La Resistenza dalla cronaca alla storia.

 In Italia negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale il cinema raccontò, attraverso documentari e film di fiction, l’esperienza appena conclusa della Resistenza al nazifascismo, fornendo, allora, una propria lettura dell'evento e contribuendo, nel tempo a riversare sulla collettività la memoria storica di una fase così importante e controversa del passato italiano più recente. La lotta di Liberazione era ancora in corso o era da poco terminata quando i cineasti, del tutto immersi nelle vicende del presente, la usarono come fonte di ispirazione, realizzando nel periodo 1945-1949 13 film di finzione e fungendo - come ha scritto Pierre Sorlin - da "primi cronisti dell'Italia in guerra"[1].

   Il fatto che quelle opere girate a caldo abbiano essenzialmente la struttura di film-cronaca e raccontino la realtà nel suo svolgimento diretto, determinerebbe, secondo alcuni studiosi, un'assenza di prospettiva storica. È quanto ha sostenuto in particolare il critico Aldo Viganò, che ha escluso dalla sua antologia di pellicole storiche tutti i film del neorealismo italiano e dunque quelli sulla Resistenza girati tra il 1945-1949 - fatta eccezione per Paisà (1946) di Roberto Rossellini -, perché - a suo avviso - troppo ripiegati sull'urgenza della cronaca e privi di "quell'atteggiamento narrativo, sistematorio e oggettivante, che concorre a definire qualsiasi esempio di cinema storico": 

"In queste [quelle] opere - scrive Aldo Viganò - c'è soprattutto il pathos di chi vuole cambiare il presente, guardando al passato prossimo; c'è una posizione della macchina da presa sempre troppo vicina agli avvenimenti, per poterli anche oggettivare; c'è la descrizione di un quotidiano che scorre inesorabile anche quando il tono si fa eccezionalmente epico, come nel caso della morte della Magnani o della fucilazione di Fabrizi in "Roma città aperta" [2]

La scelta di Viganò di non considerare storici quei film è alquanto discutibile. Le pellicole sulla Resistenza realizzate nel dopoguerra - che più che mai mescolavano documento e finzione, vicende "vere" e vicende "ricostruite" - rappresentano un caso tipico di "storia immediata" e cioè - come scrive Jean Lacouture - un tipo di storiografia fondata sulla "prossimità temporale delle opere al soggetto trattato, e la vicinanza materiale dell'autore ai fatti che esamina"[3]. Attraverso quei film, i registi italiani dell'epoca hanno contribuito a loro modo alla stesura del "grande testo che la società scrive sul suo passato prossimo o remoto" - come sostiene Gianfranco Gori - e hanno influenzato la mentalità e l'immaginario del pubblico al quale si rivolgevano[4]. Ciò è avvenuto, ad esempio, con Roberto Rossellini il quale, con Roma città aperta (1945), riuscì a dare una dimensione storica anche a ciò che si stava svolgendo sotto i suoi occhi, nel presente stesso. A conferire ulteriore storicità ai film resistenziali del dopoguerra c’è, inoltre, quella "descrizione del quotidiano" che sempre si intreccia alla descrizione dell’evento storico. La studiosa e autrice cinematografica ungherese Yvette Biro, nel 1962, in occasione di un convegno a Roma sul film storico italiano, aveva indicato, infatti, la storicità del cinema nella sua capacità di intrecciare i drammi individuali all'evoluzione dell'umanità, rappresentando le grandi svolte storiche attraverso le azioni quotidiane della gente semplice: la storicità - ebbe a dire Biro- "non consiste obbligatoriamente nell'evocare i tempi passati, nell'esprimersi 'al passato', ma piuttosto nell'esprimere questo nuovo rapporto tra universo e individuo"[5]. E Yvette Biro aveva chiamato "storici"- contrapponendoli agli spettacolari colossi a soggetto biblico come La regina di Saba o Ben Hur - proprio i due film di Roberto Rossellini sulla Resistenza, Roma città aperta e Paisà che, riallacciandosi alla tradizione del grande romanzo storico, ponevano al centro dell'azione eroi umili: 

"Paisà e Roma città aperta per contemporanei che siano, sono allo stesso tempo profondamente storici, perché analizzano l'influenza reciproca della storia sull'uomo e viceversa e presentano non solo degli uomini insignificanti e innocenti sballottati dagli uragani della storia, ma anche il modo in cui questa stessa gente semplice, un prete, una ragazza intervengono - plasmando la propria vita - nel corso della storia"[6]

 I film resistenziali sono profondamente storici - nel senso indicato da Yvette Biro - proprio per la loro capacità di raccontare la lotta partigiana attraverso i destini delle persone semplici. Ciò è valido non solo per le pellicole di Rossellini in cui l'intreccio tra la Storia e le vicende individuali è più evidente, ma anche per le altre opere realizzate in quel periodo. Come ha sostenuto Pietro Pintus, d’altronde, in tutto il cinema italiano del dopoguerra c’è una "presenza storica" intrinseca, in molti casi inconsapevole: "l'immagine, da sola, - scrive il critico - nella sua fulmineità di rappresentazione del reale, è carica di passato, intrisa quindi di storia"[7].

La rilevanza storica dei film sulla Resistenza aumenta con il passare del tempo. Una distanza di più di cinquant'anni rende automaticamente preziose quelle pellicole, trasformandole in documenti e consentendo allo spettatore di effettuare ciò che Guido Fink, con un'efficace espressione, ha definito "un duplice viaggio nel passato"[8]. Visti oggi, i film offrono la possibilità di avvicinarsi a due epoche differenti: da un lato c'è il periodo dichiarato, il passato messo in scena e riprodotto più o meno minuziosamente dal cinema; dall'altro, ci sono i riferimenti temporali al momento in cui l'opera è stata realizzata, riferimenti impliciti, non voluti dagli autori, ma comunque riconoscibili nei volti degli attori, nelle acconciature, nei modi di muoversi, nelle tecniche di ripresa e di montaggio. E così Roma città aperta e Paisà, a ogni nuova visione, ci trasportano - come ha scritto sempre Guido Fink - "anzitutto al mondo rosselliniano degli anni 1945-47; e di qui, con un passaggio ulteriore e non immediato, verso il 'contenuto' di quei film"[9]. Il "contenuto" di cui parla Guido Fink, cioè la rappresentazione della guerra e della lotta partigiana, risulta, tuttavia, inevitabilmente falsato da quelli che oggi, alla luce delle conoscenze e delle interpretazioni storiografiche acquisite, appaiono eccessi e luoghi comuni - primo fra tutti l'idea della Resistenza come movimento di massa - ma che non sono altro che il riflesso dell'ambiente, delle ideologie, dei valori e della mentalità dell'Italia postbellica[10]. Anche i due film di Rossellini Roma città aperta e Paisà che più di altri seppero rievocare con immediatezza ed emozione l'esperienza della Resistenza, non si sottraggono ai condizionamenti della società e del contesto storico-politico dell'epoca, proponendo in alcuni casi una versione della lotta eccessivamente semplicistica[11]. C'è poi, ovviamente, a determinare La raffigurazione della guerra di Liberazione sul grande schermo è poi anche il risultato, ovviamente, del punto di vista e dell'intenzione ideologica degli autori. L’assunto secondo il quale nessuno storico è mai puro trascrittore, ma sovrappone sempre la propria interpretazione ai fatti narrati, è più che mai valido per quei cineasti - primo fra tutti Rossellini - che nel dopoguerra raccontarono la Resistenza[12]. Non si può essere pertanto d'accordo con Paolo Meldini quando sostiene che "né Roma città apertaPaisà propongono un'interpretazione della Resistenza", ma sono semplice "testimonianza"[13].

Sono dunque svariati gli elementi che hanno contribuito a dare una certa immagine della lotta. Siegfried Kracauer lo diceva già nel 1947: "il film non è mai prodotto da un individuo", ma è un'opera collettiva e socialmente influenzata, in cui passato e presente si rincorrono continuamente e in cui si nascondono le tendenze, i modi di pensare, l'immaginario di una società[14]. Si può estendere al film quanto Jacques Le Goff ha scritto per il documento storico in generale, evidenziandone il legame con la società che lo ha prodotto: 

"Il documento non è neutro, non deriva solo dalla scelta dello storico, egli stesso parzialmente condizionato dalla sua epoca e dal suo ambiente; è prodotto consciamente o inconsciamente dalle società del passato per imporre un'immagine di questo passato non meno che per dire la "verità"[15]

I film analizzati mostrano più che la lotta di Liberazione in sé, l'interpretazione che di quella esperienza appena conclusa dava il mondo del dopoguerra. "I film - ha sostenuto Pierre Sorlin - non [vanno] considerati come semplici finestre sull'universo; essi costituiscono uno degli strumenti di cui una società dispone per mettersi in scena e mostrarsi" e, proprio in quanto tali, sono importanti documenti del loro tempo e fonti per lo storico per scoprire e analizzare il modo in cui in un certo periodo ne veniva socialmente pensato un altro[16]. Marc Ferro e Pierre Sorlin hanno compreso come il cinema sia per sua natura "messa in scena" e come, pertanto, vada studiato e interpretato dallo storico a partire delle sue specifiche strutture narrative e dalla sua autonoma valenza linguistica. Solo in tal modo il film di finzione può essere accettato come fonte per la storia del periodo in cui fu girato - fonte "diretta" in quanto testimone di paesaggi e comportamenti, fonte "indiretta" poiché riflesso delle mentalità correnti e dell'immaginario collettivo - e come efficace scrittura storica, cioè come mezzo per rappresentare la storia, che può essere anche valido ausilio per la divulgazione e l'insegnamento. Lo studioso si avvicina ai film narrativi, dunque, confrontandosi - come scrive Giovanni De Luna - da un lato, "con il presente che li ha prodotti", dall'altro, "con il passato che essi intendono raccontare e riprodurre"[17]. Solo considerando il documento cinematografico in tutta la sua complessità - tenendo conto, cioè, della sua irriducibile ambivalenza tra reale e fantastico, del legame con la sua epoca, dell'ottica particolare degli autori e dell'involucro ideologico che lo avvolge - "lo sposalizio tra cinema e storia" - come lo ha definito Piero Melograni - pare possibile e oggi più che mai realizzabile proprio percorrendo quelle due "linee" tracciate trent'anni fa da Marc Ferro: lettura storica del film e lettura cinematografica della storia[18].

 

[1]Cfr. P. SORLIN, La storia nei film. Interpretazioni del passato, Firenze 1984, p. 168.

[2]A. VIGANÒ Storico in cento film, Genova 1997., p. 237. Aldo Viganò considera Paisà "storico" perché in grado - a suo avviso - di offrire quella prospettiva sistematizzatrice sul passato pur recente che mancherebbe agli altri film neorealisti.

[3]Cfr. J. LACOUTURE, La storia immediata, in J. LE GOFF (a cura di), La nuova storia, Milano 1980., p. 210. A proposito dell'incontro tra "realtà" e "finzione" in Paisà, Roberto Rossellini nel 1963 scriveva: "le storie, anche se solo abbozzate, non erano del tutto inventate, non erano neppure del tutto reali: erano probabili". Cfr. Da “Roma città aperta” a “India”, in R. ROSSELLINI, Il mio metodo. Scritti e interviste, Venezia, 1987, p. 196.

[4]Cfr. G. GORI, Dalla guerra alla Resistenza, in «Nuova Secondaria», n. 7, 1998, p. 74. Sul ruolo che la cinematografia - non solo della Resistenza - ebbe nella definizione dell'immaginario collettivo del dopoguerra, v. R. ESCOBAR, L'Italia fondata al cinema, in «Il sole 24 ore», 23 agosto 1998.

[5]Cfr. Y. BIRO, Le film historique et ses aspects modernes, in «Bianco e Nero», n. 1-2, gennaio-febbraio 1963, pp. 79-82; trad. it. Il film storico e i suoi aspetti moderni, in G. GORI (a cura di), La storia al cinema. Ricostruzione del passato/interpretazione del presente, Roma 1994, p. 22.

[6]Ivi, p. 23. L'idea di Yvette Biro del film storico basato sul racconto delle persone "normali" e delle vicende quotidiane è ripresa da Alfredo Baldi, il quale, nel 1984, scrivendo sui rapporti tra cinema e storia, sottolinea l'importanza di indagare sul "piccolo", sull'insignificante e di non concentrarsi solo sugli eventi spettacolari: "E' falsa infatti – afferma Baldi - quella storia basata solo sulla descrizione e sull'analisi di uomini e di fatti eclatanti. Occorre anche soffermarsi su ciò che è stato meno evidente, meno clamoroso, ma non per questo meno importante. E' vero, sì che la storia d'Italia è stata fatta, in un certo periodo, da Garibaldi; ma allo stesso tempo ne sono stati protagonisti e artefici - pur se anonimi, oscuri e ignorati - anche, ad esempio, i milioni di contadini poveri e analfabeti che coltivavano le terre che Garibaldi nella sua fulminea campagna liberava  via via dal dominio borbonico". Cfr. A. BALDI, BALDI, Il passato è vivo ancora oggi, in A. BALDI, C. CAMERINI, M. ZAMBELLI (a cura di), La storia nel cinema. Film italiani dal 1905 al 1980, pp. 5-6.

[7]Cfr. P. PINTUS, Storia e film. Trent'anni di cinema italiano (1945-1975), Roma 1980, p. 7.

[8]Cfr. G. FINK, "Etre" ou "avoir été": le film italien, le temps et l'histoire, in «Cultures», vol. II, Génève 1974, pp. 123-145; trad. it. in G. GORI (a cura di), La storia al cinema cit., p. 34.

[9]Cfr. ibidem.

[10]Naturalmente anche le esigenze di spettacolarizzazione proprie della fiction  cinematografica hanno portato talvolta a rappresentare la Resistenza attraverso azioni che appaiono alquanto "inverosimili". E' il caso di alcune scene di Roma città aperta di Roberto Rossellini e Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano: i bambini, guidati da un ragazzo storpio che fanno saltare il treno; i partigiani che bloccano gli autocarri dei tedeschi nel centro della città e liberano i prigionieri; la liberazione di Cesare e l'assalto finale dei partigiani che, sebbene senza armi vere e proprie, sconfiggono i nazisti usando il bestiame come esca. Cfr. P. SORLIN, La storia nei film, cit., p. 179.

[11]Pierre Sorlin "rimprovera" principalmente ai film di Rossellini - e al cinema resistenziale del dopoguerra in generale - di aver trascurato soprattutto le notevoli differenze nell'ambito del fronte partigiano, accomunando in un'unica rappresentazione formazioni combattenti e posizioni assai diverse, laddove - scrive l'autore francese - tra chi fugge dai lavori forzati in Germania, chi difende la patria, chi lotta contro il fascismo e chi prepara la rivoluzione, c'è una bella distanza, "che Roma città aperta nega quando raccoglie sul tavolo dell'ingegnere tutti i giornali clandestini", «l'Unità», «Avanti!», «Voce Operaia», «il Popolo», «L'Italia libera». Cfr. P. SORLIN, Guerra e resistenza, in G. P. BRUNETTA (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. I, L'Europa 1. Miti, luoghi, divi, Torino 1999, p. 719.

[12]In particolare, sul falso mito di un Rossellini puro trascrittore, alieno dal proporre interpretazioni dei fatti storici riprodotti, v. P. ALATRI, Rossellini e la storia, relazione al Convegno di S. Remo, settembre 1978, testo dattiloscritto, p. 21.

[13]Cfr. P. MELDINI, Interpretazioni della Resistenza nei film sulla Resistenza, in G. GORI, (a cura di), Passato ridotto, Firenze 1982, p. 97.

[14]Cfr. S. KRACAUER, From Caligari to Hitler. A Psycological History of the German Film, Princeton 1947. Trad. it. di G. Baracco, C. Doglio, E. Capriolo, Cinema tedesco. Dal  Gabinetto del dottor Caligari a Hitler, Milano 1954; riprodotto in G. GORI (a cura di), La storia al cinema, cit., p. 233. A proposito dei rapporti nei film storici tra la rappresentazione del passato e la realtà del presente, Pierre Sorlin ha distinto dei film nei quali il passato è una dichiarata proiezione di contraddizioni e conflitti presenti; altri nei quali il richiamo alla storia serve a evidenziare problemi presenti nascosti, e di cui gli autori stessi non sono pienamente consapevoli; altri infine nei quali il passato è una sorta di rifugio dal presente. Cfr. P. SORLIN, La storia nei film, cit., pp. 30-32; P. ORTOLEVA, Rifar le polpe al carcame della storia. Il passato nell'audiovisivo di finzione e la didattica, in AA.VV., La cinepresa e la storia. Fascismo, antifascismo, guerra e resistenza nel cinema italiano, Milano 1985, p. 67.

[15]J. LE GOFF, La nuova storia, in J. LE GOFF (a cura di), La nuova storia, cit., p. 42.

[16]Cfr. P. SORLIN, Sociologia del cinema, Milano 1979, p. 312. Sorlin in Sociologia del cinema ha enunciato il suo celebre "metodo" - che unisce l'approccio semiotico a quello sociologico - per analizzare i film di finzione come fonti per la storia sociale. Pietra angolare della metodologia di Sorlin è il concetto di "visibile" - "quel che appare fotografabile e presentabile sugli schermi in un'epoca data" - che sta a indicare, da un lato, la capacità del cinema di riprodurre la realtà fisica, cioè il mondo vissuto che gli spettatori vengono invitati a riconoscere, dall'altro, la sua capacità di costruire, attraverso la selezione e il racconto, una rappresentazione socialmente e soggettivamente determinata del mondo. Cfr. P. ORTOLEVA, Cinema e storia..., cit., pp. 40-41.

[17]Cfr. G. DE LUNA, L'occhio e l'orecchio dello storico. Le fonti audiovisive nella ricerca e nella didattica della storia, Firenze 1993, p. 17.

[18]Cfr. P. MELOGRANI, Oltre lo spettacolo, in AA.VV., Inventare dal vero. Dibattito sui rapporti tra cinema e storia del 27 aprile 1987, Quaderni del Centro Sperimentale di Cinematografia 3, Roma 1989, p. 68. In occasione di quell'incontro tra storici, autori di film e studiosi di cinema, pur nel riconoscimento della difficoltà nei rapporti tra cinema e storia, è emersa comunque una generale apertura degli storici nei confronti del film che, se supportato da un'adeguata ricerca documentaria, può sicuramente andare nella direzione della verità storica. "Lettura storica del film, lettura cinematografica della storia; queste sono infine le due linee da seguire per chi si interroga sulle relazioni tra cinema e storia". Così scriveva Marc Ferro nel 1976, indicando con la prima espressione la possibilità di indagare la storia attraverso il film, individuando "zone non visibili del passato delle società" e con la seconda la capacità del cinema di mettere in scena il passato, restituendo alla società "una storia di cui l'istituzione l'ha privata". Cfr. M. FERRO, Cinema e storia. Linee per una ricerca, Milano 1980, p. 17.