3. Il rinnovamento degli studi  negli anni sessanta e settanta


Il panorama muta negli anni sessanta. L’avvio della distensione Est/Ovest e soprattutto, all’interno, il passaggio da governi centristi a governi di centro-sinistra (imperniati su una Dc che prende le distanze dall’estrema destra e da un Partito socialista che ha ormai consumato il totale distacco dai comunisti) favoriscono l’accreditamento della repubblica “nata dalla Resistenza”. I rischi di cristallizzare la guerra di liberazione in una vulgata ufficiale si rendono subito evidenti (e daranno vita alla tradizione retorica della “Resistenza celebrata”), ma l’attenuarsi di alcune delle precedenti pregiudiziali consente un più articolato e ravvicinato confronto delle tesi interpretative.

Questa nuova stagione si mescola tuttavia, di là a poco, con i fermenti provenienti dai movimenti giovanili e operai della fine degli anni sessanta. Nelle culture che essi esprimono, la memoria della Resistenza costituisce un punto di riferimento obbligato, ma esso serve non a convalidare bensì a negare il presente. L’immagine è quella della “Resistenza tradita”, ovvero di un movimento la cui carica innovatrice sarebbe stata osteggiata non solo dagli interessi conservatori, ma anche da una sinistra pronta a sacrificare i propri obiettivi all’alleanza con i moderati. In questa prospettiva di giudizio, l’involuzione del dopoguerra viene addebitata in primo luogo alla scelta rinunciataria del Pci, pronto a sterilizzare e diplomatizzare ogni spinta potenzialmente rivoluzionaria. Attraverso un’abbondante letteratura, che spesso mescola e sovrappone pubblicistica politica e saggistica storiografica, il punto di svolta viene posto all’interno della linea del Pci, nel contrasto ritenuto insanabile tra la politica di unità nazionale e la prospettiva classista. Così impostato, il problema storico della Resistenza trovava la sua sintesi e rappresentazione nella contrapposizione tra la ‘spontaneità’ operaia e l’‘organizzazione’ del partito, la prima portatrice di istanze radicali, la seconda impegnata ad ingabbiarle nei disegni strategici di vertice.

Al di là dei suoi evidenti schematismi (che inducevano a incasellare ogni momento e aspetto in un modello esplicativo precostituito), la tesi aveva il merito di riaprire sotto un diverso profilo questioni sino ad allora poco approfondite. La correlazione spontaneità/organizzazione rilanciava il non facile discorso sul rapporto tra la grande maggioranza di coloro che erano stati spinti alla Resistenza dalla crisi del 1943 ed i quadri dell’antifascismo del ventennio, e induceva anche a rileggere con occhio ben altrimenti critico episodi quali le agitazioni operaie del marzo-aprile 1943, da sempre rivendicate dalla tradizione comunista come opera diretta dei quadri del partito. Tuttavia, nella maggior parte dei casi l’esasperata polarizzazione spontaneità/organizzazione si limitava a fare da presupposto al rovesciamento della precedente versione, trasferendo il primato dal partito alla classe. La classe operaia diventava così depositaria dell’autentico spirito resistenziale, le sue inziative coincidevano con i momenti alti del movimento, dettavano il paradigma su cui misurarne gli esiti. Di qui la critica alla linea togliattiana, giudicata compromissoria e preventivamente rinunciataria, volta a disciplinare, se non proprio a sterilizzare, la carica potenziale insita nelle lotte operaie. La versione comunista ufficiale concordava sull’affermazione — come ebbe a scrivere tra gli altri Battaglia — che la Resistenza fosse stata “diretta dalla classe operaia” e considerava, sono parole di Sereni, il successivo “sacrificio degli obiettivi socialisti” una inevitabile battuta d’arresto causata da “quell’implacabile nume dinanzi al quale si celebrano tutti i grandi sacrifici della storia: i numi e l’altare dei rapporti di forze”; la “nuova sinistra” ipotizzava all’opposto una divaricazione originaria, genetica, di scopi tra la “spontaneità” operaia e la logica mediatoria in cui era rimasto impigliato il gruppo dirigente del partito.

Va tuttavia osservato che la contrapposizione tra queste due interpretazioni presupponeva una comune premessa, ossia che nel 1943-1945 fossero state scosse le basi del sistema capitalistico; entrambe leggevano infatti il dopoguerra come luogo della “restaurazione capitalistica”, scaturita per gli uni da sfavorevoli rapporti di forza, per gli altri dall’acquiescenza del Pci alle componenti moderate dello schieramento antifascista.

Riconsiderando oggi, a distanza, quella disputa, il suo convergere sull’individuazione di una fase di “restaurazione capitalistica” appare ben più significativo che non la contrapposizione classe/partito. Porre il potere economico sotto la lente di ingrandimento, e ripercorrere la transizione dal fascismo alla repubblica come caratterizzata da un indebolimento di quel potere, significa guardare al 1943-1945 da un osservatorio in grado di rivelare alcune tendenze di fondo dell’Italia del Novecento. Se a questo si aggiunge che, nello stesso torno di tempo, riprendeva vigore — anche sulla scia della biografia di Mussolini intrapresa da Renzo De Felice alla metà degli anni sessanta — il confronto sulle interpretazioni del fascismo, si può facilmente capire come venisse definendosi un’ampia area di dibattito, strutturata sugli incroci tra i rivolgimenti politici (dall’Italia liberale a quella fascista, a quella repubblicana) da un lato, le persistenze ravvisabili a livello di aggregazioni economiche, gerarchie sociali, apparati pubblici dall’altro. Contemporaneamente il primo ventennio repubblicano acquistava straordinario spessore grazie alle profonde trasformazioni in atto (avvento di una società industriale per vie che sembravano tuttavia inglobare e riproporre antichi squilibri e dualismi) e queste riverberavano i loro effetti anche sulla cultura storica inducendola a reinterrogarsi sul senso complessivo della vicenda postunitaria. Sullo sfondo di questa più ampia prospettiva, la transizione dal fascismo alla repubblica appariva come un caso di studio esemplare, un terreno più di altri significativo per riflettere sul nesso continuità/rottura come l’ottica che consentisse di meglio cogliere i fenomeni che si erano allora manifestati.

La trattazione più organica di queste tematiche veniva da Guido Quazza, che significativamente ne sottolineava la portata postulando una più stretta correlazione tra “Resistenza e storia d’Italia”. La visione di un processo nettamente scandito in due tempi (l’apertura rivoluzionaria incarnata dalla Resistenza seguita dal ripiegamento del dopoguerra) cedeva il passo ad un’analisi più attenta alla specificità di ciascun soggetto e situazione. Le varie articolazioni del movimento di resistenza acquistavano una ben più corposa concretezza (le lotte operaie, ma anche il mondo contadino come contesto in cui era principalmente maturato il rapporto guerriglia/società; l’iniziativa politica e militare dei partiti, ma anche la banda partigiana come entità largamente autonoma, che aveva affrontato la prova facendo leva anzitutto sulle proprie risorse e rispetto alla quale la rete dei Cln e dei nuclei di partito costituiva spesso una realtà lontana) e trasmettevano al dopoguerra un’eredità non necessariamente coincidente con le dinamiche interne al nascente sistema dei partiti. Emergeva così con maggior nettezza il carattere di insorgenza dal basso della guerra partigiana, l’incidenza di quello che Quazza definiva “antifascismo esistenziale”, la presenza di fermenti di esplicita contestazione dell’assetto sociale riplasmato dal fascismo. Altra cosa evidentemente dall’ipotesi di un aperto stato di crisi del potere capitalistico, che peraltro non aveva certo attraversato inerte il biennio 1943-1945, ma intessuto, spesso contemporaneamente, una fitta rete di scambi tanto con l’occupante tedesco che con gli angloamericani e il movimento antifascista.

Il discorso a proposito di continuità/rottura si trasferiva così sull’impatto che la Resistenza aveva avuto sugli altri protagonisti del periodo ed in questo senso la ricostruzione dell’immediato dopoguerra si concentrava sul rapporto tra il radicale ricambio della classe politica che la Resistenza e la nascita della repubblica avevano provocato al Centro-Nord ed i fattori di continuità crescenti ed operanti tanto sul versante istituzionale che sociale. Questioni quali quella della mancata epurazione esprimevano bene la capacità di autodifesa, di autoconservazione, di larghi settori della burocrazia e dei corpi dello Stato che con il regime fascista avevano intimamente collaborato, ma mettevano anche in evidenza la diffusa convinzione, da parte dell’antifascismo, che i rivolgimenti politici avrebbero di per sé, fisiologicamente, generalizzato il mutamento. Il rapporto politica-amministrazione era così restato nel limbo di generiche affermazioni di principio, come avrebbero confermato anche le elaborazioni dell’Assemblea costituente in materia di strutturazione dello Stato.

Da analoga angolatura si può guardare al versante sociale. Dato per scontato che l’instaurazione di un regime di democrazia politica comportasse di per sé l’adozione di un sistema di relazioni sociali antitetico all’esperienza fascista, la possibilità di attuare degli interventi riformatori sul corpo della società e dell’economia italiane era certo condizionato dalla non omogeneità degli interessi presenti nella coalizione antifascista, ma dipendeva anche dalla capacità degli stessi antifascisti di lucidamente percepire le dinamiche in atto nella società italiana e di intendere quale traccia l’opera di governo del fascismo avesse impresso su di esse. La convinzione, allora molto radicata, che il fascismo fosse equivalso ad una prolungata fase di stagnazione economica oltre che di immobilismo sociale, non favoriva certo quella percezione.

Alla compresenza di orientamenti sociali divergenti e all’approssimativa conoscenza della realtà sociale, si aggiungeva poi il fatto che i modi di esercizio del potere (pressoché interamente concentrato nelle mani dell’esecutivo sino alle elezioni del 1948 per la prima legislatura repubblicana), tuttora ancorati a quella regola dell’unanimità che già aveva avuto corso nei Cln, valorizzavano, su questo terreno ancor più che su quello politico-istituzionale, la facoltà delle componenti moderate di intercettare e bloccare provvedimenti che riuscissero sgraditi agli interessi da esse rappresentati. È in questo contesto che intorno alla Dc vengono progressivamente aggregandosi consistenti interessi conservatori (primi fra tutti quelli di larghe fasce di borghesia industriale che guardano al partito cattolico in alternativa ad un partito liberale troppo gracile e troppo meridionalizzato). Il procedere di tale aggregazione non è tuttavia un presupposto, ma un esito della lotta politica quale si sviluppa nel biennio 1945-1947.

Appare perciò poco produttivo riecheggiare l’accusa di “tradimento” che fu allora rivolta da sinistra alla Democrazia cristiana; e più rilevante, all’opposto, valutare come il nascente regime partitico si rapportasse, nel suo insieme, al paese. In effetti l’esercizio del potere ricalcò lo schema di un giacobinismo dall’alto che però solo apparentemente riprendeva la formula proposta dal Partito d’azione nel 1944. Prolungare la vita dei Cln oltre la liberazione avrebbe allora significato introdurre una cesura netta rispetto al precedente ordinamento. La necessità di mediazioni e compromessi non sarebbe venuta meno, ma sarebbe stata tutta interna allo schieramento antifascista. La logica della normalizzazione alla quale i maggiori partiti, sia pure per ragioni diverse, si acconciarono, creò invece una situazione di stallo, spezzatasi a favore delle forze conservatrici nel momento in cui il contemporaneo acutizzarsi dei conflitti interni e delle tensioni internazionali rese impossibile la prosecuzione della collaborazione di governo tra i cattolici da una parte, i comunisti e i socialisti dall’altra (3).
 

Note

3.  Sul nesso spontaneità/organizzazione, utile la ricostruzione contenuta in Gianfranco Bertolo e al., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Milano, Feltrinelli, 1974 (in cui si veda anche la prefazione di Guido Quazza, che fa il punto sulla discussione tra gli studiosi ed i resistenti operanti nell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia). Sulle scelte economiche della ricostruzione si rimanda a Camillo Daneo, La politica economica della ricostruzione 1945-1949, Torino, Einaudi, 1975. Relativamente alla disputa continuità/rottura la trattazione più approfondita è quella di Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia, Milano, Feltrinelli, 1976 (in precedenza Quazza aveva pubblicato, fra l’altro, La Resistenza italiana. Appunti e documenti, Torino, Giappichelli, 1966, e successivamente delineerà le premesse di una nuova storia generale della Resistenza, dopo il primo e tuttora unico tentativo operato da Roberto Battaglia (Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1953), con La guerra partigiana: proposte di ricerca, in Francesca Ferratini Tosi, Gaetano Grassi, Massimo Legnani (a cura di), L’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, Milano, Angeli, 1988. A proposito della “restaurazione capitalistica” si veda Massimo Legnani, Restaurazione padronale e lotta politica in Italia 1945-1948, “Rivista di storia contemporanea”, gennaio 1974. Sul peso della continuità burocratica e degli apparati statali (su cui aveva già richiamato l’attenzione Federico Chabod, L’Italia contemporanea 1918-1948, Torino, Einaudi, 1961) si veda Claudio Pavone, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in E. Piscitelli e al., Italia 1945-48. Le origini della repubblica, cit.
 

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