Anti e filo americanismo
 I luoghi comuni

Alessandro Portelli

il manifesto 20 ottobre 2001

   " Cosa vuoi che ti dica... è difficile conciliare l'anima antiamericana che la Lega ha sempre avuto con il fatto che oggi ti devi schierare per forza." Così parla Giuseppe Baiocchi, direttore di La Padania, quotidiano della Lega Nord, partito governativo (il manifesto, 18 ottobre). Mentre infuriano le critiche all'"antiamericanismo" dei ragazzi che hanno marciato da Perugia ad Assisi in jeans e al suono del rock, antiamericani ben più viscerali e molto più ignoranti si preparano a marciare a sostegno della guerra in una marea di bandiere a stelle e strisce. E poi dicono che in contraddizione sono gli altri.
Ogni volta che gli Stati uniti decidono, giustamente o no, di bombardare qualcuno, mi tocca scrivere lo stesso articolo - l'ho fatto per Panama, Golfo, Kosovo, lo rifaccio con pazienza per l'Afghanistan e mi chiedo quante altre volte mi toccherà farlo in futuro - per dire: è ora di finirla con questa vetero-accusa di antiamericanismo a chi, giustamente o no, non è d'accordo. Sia l'"antiamericanismo" sia il "filoamericanismo" sono categorie fasulle, semplificazioni rozze, inventate in parte (da destra e dal centro) per delegittimare il dissenso; in parte (da destra, dal centro e da sinistra), per risparmiarsi la fatica di ragionare con la propria testa, di aderire o dissentire criticamente invece che come riflesso condizionato; in parte (dal centro), per compensare emotivamente con il rifiuto culturale il proprio servilismo politico.
Nelle scorse settimane, mi sono sentito come preso in una morsa. Mi capitava di andare ad assemblee dove la storia e la società degli Stati uniti venivano rappresentate come un incubo totale, un elenco di violenze e ingiustizie tutte vere ma che lasciava fuori tutta quell'America che frequento e studio, che leggo e che ascolto, e quell'America dove si dirigono milioni di immigranti legali o illegali.
Poi mi capitava di leggere articoli di persone articolate e intelligenti (per esempio Mario Pirani su Repubblica), dove mi veniva raccontato che l'America è stata sempre baluardo e portabandiera della pace e della democrazia - come se il Guatemala (a cui Clinton ha chiesto scusa), Santo Domingo, il Salvador (da cui è scappato un mio amico la cui figlia è morta nell'attentato alle Torri, e che era alla marcia di Assisi), il Cile, il Vietnam, il Nicaragua, Granada, i mille morti civili nelle fosse comuni dopo il bombardamento di Panama, come se tutte queste cose non fossero mai esistite. Ma è necessario sopprimere pezzi enormi di storia e di realtà, inventarsi l'inferno per dissentire e inventarsi il paradiso per consentire - non si può fare l'una o l'altra cosa in modo un po' laico?


Digressione. Parte della paranoia "antiamericana" è il discorso che ho sentito ogni tanto, secondo cui la Cia o l'Fbi "non potevano non sapere" dell'attentato e quindi o hanno lasciato fare o se lo sono fatto da soli. Parte della paranoia "filoamericana" è che basta lasciargli mano libera e gli americani con la loro tecnologia infallibile risolveranno il problema chirurgicamente e scientificamente. Tutti e due gli atteggiamenti contengono un bel pezzo di mito americano: l'idea che gli americani siano tecnologicamente e organizzativamente perfetti, superuomini onnipotenti, che non possano essere cialtroni e inefficienti come tutti gli esseri umani (salvo poi dire che sono "bambinoni" e "ingenui" quando si parla di altre cose, o dare per scontato che gli interventi chirurgici colpiranno anche qualche villaggio di pastori disarmati). Questo perché facciamo fatica a pensare all'America come un posto popolato da persone (anche gli uccisi delle Torri Gemelle rischiano di svanire in una statistica dei morti e in una scusa per farne altri): l'America è un posto immaginario, non un posto vero, e la paranoia si regge su un misto di ammirazione e di terrore: da un lato sull'ignoranza e la disinformazione, dall'altro sul mito dell'onnipotenza e onniscienza. Che poi sono reciprocamente funzionali: se c'è il mito, che bisogno c'è della conoscenza? Se non c'è la conoscenza, a che aggrapparsi se non al mito?

Dio o Satana

Ora, le uniche entità che "non possono non sapere" perché sono onniscienti e onnipresenti sono Dio e Satana - e certe volte questa sembra una guerra fra quelli che pensano che l'America è Satana e quelli che pensano che l'America è Dio. Quelli come me, che pensano che è umana, sono messi da parte e azzittiti.
E torniamo all'accusa di antiamericanismo. Da quello che mi hanno raccontato, che ho visto e sentito, ad Assisi c'era di tutto: consenso sofferto alla guerra, consenso opportunistico e superficiale alla guerra, dissenso sofferto, dissenso ragionato, dissenso aprioristico... Mentre cerchiamo di ragionare e informare in modo da ridurre gli atteggiamenti stereotipati e aprioristici - che sono gli stessi a destra come a sinistra, ma sono particolarmente perniciosi al centro - dobbiamo anche difenderci da chi vuole ridurre ogni critica allo stereotipo per bollare come "antiamericano" chi non è d'accordo. E allora, mi ripeto.
Non capisco perché se io dico che Berlusconi e il suo governo sono un orrore nessuno mi dice che sono "antitaliano" (me l'avrebbero detto ai tempi di Mussolini, ma non sono più, o ancora, quei tempi); e se, dopo aver detto quello che penso del mio governo dico che mi piacciono il calcio e gli spaghetti nessuno mi guarda le scarpe per dirmi: sei contro l'Italia ma ti metti scarpe italiane. Posso apprezzare Blair e dire che la cucina inglese non è gran che? Posso non amare Aznar e adorare il flamenco e tifare per il Rayo Vallecano che perde sempre? E allora perché se mi metto i jeans mi devono per forza piacere Bush e i missili, e se mi piace la country music (genere ideologicamente conservatore, oltre tutto) mi devono piacere anche Rumsfeld e Cheney? A me sembrano molto più in contraddizione quelli che scattano sull'attenti ogni volta che l'America glielo ordina e si rifanno masticando luoghi comuni sulla cultura e il modo di vita di un paese del quale non sanno e non vogliono sapere niente.

In questo, la politica e la politica culturale degli Stati uniti non ci hanno aiutato. L'America è una realtà composita, complicata e pullulante, e come tale si rappresenta spesso, anche se talvolta in modo strumentale; ma contemporaneamente ha teso anche a rappresentarsi in maniera opposta, come un blocco indivisibile da prendere o lasciare in toto ("love it or leave it", dicevano gli striscioni sui paraurti delle macchine, amala o vattene). Quando Bush, in una sconcertante imitazione di Cristo, annuncia "chi non è con me è contro di me," ci impone la stessa alternativa secca, o tutto o niente. La critica (che significa distinguere) è bandita.
Questo è in parte una manifestazione arrogante di ideologia egemonica; in parte, l'esito motivato e problematico della storia di un paese in cui la maggioranza della popolazione è discendente di immigrati o immigrata, e ha dunque dovuto accreditarsi come americana dimostrando continuamente la propria adesione alle rappresentazioni prescritte anche quando nella pratica quotidiana ne restava o ne era tenuta al di fuori. E' stata, insomma, una politica di accesso: americani si diventa, quindi si può smettere di esserlo, quindi bisogna continuamente dimostrarlo. L'ideologia tende a sovrapporsi all'identità.
Ora, ideologia e identità sono cose connesse, e per questo è così difficile tenerle distinte; ma sono cose diverse, e per questo è necessario continuare a distinguerle. Come ha scritto Bruno Cartosio, la vicinanza culturale, i rapporti, i contatti con gli Stati uniti che in misura diversa tutti in Italia intratteniamo sono una delle ragioni per cui la strage dell'11 settembre ci ha così ferito: è stata colpita la nostra identità, uno spazio che era direttamente o indirettamente anche nostro. Mi ha detto una studentessa: è la prima volta che viene distrutto qualche cosa che conosco. E' la prima volta che un pezzo della sua memoria viene cancellato da un atto di violenza. Per questo posso conservare sia un giudizio morale secondo cui i bruciati dal napalm in Vietnam o i morti per affamamento in Iraq non sono meno importanti o meno innocenti dei massacrati a Manhattan, sia un'emozione che mi fa sentire i morti di Manhattan come una violenza fatta da altri a me, e non, come negli altri casi, come una violenza fatta da me ad altri che non mi somigliano e che non conosco.

Il mio mondo

Però anche la violenza praticata dal mio mondo fa parte della mia identità, e se non ne vivo le conseguenze ne vivo però le fondazioni. Per questo, all'aggressione contro gli Stati uniti reagisco dicendo che dobbiamo impedire che succeda di nuovo, e alle nostre aggressioni e vendette reagisco dicendo che dobbiamo smetterla, che non dobbiamo fare così. Nella misura in cui uno degli elementi che mediano fra ideologia e identità è la cittadinanza, mi sento coinvolto, e chiamato a dire la mia, sulle azioni del mondo di cui sono cittadino più che sulle azioni di chi mi rimane estraneo. Ci sono molte cattive ragioni per il fatto che gli slogan contro il terrorismo erano molto di meno di quelli contro la guerra, ad Assisi. Ma direi che c'entra anche il fatto che con bin Laden noi non abbiamo niente a che fare, con Bush e Berlusconi sì; che non abbiamo nessuna possibilità di influire sui comportamenti del terrorista, e in teoria come cittadini abbiamo la possibilità e il dovere di intervenire sui comportamenti di chi ci rappresenta. Bin Laden non ha ucciso in mio nome (e si è appropriato abusivamente del nome delle masse arabe); i Cruise si vendicano uccidendo in nome mio, e io sono responsabile dell'uso che del mio nome viene fatto.
Una parte non trascurabile, credo la migliore, di chi disapprova i bombardamenti in Afghanistan non lo fa perché è antiitaliana e antiamericana, ma precisamente perché si sente parte dell'Italia e degli Stati uniti, e responsabile di quello che fanno. Se è vero che "siamo tutti americani," e un po' lo è, non vuol dire che ci dobbiamo tutti mettere l'elmetto a comando, ma che dobbiamo esercitare i doveri e i diritti che ci derivano da questa appartenenza. Ma la domanda che mi pongo è anche un'altra: in che misura questa appartenenza è oggi anche cittadinanza? La mancanza di autonomia del mio governo mi fa sentire più suddito che cittadino: se davvero mi devo sentire americano (e la cosa non mi fa schifo affatto), allora vorrei poter almeno votare anch'io come gli altri americani, quando si elegge chi deciderà se il mio paese va in guerra o no (lasciamo perdere per ora come è stato eletto). In mancanza di questo diritto, credo di dare un contributo alla democrazia occidentale esercitando il diritto di parlare e di camminare per dire che la forza del mio mondo non consiste, e non può consistere, solo nella forza delle bombe.