Le pellicole resistenziali, oltre a rappresentare una forma di
storiografia e una fonte per la conoscenza dell'epoca in cui furono
realizzate, assumono oggi un ulteriore significato: diventano mezzi per
tenere viva la memoria storica della Resistenza. Quei film, al di là
delle semplificazioni e dei limiti sottolineati, hanno comunque il
merito di aver portato sullo schermo una vicenda nazionale, di aver
tramandato il ricordo, seppur rielaborato e reinterpretato, della guerra
partigiana. Rimane - a distanza di tempo - il forte impatto emotivo e la
capacità evocativa di opere come Roma
città aperta o Paisà, tanto che ci si può chiedere con Pierre Sorlin "che
cosa conoscerebbe la gente, oggi, a più di cinquant'anni di distanza,
della guerra e della lotta contro il nazismo se non vi fosse stato il
cinema?".
Il
regista David Griffith, autore di Nascita
di una nazione (1915) e di Intolerance
(1916), nel 1920 preconizzava la progressiva sostituzione dei libri di
storia con i film storici, sostenendo che "il cinema insegna in un
lampo". Se le previsioni di
Griffith appaiono eccessive e anche un po' ingenue, è tuttavia innegabile
l'enorme potenzialità del cinema come veicolo di comunicazione storica e
ausilio per la didattica. L'immediatezza delle immagini, la capacità di sintesi
del linguaggio cinematografico, i meccanismi di identificazione propri della fiction,
fanno del film il canale privilegiato per avvicinare
soprattutto le giovani generazioni alla storia. La sostituzione del testo
scritto con il film per spiegare la Resistenza è alquanto improbabile - e anzi
l'integrazione tra scrittura e immagine rimane indispensabile - ma è vero, ad
esempio, che "il grido della Magnani (Francesco...! Francesco!) - come ha
scritto Gian Piero Brunetta - il suo furioso divincolarsi e correre dietro al
camion con i prigionieri prima di cadere sotto la raffica del mitra, [...] hanno
raccontato la lotta al fascismo in modo più diretto ed emblematico di migliaia
di pagine e documenti storici".
Come ha sostenuto Piero Melograni, in una società che visualizza tutto, anche
la storia, "il mezzo cinematografico costituisce uno strumento
importantissimo di divulgazione",
a patto ovviamente di non dimenticare la natura di documento affabulato del film
e di non farne l'unica via attraverso la quale lo spettatore si appropria di un
evento storico. Le immagini cinematografiche, così ricche di suggestioni e di
efficacia, accompagnate ai tradizionali supporti didattici e adeguatamente
mediate dagli insegnanti, possono far comprendere agli studenti come un film sia
in parte testimonianza storica, ma anche allo stesso tempo esempio di come un
dato fatto sia stato recepito, rielaborato, anche mistificato da un regista e
dalla società dell'epoca. Pierre Sorlin, tra i primi ad aver introdotto il film
nelle aule universitarie, ha sintetizzato in quattro "tappe" il
percorso analitico che deve seguire a una proiezione in classe. 1) Studio della
realtà filmata, ossia lettura dei frammenti di realtà che si nascondono nella
finzione narrativa; 2) ricerca del mittente, ossia individuazione della
"voce che s'esprime nel racconto e guida lo spettatore"; 3) analisi
del modo di raccontare, ossia studio del linguaggio, degli stili - ironico,
misterioso, avventuroso, horror - e
dei ritmi utilizzati nel film; 4) valutazione ideologica, ossia riconoscimento
del messaggio che il film propone e dell'interpretazione che fornisce di un dato
avvenimento. Un'osservazione così
dettagliata e il ricorso a speciali filtri e a mediazioni critiche consentono di
utilizzare il film storico come strumento di comprensione e di racconto oltre
che come fonte, e di effettuare senza ingenuità quel famoso "viaggio nel
passato" di cui parlava Guido Fink. Non a caso, Peppino Ortoleva ha
definito il film una "macchina del tempo [
] capace di mettere in scena
il passato per mezzo del passato stesso". E l'utilizzo della
"macchina del tempo" può servire se non a dare risposte, a
sollecitare curiosità, se non a mostrare il passato "come realmente
era", a indurre al confronto, all'approfondimento, a sempre nuovi quesiti. Partire
dal film, dunque, per arrivare alla conoscenza storica.
I
film sulla Resistenza girati nel dopoguerra vanno interpretati in tal senso:
come mezzi attraverso i quali le generazioni per cui fascismo e Resistenza sono
ormai realtà lontane, "avvenimenti appartenenti quasi ad altre ere, altre
civiltà", possano essere condotte a interrogarsi sul mondo che le ha
precedute. Le pellicole di Roberto
Rossellini, Aldo Vergano, Luigi Zampa e degli altri registi che scelsero di
narrare la Resistenza possono essere un ideale punto di partenza per raccontare
ai giovani cosa sono stati il fascismo, la guerra, la lotta partigiana e tutti
"quei mutamenti attraverso i quali - come scrive Giuseppe Gubitosi - siamo
divenuti quello che siamo".
Affinché non accada mai quanto sembrava prefigurare Luciano Salce in La
voglia matta del 1963 quando, all'evocazione del nome di Mussolini, faceva
rispondere alla sedicenne protagonista "Chi? Il padre del pianista".
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