1. L’itinerario attraverso cui prende corpo il regime repubblicano negli anni 1943-1947


Nel quadriennio 1943-1947 in cui fu attiva l’alleanza dei partiti antifascisti, tre fasi salienti caratterizzano la lotta politica: la costituzione dei Comitati di liberazione nazionale, la fondazione della repubblica, l’approvazione della nuova carta costituzionale. La confluenza di azionisti, comunisti, democratico-cristiani, socialisti e liberali nei Cln assicura una guida tendenzialmente unitaria alla resistenza armata contro i tedeschi ed i fascisti della Repubblica sociale italiana e ne inserisce gli sviluppi nel tratto finale della campagna d’Italia e della seconda guerra mondiale.

Il Clnai (Cln Alta Italia) strappa, alla fine del 1944, la delega a rappresentare il governo centrale nell’Italia ancora occupata, promuove l’insurrezione dell’aprile 1945, assicura il passaggio dei poteri al momento della liberazione. Nel referendum istituzionale del giugno 1946 l’orientamento repubblicano della grande maggioranza dello schieramento antifascista che dà vita al governo nazionale riceve la sanzione del corpo elettorale; contemporaneamente viene eletta un’Assemblea costituente nella quale Dc, Psi e Pci detengono circa i quattro quinti dei seggi. Diciotto mesi più tardi, nel dicembre 1947, la Costituente vara la nuova carta costituzionale, che entrerà in vigore il 1° gennaio 1948.

A quest’ultima data, tuttavia, il quadro politico è profondamente mutato. La coalizione antifascista di governo si era definitivamente dissolta nel maggio del 1947. L’esclusione dal governo di comunisti e socialisti aveva portato alla formazione di un ministero di centro-destra, preludio ai governi centristi che, sempre sotto la guida del leader cattolico De Gasperi, reggeranno ininterrottamente il paese negli anni della prima legislatura repubblicana (1948-1953). A fare da ponte tra le due fasi è il trionfo elettorale democristiano del 18 aprile 1948, che assicura alla Dc la maggioranza assoluta in parlamento e sancisce così lo sbocco moderato della lunga e difficile transizione aperta dalla caduta del regime fascista.

Il declino della coalizione antifascista precede dunque l’approvazione della costituzione; e, del resto, anche il periodo precedente era stato accompagnato da crescenti tensioni all’interno dell’alleanza, tensioni fortemente influenzate dall’andamento delle relazioni internazionali (deterioramento dei rapporti tra le potenze occidentali e l’Unione Sovietica), ma anche dipendenti dalla diversa identità ideologica, politica e sociale dei partiti componenti la coalizione e dal fatto che tali diversità emergevano con maggiore nettezza quanto più lo schieramento antifascista veniva a contatto con i problemi del paese. Se si tien conto di ciò, Cln, repubblica, costituzione appaiono al tempo stesso come risultati di uno sforzo comune che riesce a prevalere sulle differenze, ma anche come mete raggiunte attraverso faticosi compromessi, occasioni di significativi contrasti, conquiste in varia misura parziali e precarie.

Gli anni 1943-1947 vanno perciò ripercorsi per meglio intendere la lezione complessa che essi racchiudono, per delineare le varie spinte che in essi operano, per sottolineare gli obiettivi realizzati (in primo luogo la repubblica) e per cogliere, al tempo stesso, gli elementi di contrasto che via via si accumulano. Se non si tiene conto di questa complessità, delle intese come delle tensioni, sfugge il valore periodizzante di quegli anni nella storia dell’Italia novecentesca, né si comprende appieno come gli avvenimenti di allora siano oggetto di una permanente disputa politica e storiografica, oggi rinfocolata da ciò che comunemente si definisce crisi della prima repubblica.

Nei Cln — s’è detto — i partiti antifascisti fecero convergere i loro sforzi, candidandosi a guidare l’uscita dal fascismo. Ma la politica di unità nazionale contro i tedeschi occupanti ed i collaborazionisti fascisti della Rsi ebbe confini più larghi, che andavano al di là dell’area antifascista. In essa l’antifascismo si saldava con lo stato monarchico sopravvissuto al Sud all’armistizio dell’8 settembre 1943. La pregiudiziale antimonarchica fondata sulla denuncia della collusione della Corona con il fascismo (uno dei leitmotiv della propaganda antifascista lungo tutto il corso del regime) venne congelata, e nell’aprile 1944 il maresciallo Badoglio poté far posto nel ministero ad esponenti dei partiti del Cln. L’operazione fu facilitata dalla disponibilità del Pci, dichiarata da Palmiro Togliatti al suo rientro in Italia dall’Unione Sovietica. Alla preoccupazione di mobilitare tutte le energie nella lotta contro il nazifascismo si accompagnò, nel disegno del leader comunista, la volontà di assecondare la politica estera sovietica che, dando per acquisito l’inserimento dell’Italia nella sfera di influenza angloamericana, ostentava moderazione per ottenere in cambio un analogo atteggiamento delle potenze occidentali nell’Europa orientale e balcanica, verso la quale si orientavano le mire espansionistiche dell’Urss.

L’ingresso dei partiti antifascisti nel governo facilita l’attività militare della Resistenza al Centro-Nord (anche attraverso un maggiore impegno degli angloamericani a sostenerla), ma semina una serie di asimmetrie politiche che si riverberano sugli equilibri interni allo schieramento antifascista. Se ne ebbe la prova dopo la liberazione di Roma nel giugno 1944. Vittorio Emanuele III abdicò e affidò la luogotenenza al figlio Umberto e il governo (da allora alla conclusione della guerra si succedettero due ministeri presieduti dall’anziano esponente socialdemocratico Bonomi) oscillò — nell’individuazione del proprio referente istituzionale — tra il luogotenente e il Cln, nonostante quest’ultimo avesse rivendicato per sé la qualifica di unica, legittima fonte di potere. Risale inoltre a questa fase l’accordo, che sarà poi disatteso, di affidare la scelta della forma istituzionale dello Stato all’Assemblea Costituente che sarebbe stata eletta all’atto della liberazione del paese.

Nelle regioni settentrionali, dove principalmente si sviluppava la resistenza armata, il compromesso Cln-monarchia suscitò riserve ed anche risentimenti. Benché non mancassero formazioni partigiane cosiddette autonome, spesso guidate da ufficiali dell’esercito fedeli alla Corona, la maggior parte delle unità faceva capo alle Brigate Garibaldi e a Giustizia e libertà, che operavano sotto l’egida, rispettivamente, del Partito comunista e di quello d’azione. Inoltre, l’unità antifascista realizzatasi nei Cln, se esercitava un ruolo sufficientemente propulsivo rispetto all’espandersi della guerriglia e, soprattutto, al suo accreditamento sul piano politico, rivelava limiti innegabili proprio sulla questione di fondo, ovvero sulle prospettive future degli stessi Comitati, sul quesito se essi dovessero continuare ad esercitare un ruolo, e quale, anche a liberazione avvenuta.

A cavallo del 1944-1945 i partiti antifascisti si misurano su questo dilemma e ne esce un quadro di posizioni largamente divergenti. Al Partito d’azione che indica senza esitare nei Cln lo strumento che dovrà guidare anche la successiva fase della transizione (e a questo ruolo dei Comitati affida la parola d’ordine della “rivoluzione democratica”), democristiani e liberali oppongono che i Cln hanno valore solo in quanto risposte contingenti ad una situazione eccezionale e che quindi dovranno cessare con il cessare dell’emergenza e cedere il passo a organi e dirigenti convalidati dalle scelte del corpo elettorale. Altrimenti, sostengono ancora Dc e Pli, i Comitati assumerebbero una funzione giacobina che rischia di riprodurre, con segno rovesciato, il potere tirannico contro il quale si combatte. Se la replica delle componenti moderate è dunque di netta intransigenza, l’atteggiamento di socialisti e comunisti, pur tra molti riconoscimenti ai Cln e al compito essenziale cui hanno assolto, porta anch’esso in direzioni lontane dalla proposta azionista. Il Psi guarda alla liberazione come ad un passaggio verso trasformazioni in senso socialista e ritiene quindi che organi quali i Cln, espressione di correnti politiche diverse e vincolati alla norma dell’unanimità, rappresenterebbero un freno più che una spinta. Il Pci all’opposto pone in primo piano il problema delle alleanze, ritiene che ogni sforzo debba essere fatto per proseguire la collaborazione con la Democrazia cristiana in quanto espressione delle masse cattoliche e vede quindi nei Cln solo degli strumenti transitori di mobilitazione.

La sorte dei Comitati di liberazione è dunque segnata ancor prima dell’insurrezione. Durante il governo presieduto da Ferruccio Parri (giugno-novembre 1945), il più rispondente, nella sua guida e nella sua composizione interna, al fronte antifascista che aveva guidato la Resistenza, i Cln continueranno a sussistere, ma solo come organi di indirizzo e di consultazione. Compressi dall’Amministrazione militare alleata e di fatto abbandonati dai maggiori partiti, perderanno rapidamente ogni reale funzione.

Con la formazione del primo ministero presieduto dal leader cattolico Alcide De Gasperi nel novembre 1945, la vicenda politica entra in una fase nuova, che si sviluppa ormai al di fuori dello schema ciellenistico e ruota intorno alla collaborazione tra democristiani, comunisti e socialisti. Il peso della Dc sale progressivamente anche sfruttando l’appoggio della chiesa cattolica all’interno (un appoggio tutto ispirato all’intransigenza anticomunista) e il sostegno degli angloamericani, che lo stesso De Gasperi del resto sollecita ripetutamente. Questi condizionamenti sono chiaramente percepibili attraverso il crescente irrigidimento delle forze moderate che guidano il processo di normalizzazione. Le decisioni (prese in sede di governo dopo logoranti trattative) di affidare la scelta istituzionale direttamente al corpo elettorale anziché, come era stato convenuto nel 1944, all’Assemblea costituente, e di sottrarre a quest’ultima i poteri di parlamento ordinario riflettono entrambe la volontà di compensare con l’influenza dell’opinione moderata prevalente nella capitale e al Sud, la mobilitazione di sinistra particolarmente viva nel resto del paese.

La ripresa delle forze conservatrici è in atto e il voto del 2 giugno 1946 lo riflette. La repubblica prevale, ma di stretta misura e soprattutto con un Mezzogiorno dichiaratamente monarchico. Nell’Assemblea costituente, socialisti e comunisti dispongono ciascuno di circa un quinto dei seggi, ma la contemporanea affermazione della Dc (quasi un terzo dei seggi) configura questo partito come perno di una futura maggioranza anticomunista. L’iniziativa delle sinistre nel governo è peraltro frenata dal timore che possa determinare una crisi nei rapporti con la Dc. Essa sconta, soprattutto da parte dei comunisti, una visione prospettica fortemente ancorata alla priorità degli accordi di vertice rispetto ad ogni altra sede di confronto. D’altro canto, l’istanza per interventi riformatori in campo economico e sociale, essenzialmente affidata alle pressioni che scaturiscono dai conflitti sindacali, deve scontare anche gravi insufficienze nella capacità di formulare concrete proposte.

Nell’arco di tempo che va dal voto del giugno 1946 al maggio 1947 (quando, come si è detto, comunisti e socialisti usciranno dal governo) la crisi della collaborazione tra i maggiori partiti della coalizione antifascista si consuma, ed il suo precipitare è legato sia a fattori interni che esterni. All’interno sale la voce di quanti reclamano la contrapposizione della Dc ai socialcomunisti. Si tratta di un fronte largo e composito, che si estende da influenti ambienti della gerarchia ecclesiastica al movimento protestatario dell’Uomo qualunque, dal ceto imprenditoriale settentrionale alla grande possidenza agraria del Mezzogiorno. Non minore influenza esercitano le relazioni internazionali, percorse da sempre più palesi segnali di frattura tra le potenze occidentali e l’Unione Sovietica e dal conseguente via via più stretto inserimento dell’Italia nell’area egemonizzata dagli Stati Uniti. D’altro canto, nella valutazione di De Gasperi, l’immediato allontanamento di comunisti e socialisti dal governo lascerebbe scoperto il fianco su questioni che rappresentano altrettante tappe essenziali della transizione: la firma del trattato di pace, l’avvio dei lavori della Costituente. Quando si aprirà la crisi definitiva la prima questione sarà risolta, non la seconda. Si rivelerà infatti decisivo il peso della congiuntura economica con la massiccia ripresa di un processo inflazionistico, che costringerà l’esecutivo a operare scelte sino ad allora rimandate. Infatti il quarto ministero De Gasperi, costituito nel giungo 1947, porrà in primo piano la lotta all’inflazione affidandola agli esponenti del più ortodosso liberismo, Luigi Einaudi in primo luogo, e gettando quindi un solido ponte verso gli interessi della grande industria.

Il radicale mutamento della maggioranza di governo non ha effetti dirompenti sui lavori dell’Assemblea Costituente, anche perché da sinistra si resta nonostante tutto legati alla prospettiva di una possibile ripresa di dialogo con la Dc (il nuovo governo è sostenuto da un’esigua e precaria maggioranza di centro-destra). Maturano così, negli ultimi mesi del 1947, due processi nettamente divergenti: da un lato si consolida lo schieramento moderato che configura il blocco di forze che trionferà alle elezioni del 18 aprile 1948 per la prima legislatura repubblicana; dall’altro giunge in porto la elaborazione della carta costituzionale attraverso un intreccio delle matrici cattolica e marxista che realizza significative convergenze, le quali tuttavia, riguardando principalmente le mete programmatiche contenute nella carta, si affidano per la realizzazione alle future maggioranze di governo.

Si può quindi affermare che il quadriennio 1943-1947, dentro al quale prende corpo il nuovo regime repubblicano, si conclude mettendo in rilievo due dati centrali. Da un lato la capacità della coalizione antifascista di guidare l’uscita dal fascismo realizzando un radicale ricambio della classe politica e ponendo le basi (repubblica-costituzione) del nuovo assetto; dall’altro, i limiti dell’alleanza, che rimandano sia ad elementi preesistenti (la varietà ed anche l’eterogeneità della coalizione antifascista) sia al nuovo scenario mondiale delineato dall’incipiente guerra fredda, che agisce da catalizzatore dei conflitti latenti nella società italiana e li alimenta di tutti i fattori — ideologici, culturali, di politica di potenza — insiti nella contrapposizione globale Est-Ovest.
 

Note

1 Per un profilo complessivo degli anni 1943-1948 si veda Paul Ginsborg, L’Italia dal dopoguerra ad oggi, 2 vol., Torino, Einaudi, 1989. Contributi a carattere monografico su singoli aspetti e temi in Enzo Piscitelli e al., L’Italia 1945-48. Le origini della repubblica, Torino, Giappichelli, 1974; Stuart Woolf e al., Italia 1943-1950. La ricostruzione, Bari, Laterza, 1974; Valerio Castronovo e al., L’Italia contemporanea 1945-1975, Torino, Einaudi, 1976; Marcello Flores e al., Gli anni della Costituente. Strategie dei governi e delle classi sociali, Milano, Feltrinelli, 1983. Sul ruolo dei principali partiti si veda Antonio Gambino, Storia del dopoguerra. Dalla liberazione al potere Dc, Bari, Laterza, 1975; sul 1945-1946 i testi raccolti in L’Italia dalla liberazione alla repubblica (Atti del Convegno internazionale, Firenze, 26-28 marzo 1976), collana Insmli, Milano, Feltrinelli, sd.
 

Torna al Sommario