4.  la storiografia sulla Resistenza negli anni ottanta


All’inizio degli anni ottanta assistiamo ad un nuovo mutamento di scenario. Il confronto sull’asse continuità/rottura si esaurisce senza avere forse espresso tutte le sue potenzialità. Parallelamente la storiografia della Resistenza si inoltra in un’analisi sempre più interna del movimento, ponendo in primo piano le culture individuali e collettive dei resistenti, dei partigiani combattenti avanti tutto.

Il saggio di Claudio Pavone sulla “moralità nella Resistenza” esprime in modo esemplare questa stagione di studi (e reintroduce inoltre quella categoria di guerra civile che la cultura antifascista aveva a lungo ignorata: su un aspetto dell’ampio dibattito che ne è sorto faremo cenno più avanti), ma conferma anche la scarsa attenzione al tema degli esiti della guerra di liberazione, che pure aveva rappresentato sino ad allora un tratto distintivo della letteratura resistenziale nelle sue diverse espressioni. Verso la fine degli anni ottanta, dopo i primi profili risalenti al decennio precedente, l’Italia repubblicana si insedia stabilmente tra gli studi di storia generale: la fase costituente della repubblica resta un passaggio di grande rilievo, ma appare ora solo un segmento di un percorso ben altrimenti complesso, che si alimenta di apporti e temi ormai svincolati dal problema delle “origini”. Le quali ultime, semmai, tornano ad essere terreno di confronto (e soprattutto di contrapposizione) nei primi anni novanta, come riflesso del dibattito politico che accompagna la crisi della ‘prima repubblica’.

Ancora una volta quindi — occorre sottolinearlo — gli avvenimenti del 1943-1948 si ripropongono e vengono rivissuti, forse ancor più che in passato, secondo uno stretto intreccio/sovrapposizione tra impulsi politico-pratici ed elaborazioni storiografiche.
Sono i primi a dettare tempi e modi della ripresa della discussione e questo spiega il radicale rovesciamento delle prospettive interpretative rispetto ai decenni precedenti. Allora il confronto aveva posto al centro i caratteri della guerra partigiana, la coesione e la tenuta della coalizione antifascista, la sua capacità di realizzare un regime di compiuta democrazia politica e sociale che nella instaurazione della repubblica trovasse la necessaria premessa. Si trattava quindi di analizzare e verificare quale impatto la guerra di liberazione avesse avuto sull’assetto postfascista. Ora la critica dei più è rivolta a contestare non la portata, ma la legittimità dei rivolgimenti simboleggiati dall’avvento della repubblica, postulando uno strumentale rapporto di filiazione della crisi del sistema politico esplosa all’inizio degli anni novanta dallo sbocco della transizione degli anni quaranta.

Tre sono i punti focali della contestazione: l’inquinamento che alla coalizione antifascista deriva dalla presenza del Partito comunista che, essendo antifascista ma non democratico, impedisce l’equazione antifascismo/democrazia; l’insufficiente rappresentatività del movimento di resistenza, largamente minoritario non tanto rispetto all’avversario fascista quanto verso l’insieme della società italiana; il carattere strumentale del patto ciellenistico, che ambisce a risolvere la crisi del 1943 in una prospettiva di puro potere, garantendo posizioni di privilegio ai partiti che lo hanno contratto. Si tratta, come si vede, di valutazioni tra loro collegate, tese a negare alla radice la legittimità repubblicana, trasformandola da autoriconoscimento di tutte le forze che, pur con motivazioni differenziate, avevano combattuto il fascismo, in una sorta di moto sopraffattorio, unicamente animato dalla volontà di monopolizzare la successione alla dittatura.
 

Quest’ultima affermazione è agevolmente riferibile al contesto in cui attualmente si sviluppa la lotta politica in Italia. Di fronte alla crisi dei partiti che hanno attraversato da protagonisti mezzo secolo di storia repubblicana, le forze di destra giunte al potere percorrono la stessa strada che attribuiscono a colpa dell’antifascismo degli anni quaranta: facendo giustizia sommaria del passato repubblicano ed ergendosi a rappresentanti autentiche della volontà generale. Il fatto che non pochi intellettuali si propongano ad interpreti di questa nuova vulgata delle origini della repubblica non modifica, né certo arricchisce, gli imperativi politico-pratici sui quali queste posizioni si modellano. Sarebbe peraltro errato confinarle nella polemica contingente. In realtà esse si presentano come sbocco di una rielaborazione revisionistica che è andata acquistando spessore e spazio crescenti nell’ultimo ventennio e che ha il suo centro di gravità nella normalizzazione del giudizio sul fascismo di cui si è fatto principale interprete De Felice. La negazione di ogni sostanziale affinità con il nazismo tedesco, la celebrazione degli aspetti modernizzanti della dittatura mussoliniana, l’estromissione dell’antifascismo dalla storia italiana tra le due guerre sono alcuni degli assunti che dovrebbero portare ad una visione pacificata dell’esperienza fascista, ad un suo pieno reinserimento nella vicenda nazionale. Il crollo del fascismo determinato dalla disastrosa partecipazione alla seconda guerra mondiale (vista, è la tesi di De Felice, come un fattore esterno, quasi che l’imperialismo fascista non si fosse attivamente adoperato a provocarla e non si riconoscesse interamente in essa) ha lasciato un vuoto che l’antifascismo ha messo a profitto senza averne titolo alcuno, lucrando sull’insperata prospettiva che la crisi del 1943 gli aveva dischiuso.

L’evento che allora si realizzò non consistette dunque nella guerra partigiana, ma nella condizione di estraneità in cui la maggior parte degli italiani si pose di fronte allo scontro tra fascisti e antifascisti, componenti entrambe minoritarie. Così la categoria della guerra civile, riproposta da Pavone per sottolineare la radicalità dello scontro e l’incidenza che su di esso esercitava, al di là della lotta ai tedeschi occupanti, un ventennio di dominazione fascista, si trasforma in una formula deprecatoria, unicamente volta a designare il conflitto tra due estremismi. Un conflitto, in ogni caso, che nell’ottica ora evocata appare solo come un epifenomeno della crisi fascista e che consente di prevedere che la discussione — se riuscirà a svincolarsi da condizionamenti troppo subalterni alla congiuntura politica — troverà il proprio baricentro sulla natura e l’eredità dell’esperienza fascista (4).

Note

4. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991. Sulle posizioni di Renzo De Felice, oltre alla biografia di Mussolini in più volumi (il primo risale al 1965, l’ultimo pubblicato, e relativo agli anni 1940-1943, al 1990, sempre presso l’editore Einaudi), si veda particolarmente Intervista sul fascismo, Bari, Laterza, 1975. Per le critiche rivolte a De Felice, si vedano Nicola Tranfaglia e al., Fascismo e capitalismo, Milano, Feltrinelli, 1976 e Guido Quazza e al., Storiografia e fascismo, Milano, Angeli, 1985. Per le storie generali dell’Italia repubblicana, oltre al volume di Ginsborg segnalato alla nota 1, si vedano Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 1992 e il primo volume della Storia dell’Italia repubblicana, diretta da Francesco Barbagallo, Torino, Einaudi, 1994. Tra le sintesi operate in precedenza ricordiamo soprattutto quella di Giampiero Carocci, Storia d’Italia dall’unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1975 e quelle di Ernesto Ragionieri e Carlo Pinzani sulla storia politica e sociale dell’unità nella Storia d’Italia, Torino, Einaudi, 1976, vol. IV, t. 3.
 
 

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