevenzione e senza disdegnare nemmeno i più sciocchi» (21). Non si tratta infatti di «programmare» tutto, di indulgere a «tecnicismi» esasperati, di credere all'efficacia di prontuari «regole/espedienti». In breve, la tecnica da sola non fa l'arte. Per questo lo studente va sollecitato a cimentarsi nel «teorizzare», a costruire «congetture».Non sarà «teoria» (22) ma servirà a non far confondere i fatti con i concetti e, se mi si permette il riferimento ad altri aspetti decisivi della «personalità» implicati nell'apprendimento, a dare fiducia alle proprie capacità di pensare, a rifiutare gli «automatismi» della riproduzione-ripetizione, a decidere ciò che, essendo plausibile ha diritto alla credibilità.

Per questa via lo studente può arrivare a comprendere che il fatto storico non è dato «ma creato dallo storico e, quante volte?, inventato e fabbricato per mezzo di ipotesi e congetture» (23), può arrivare a liberarsi dallo schema di spiegazione monocausale e a realizzare che un processo non è pensabile con la categoria di «soggetto». Con questo strumento diventa possibile fare delle «analisi secondarie» che utilizzino per una propria ipotesi risultati di ricerche svolte altrove o che pieghino a strategie originali materiali come  «repertori» di documenti e dati completi che dovrebbero rimpiazzare le antologie già confezionate.

Ma allora, manuale sì o manuale no?
Non faccio parte di quel 5 per cento di insegnanti (il dato è europeo) che hanno eliminato il manuale. Ho seguito la trafila del suo rinnovarsi, adottandone più d'uno nella stessa classe. Il manuale, così com'è, può dare solo una immagine della storia, ma non dice nulla del modo in cui si fa storiografia. Non sono tuttavia uguali le immagini di storia che i manuali danno, né la cultura storiografìca che presuppongono, né la lettura delle fonti che sollecitano. Essi possono accreditare una storiografia come narrazione, come visione pluriprospettica o come ricerca delle forze e delle idee che hanno mosso gli uomini nel tempo. Alcuni ritengono che sia possibile un manuale-laboratorio. Io ne dubito e per questo privilegio il libro non scolastico pur usando il manuale tra gli altri libri. La prospettiva è quella di un insegnante di storia che diventi «un programmatore di ricerche sociali, di un vero laboratorio di scienze sociali, che sappia inventarsi ogni anno i lavori e gli obiettivi» (24). In altri termini, «cogliamo le indicazioni dei nuovi manuali e risolviamo (con o anche senza di loro) i problemi nuovi che essi stessi ci pongono» (25). Mi appaiono perciò deboli le indicazioni  della rassegna Editoria e insegnamento della storia di Carpanetto e Ricuperati (26), deboli anche in riferimento ad alcune positive esigenze che gli autori esprimono. Vi troviamo un'utile fotografia dell'esistente più che una sollecitazione al rinnovamento. Non vi traspare minimamente la necessità di utilizzare il libro tout court, né si mette in guardia dalla presenza in queste collane scolastiche di opere di valore dei tutto diseguale. In defìnitiva, si resta subalterni a ciò che il mercato editoriale offre.

Se la questione del manuale non può essere posta in termini di ripudio o adozione, allora non può nemmeno porsi in termini di aut-aut l'alternativa di manuale o ricerca. Giova talvolta ricordare che di fronte ai paradossi di Zenone sul movimento, è bene alzarsi in piedi e mettersi a camminare. Vi sono già insegnanti cui il manuale non impedisce di tentare la ricerca. A scuola si può e si deve fare ricerca, pur dando per scontati inevitabili limiti di scientificità: «limiti», sì, «surrogati», no. Farò un rapido cenno a due esperienze. In un caso si trattava di studiare il sistema scolastico italiano dall'Unità a oggi e, in particolare, le vicende del liceo scientifico a partire dalla sua istituzione gentiliana. Provvisti del suffìciente bagaglio conoscitivo extrafonti, gli studenti frequentarono a lungo la cantina-archivio del primo liceo scientifico istituito a Bologna reperendo materiali, molti dei quali - fotografie, temi scolastici - non avevano un già definito statuto di documenti che invece avevano gli usuali materiali archivistici della scuola e la raccolta degli « Annali » della scuola fascista (ceduti poi all'Istituto Storico della Resistenza di Bologna). Nel secondo caso si voleva ripercorrere la storia delle lotte operaie a Bologna, dalle occupazioni di fabbrica nel '20 all'«autunno caldo». Gli studenti hanno consultato le fonti prefettizie nell'Archivio di Stato, hanno reperito giornali e infine, hanno utilizzato lo strumento dell'intervista, incontrando operai e operaie che avevano organizzato gli scioperi del '44 in alcune fabbriche di Bologna. A ricerca compiuta si doveva montare un audiovisivo e questo costrinse gli studenti a organizzare il materiale secondo i criteri e le ipotesi fissati durante il lavoro e a costruire una loro spiegazione-esposizione (27).

Si può certo dire che si trattò in entrambi i casi di un compromesso tra didattica dei libri e didattica della ricerca. Ma mi chiedo se non debba inevitabilmente essere così, quando non si vuole rinunciare a conoscenze indispensabili e quando per ricerca in senso «forte» si intenda un'effettiva esplorazione nell'universo delle fonti e non un dispersivo curiosare qua e là. Se si è d'accordo che un «centro di interesse» non è ancora un'ipotesi di lavoro, il reperimento di materiali non è ancora la loro organizzazione, e questa organizzazione non è ancora la costruzione di modelli esplicativi, bisogna riconoscere che di ricerca in senso «forte» se ne può fare una sola, magari proiettata su due anni. E questo è altrettanto vero se si vogliono praticare e mettere a profitto le tecniche dell'Oral History. La sua utilizzazione nella didattica viene oggi suggerita da più parti (28). Non può sfuggire la importanza e la suggestione di una storia costruita «dal basso», dove chi informa non separa fatti «personali» e fatti «generali», permettendo così un approccio non intimistico all'«individuale» e alla sua singolare stratigrafia. L' Oral History può dare qualcosa che i documenti scritti non danno con la stessa ampiezza e ricchezza: «la conoscenza non tanto dei fatti quanto del giudizio contemporaneo e successivo, (diacronico e sincronico) che i protagonisti proletari danno sui fatti» (29). Tuttavia non trovo che si tratti di una tecnica più immediata delle altre se si deve «spremere» da essa conoscenza storiografica.

Con queste cautele e questi obiettivi - si tratti di fonti scritte o orali - il problema è di mettervi gli studenti a contatto, realizzando una ricerca che non tema l'accusa di dilettantismo che in modo fin troppo facile può esserle mossa dal rigore altezzoso della «grande scienza». Ricordiamoci la spregiudicata saggezza di Burckhardt che nel celebrare «le prerogative eterne» della fonte (30) giungeva ad accettare il «dilettantismo» (31) di chi, non specialista, si cimenta nella sua lettura.

NOTE

20.  Cfr. M. de Certeau, L'operation historique, cit., p. 22. La specificità del gesto odierno in ordine allo stabilimento delle fonti è che vengono «costituiti in documenti, degli attrezzi, delle ricette di cucina, dei canti...., non si tratta solamente di far parlare questi <immensi settori dormienti della documentazione>....Si tratta di cambiare qualcosa che aveva il suo statuto e il suo ruolo, in un'altra cosa che funziona diversamente».
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21. R. Musil, L'uomo senza qualità, Torino, 1978, vol. II, pp. 1077-78.
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22. Cfr. F. De Bartolomeis, Sistema dei laboratori, Milano, 1978. Il testo di De Bartolomeis è un importante punto di riferimento; giustamente vi si parla di laboratori per tutte le discipline.
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23. L. Febvre, op. cit., p. 73.
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24. S. Guarracino, Nuovi manuali e immagine della storia in « Riforma della scuola », 1978, n. 5, p. 61. L'articolo andrebbe conosciuto per l'analisi corretta che vi si fa delle differenze tra i manuali, oltre che per la prospettiva indicata di costruire laboratori di storia. Prospettiva corretta secondo me per non dividere l'insegnamento in fasi propedeutiche e fasi di ricerca.
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25.  S. Guarracino, ibidem.
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26.  D. Carpanetto, G. Ricuperati, Editoria e insegnamento della storia, in « Italia contemporanea », 1977, (XXIV), n. 128. Degli stessi autori, più utile l'articolo Didattica della storia all'Università in «Riforma della scuola», 1977, n. 2, che si misura con le difficoltà del rapporto tra formazione e ricerca e dà alcune indicazioni in positivo per affrontarlo. Altrettanto rivolto a evitare le scorciatoie facili, ma dannose, il primo articolo di G. Ricuperati: Tra didattica e politica: appunti sull'insegnamento della storia in «Rivista di storia contemporanea», 1972, n. 4.
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27. Gli studenti si incaricarono anche di presentarlo in diverse sedi extrascolastiche. La realizzazione dell'audiovisivo fu possibile grazie alla collaborazione di un'eccezionale collega di Disegno e Storia dell'Arte, che già aveva costituito un suo laboratorio e alle condizioni di agibilità politica presenti nella scuola (con rispetto di orari, di scansioni disciplinari ecc.).
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28. Cfr. P. Thompson, Storia orale e storia della classe operaia in «Quaderni Storici», 1977, n. 35, pp. 403-432, vedi anche L. Passerini e L. Scaraffia, Didattica della storia e fonti orali in « Rivista di storia contemporanea », 1977, n. 4, pp. 602-610. Sulla non univoca vocazione della Oral History a essere « storia dal basso », cfr. L. Passerini, Conoscenza storica e storia orale in Storia orale. Vita quotidiana e cultura materiale delle classi subalterne, a cura di L. Passerini, Torino, 1978.
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29.  S. Portelli, Ricerca, intervento e storia di classe in « I giorni cantati », Bollettino di informazione e ricerca sulla cultura operaia e contadina, a cura del Circolo G. Bosio, 1977, n. 10. Di recente è uscito il libro I giorni cantati a cura del circolo G.. Bosio di Roma. Istituto Ernesto De Martino, Milano, 1978.
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30. J. Burckhardt, Meditazioni sulla storia universale, Firenze, 1959, n. 21.
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31.  ibidem, p. 23.
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