2. Le diverse visioni della Resistenza e della nascita della repubblica nei primi anni cinquanta


Le prime riflessioni sugli sbocchi della transizione dal fascismo alla repubblica, sul passaggio dall’unità antifascista alla repubblica moderata, vengono dagli ambienti politici e culturali risultati soccombenti. Prima ancora che dei comunisti e dei socialisti la denuncia della “crisi della Resistenza” è opera degli azionisti, che avevano avuto una parte considerevole nella promozione della lotta armata, ma che con la crisi del governo Parri nell’autunno del 1945 erano di fatto usciti di scena (alle elezioni del 1946 otterranno un pugno di voti, il partito si scioglierà l’anno successivo e la maggior parte dei suoi esponenti confluirà nel Psi).

Il nucleo centrale della denuncia non rappresenta tuttavia solo il lascito testamentario di quelli che potevano essere considerati gli sconfitti per eccellenza; conterrà anche una serie di temi e interrogativi largamente ripresi dalla successiva storiografia. In questo senso il discorso avviato dagli azionisti dà vita ad una pagina di storia della cultura politica che oltrepassa la ristretta cerchia intellettuale su cui maggiormente l’influenza del Pda si esercitava. La spiegazione di quella che gli azionisti considerano come la mancata “rivoluzione democratica” sta dentro alla parabola dell’antifascismo, ne sottolinea lacune, incertezze, contraddizioni.

La “crisi della Resistenza” non è dunque un fenomeno successivo alla liberazione, ma un fattore già operante nel corso della lotta armata, interno alle scelte che furono allora compiute. In discussione viene messa soprattutto la sottovalutazione dei problemi connessi con la organizzazione e direzione dello Stato, tale per cui il largo movimento che dalla Resistenza aveva tratto impulso si era, in assenza di sbocchi reali, arenato. Non è difficile trovare, in questi spunti di analisi, elementi di raccordo con la teorizzazione circa il ruolo dei Cln presente nei documenti azionisti del 1944, quelli che, lo si è già detto, erano stati ricusati dall’antifascismo moderato perché in odore di giacobinismo o di fatto lasciati cadere dai partiti della sinistra storica (ma per motivi opposti: dai comunisti per non perdere i contatti con la Dc; dai socialisti per timore che fossero d’impaccio al perseguimento di obiettivi dichiaratamente socialisti).

Nello stesso periodo anche comunisti e socialisti riprendono — e la tradizione si prolungherà sin dentro gli anni settanta — prospettive di giudizio fortemente ancorate all’esperienza resistenziale, in modo più lineare e compatto i comunisti, in forma più eterogenea i socialisti, anche come riflesso delle tormentate vicende di questo partito nel dopoguerra. Accanto infatti ad una linea interpretativa complementare a quella comunista e sostanzialmente imperniata nell’addebitare alla prevalenza delle correnti conservatrici all’interno della Dc i limiti e le incognite del regime democratico instaurato con l’avvento della repubblica, si fanno strada anche voci minoritarie che pongono criticamente l’accento sul primato rivendicato dal Pci al partito rispetto al movimento come unilaterale privilegiamento delle alleanze di governo rispetto alla mobilitazione popolare.

E in effetti la priorità riconosciuta dal Pci alla politica delle alleanze spinge progressivamente, attraverso il trasferimento talora meccanico di tematiche proprie della lotta politica sul piano storiografico, ad individuare il punto di svolta del riflusso postbellico nell’aggregazione, intorno al partito cattolico, di interessi conservatori che avrebbero dapprima frenato e poi bloccato lo slancio innovatore scaturito dalla Resistenza. Lo stesso Togliatti ne fa oggetto di riflessione storica. Indirettamente, come quando rievoca nel 1950 la figura di Giovanni Giolitti presentandolo (in chiave di confronto non solo con il fascismo ma anche con il potere democristiano) come colui che "tra gli uomini politici della borghesia [...] si è spinto più innanzi, sia nella comprensione dei bisogni delle masse popolari, sia nel tentativo di dar vita a un ordine politico di democrazia, sia nella formulazione di un programma nel quale si scorse anche se in germe, la speranza di un rinnovamento." Direttamente, allorché (a breve distanza dalla morte del leader cattolico) dedica una lunga analisi all’opera di De Gasperi individuandone la valenza negativa soprattutto nell’aver essa favorito un duplice processo regressivo: “nel restituire il potere economico a una classe dirigente capitalistica chiusa, egoistica [...] e nell’attribuire alle autorità ecclesiastiche una nuova forma di potere politico”. Ma, aggiunge Togliatti subito, dopo: “Noi comunisti non ci ha arrestati”. Il Pci ha proseguito il suo cammino di insediamento nella società italiana, è diventato parte integrante della realtà nazionale e alla base del processo sta il ruolo di primo piano, di avanguardia, che il partito ha saputo conquistarsi nell’antifascismo e nella Resistenza. La collocazione acquisita attraverso la Resistenza diventa perciò la sanzione della funzione del Pci. Sanzione rivendicata come irreversibile. I passaggi nodali sono dunque evidenti: il primato comunista nella Resistenza, la restaurazione democristiana nel dopoguerra. I due momenti si rimandano e si illuminano a vicenda, ché non avrebbe potuto esservi restaurazione capitalistica se quel potere non fosse stato dapprima scosso dall’egemonia che, grazie al Pci, la classe operaia aveva realizzato sul movimento di Resistenza. Su quest’ultima affermazione torneremo più avanti poiché essa costituisce un referente tutt’altro che marginale del dibattito continuità/rottura che si svilupperà negli anni settanta.

A fronte di queste valutazioni, la letteratura di orientamento moderato prodotta a ridosso degli avvenimenti mostra più di un impaccio. Il rimando alla Resistenza è accompagnato da molti distinguo. La guerra di liberazione resta un passaggio obbligato nell’uscita dalla crisi provocata dal crollo del regime fascista, ma essa non è vista come un processo lineare e autosufficiente che dal 1943 porta alla repubblica. Si torna a sottolineare, ancor più di quanto già si fosse fatto nel corso degli eventi, la portata del tutto contingente dell’alleanza che aveva allora dato vita ai Cln; e si mette dunque in primo piano, per motivarla, il suo carattere di intesa legata ai grandi schieramenti che avevano combattuto la seconda guerra mondiale e non riproducibile al di fuori di essa.

Questo richiamo vale come conferma dell’asserzione che si era trattato di una guerra di liberazione, la cui spiccata finalità patriottica rendeva legittimo ricorrere alla definizione di “secondo Risorgimento”, espressione più del primo di un largo moto spontaneo e socialmente indifferenziato. Questa interpretazione sarà compiutamente messa a punto nel corso degli anni sessanta, ma molti dei suoi elementi costitutivi sono già presenti. Quando si tratta ad esempio di caratterizzare il contributo cattolico, l’accento è posto sul rifiuto, in esso implicito, delle forme estreme di lotta e dunque del suo valore di antidoto rispetto alla radicalizzazione perseguita dai comunisti. Si può dunque sottolineare che la visione della Resistenza e della nascita della repubblica dominante negli anni cinquanta è largamente adesiva ai termini della lotta politica quali si erano venuti cristallizzando dopo il 1947; essa vale anzitutto come conferma della coerenza interna alle scelte compiute da ciascun partito. Ciò non significa che siano assenti tematiche passibili di sviluppo storiografico, ma che la loro formulazione in modi troppo subordinati alla contrapposizione moderati/sinistra ne inceppa l’utilizzo in sede di ricerca (2).

Note

2.  Sulla ‘crisi della Resistenza’ si veda la rivista “Il Ponte”, novembre-dicembre 1947. Le citazioni contenute nel testo sono tratte da Palmiro Togliatti, Momenti della storia d’Italia, Roma, Editori Riuniti, 1963 (sulla politica del leader comunista è utile Giampiero Carocci, Togliatti e la Resistenza, “Nuovi argomenti”, febbraio 1962); Roberto Battaglia, Le idee della Resistenza, “Passato e presente”, dicembre 1959; Emilio Sereni, Appunti per una discussione sulla politica di fronte nazionale e popolare, “Critica marxista”, aprile 1965. Sulla posizione di parte della cultura politica socialista, si veda Lelio Basso, Il rapporto tra rivoluzione democratica e rivoluzione socialista nella Resistenza, “Critica marxista”, giugno 1965. Sulle elaborazioni di matrice cattolica si vedano Giuseppe Rossini, Il fascismo e la Resistenza, Roma, Cinque lune, 1955 e Sergio Cotta, Lineamenti di storia della Resistenza italiana nel periodo dell’occupazione, “Rassegna del Lazio”, ottobre 1964.


 

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