Più i
problemi si complicano, più cerchiamo risposte semplici. Così anche
dopo lo shock dell'11 settembre, talmente violento da spingerci ad
afferrare qualsiasi galleggiante a portata di mano. La fiera dello
stereotipo. Alla caccia di una parola chiave, magari spiacevole, ma
utile a configgere in uno stampo il mondo che ci scappa di mano. E
darci l'impressione di dominarlo. Un ansiolitico, per resistere e per
combattere una guerra che ci è stata imposta. La partita non è
ancora vinta. Ma il collasso apparente del sistema taliban ci permette
di riesaminare con relativo distacco quegli stereotipi, e di scartarne
qualcuno. Quando la sofferenza è acuta, si prende il farmaco senza
troppi "se" e "ma". Ai primi segni di
miglioramento, conviene dare un'occhiata alla voce "effetti
indesiderati".
Perché le verità ricevute di questi due mesi, agitate anche per
compattare le nostre pubbliche opinioni, non sempre reggono ad analisi
meno superficiali. Possono anzi rivoltarsi contro di noi. E allungare
i tempi di una lotta il cui obiettivo finale dovrebbe essere chiaro:
liquidare il terrorismo di sterminio prima che Bin Laden e associati
destabilizzino le nostre società.
Prendiamo ad esempio tre stereotipi molto in voga
subito dopo l'attacco all'America. Primo, che il nemico è un semidio
quasi invincibile, sorretto da un esercito di kamikaze. Secondo, che
stiamo vivendo uno scontro di civiltà. Terzo, che in Afghanistan è
in corso un conflitto etnico. Qualche grano di verità c'è in ognuna
di queste affermazioni, ci mancherebbe. Ma che siano il Verbo, proprio
no.
Il primo paradigma è già infranto dalla cronaca. I Taliban ci erano
stati dipinti come monaci guerrieri. I templari (islamici) del XXI
secolo. Invasati, feroci, astuti. Il tutto associato alla leggenda,
confutabile dalla lettura di una voce di enciclopedia, che gli afgani
avessero sempre respinto gli invasori. La caduta di Kabul e più
ancora la rapida penetrazione dei nordisti, i "meno cattivi"
del momento, in territori che sembravano saldamente taliban, ha
relativizzato questa immagine. Rischiamo semmai di sottovalutare la
resistenza degli "arabi afghani", dei pakistani, dei ceceni
e degli altri pretoriani di Osama.
Forse il mito dell'invincibile SuperTaliban sarebbe crollato prima se
avessimo dato uno sguardo ravvicinato ai più recenti conflitti
afgani. Di norma, le città sono cadute non in seguito a battaglie
campali, ma comprando i vari signori della guerra. Gli stessi Taliban
avevano conquistato il paese, esausto di guerra, corrompendo i
comandanti rivali con i denari provenienti dal traffico di droga, come
pure da sauditi e pakistani. In Afghanistan l'arte del suk vale più
del pensiero di Sun Tzu. Cinquanta dollari un soldato, cento un
ufficiale, qualche migliaio per i gradi superiori. I bombardamenti e
l'avanzata delle truppe di terra sono stati un accompagnamento
necessario ma non sufficiente. Vedremo se anche Bin Laden ha un
prezzo. E se c'è un giuda accanto a lui pronto a incassarlo. Nel
frattempo, non possiamo che rallegrarci. Con pochi milioni di dollari
(americani e non solo) abbiamo inflitto un colpo forse decisivo al
nemico attuale.
Il secondo stereotipo è invece duro a morire. Il professor Sam
Huntington, detentore del marchio grazie al celebre articolo
dell'estate 1993 su Foreign Affairs ("The Clash of Civilizations?)
e del conseguente volume (dove lo "scontro di civiltà"
perdeva il punto interrogativo), diffonde trionfali interviste.
L'aveva detto, lui. Ogni politologo che si rispetti cerca l'algoritmo
del mondo, la riduzione in formula delle umane vicende. Presenti,
passate e soprattutto future. Dalle piramidi a Manhattan, dal Giappone
alla Finlandia. Se poi i fatti non corrispondono alla teoria, si può
sempre adattarli. Così Huntington sposta la battaglia di Poitiers
(732) a Tours, in fondo solo un centinaio di chilometri.
Dunque la guerra attuale sarebbe un episodio dello scontro fra
Occidente e Islam. Lo pensano, e qualche volta gli scappa detto, molti
nostri leader. Lo proclama Bin Laden, autorità definitiva in materia.
Fin qui, non c'è discussione. Ma passiamo dalla propaganda ai fatti.
Almeno a quelli che possiamo scrutare in televisione o leggere sui
giornali. Apprendiamo allora che tanto i tagiki in entrata che i
Taliban in uscita da Kabul inneggiavano ad Allah. Musulmani i
nordisti, ipermusulmani i sudisti. Contraddizioni in seno all'Islam?
Risaliamo indietro negli anni. Incrociamo un rosario di scontri fra
islamici (e fra arabi). Sopra tutti, la Guerra del Golfo (1990-1991),
nella quale sette Stati arabi islamici si unirono a noi occidentali
per combattere l'Iraq (77% di arabi, 97% di musulmani), che aveva
invaso il Kuwait arabo e islamico. Prima, la devastante guerra
Iran-Iraq (1980-1988). Ancora, decine di conflitti aperti o
sotterranei che da sempre oppongono, magari per una striscia di
deserto, popoli e paesi profondamente musulmani. Gli islamisti possono
continuare ad agitare la "jihad" contro noi infedeli
occidentali. Ad oggi, non risulta però che il cosiddetto blocco
occidentale si sia mai scontrato contro il cosiddetto blocco islamico.
Quanto alla guerra in corso, per ora è Taliban+Osama contro resto del
mondo. In attesa che il crollo del mullah Omar sveli le colossali
diversità di interessi riunite sotto l'insegna "guerra al
terrorismo".
Infine, le etnie. Ecco la chiave di
tutto, ammoniscono pensosi politici ed esperti. Ce l'avevano già
spiegato nei Balcani, adattando a serbi, croati, bosniaci, albanesi,
sloveni e quanti altri una categoria cara agli africanisti. Se poi
Tudjman e Milosevic, i capitribù croato e serbo, si scambiavano
cordiali telefonate in piena guerra, o se le varie milizie (mujahiddin
e seguaci di Bin Laden compresi, anche se all'epoca erano invisibili
per superiori ragioni di correttezza politica) affittavano i tank per
qualche centinaio di marchi all'ora, o se infine la mafia di Belgrado
scambiava droga e armi con quella albanese, alla faccia della
Gerusalemme serba (Kosovo), tutto questo non faceva e non fa testo.
Oggi in Afghanistan le analisi, e quel che è peggio, le politiche,
ruotano intorno alle etnie. Salvo poi scoprire che un pashtun si vende
a un uzbeko per un pugno di dollari, e viceversa. Agli etnicisti
assoluti può giovare la lettura di una dissertazione testé prodotta
da Conrad Schetter, dell'Università di Bonn, che demolisce con
teutonica acribia il loro articolo di fede. Ricordando anzitutto che
il numero delle etnie varia tra 50 e 200, a seconda della scuola
etnografica di riferimento; poi che molte delle cosiddette
"etnie", la definizione è ovviamente soggettiva, non
biologica, sono creazioni novecentesche. Ad esempio, in Afghanistan
"tagiko" era originariamente chi non rientrava in nessuna
tribù.
Chi si affatica a calibrare un improbabile governo nazionale afgano
compulsando il suo Cencelli etnico farebbe bene a considerare in quale
trappola si sta ficcando. E fermarsi a riflettere. Con i cari vecchi
strumenti occidentali, soldi e politica, potrà forse far meglio. |