I miti distrutti dalla guerra in Afghanistan
Lucio Caracciolo

la Repubblica, 16 novembre 2001

 

      Più i problemi si complicano, più cerchiamo risposte semplici. Così anche dopo lo shock dell'11 settembre, talmente violento da spingerci ad afferrare qualsiasi galleggiante a portata di mano. La fiera dello stereotipo. Alla caccia di una parola chiave, magari spiacevole, ma utile a configgere in uno stampo il mondo che ci scappa di mano. E darci l'impressione di dominarlo. Un ansiolitico, per resistere e per combattere una guerra che ci è stata imposta. La partita non è ancora vinta. Ma il collasso apparente del sistema taliban ci permette di riesaminare con relativo distacco quegli stereotipi, e di scartarne qualcuno. Quando la sofferenza è acuta, si prende il farmaco senza troppi "se" e "ma". Ai primi segni di miglioramento, conviene dare un'occhiata alla voce "effetti indesiderati".
Perché le verità ricevute di questi due mesi, agitate anche per compattare le nostre pubbliche opinioni, non sempre reggono ad analisi meno superficiali. Possono anzi rivoltarsi contro di noi. E allungare i tempi di una lotta il cui obiettivo finale dovrebbe essere chiaro: liquidare il terrorismo di sterminio prima che Bin Laden e associati destabilizzino le nostre società.

    Prendiamo ad esempio tre stereotipi molto in voga subito dopo l'attacco all'America. Primo, che il nemico è un semidio quasi invincibile, sorretto da un esercito di kamikaze. Secondo, che stiamo vivendo uno scontro di civiltà. Terzo, che in Afghanistan è in corso un conflitto etnico. Qualche grano di verità c'è in ognuna di queste affermazioni, ci mancherebbe. Ma che siano il Verbo, proprio no.
Il primo paradigma è già infranto dalla cronaca. I Taliban ci erano stati dipinti come monaci guerrieri. I templari (islamici) del XXI secolo. Invasati, feroci, astuti. Il tutto associato alla leggenda, confutabile dalla lettura di una voce di enciclopedia, che gli afgani avessero sempre respinto gli invasori. La caduta di Kabul e più ancora la rapida penetrazione dei nordisti, i "meno cattivi" del momento, in territori che sembravano saldamente taliban, ha relativizzato questa immagine. Rischiamo semmai di sottovalutare la resistenza degli "arabi afghani", dei pakistani, dei ceceni e degli altri pretoriani di Osama.
Forse il mito dell'invincibile SuperTaliban sarebbe crollato prima se avessimo dato uno sguardo ravvicinato ai più recenti conflitti afgani. Di norma, le città sono cadute non in seguito a battaglie campali, ma comprando i vari signori della guerra. Gli stessi Taliban avevano conquistato il paese, esausto di guerra, corrompendo i comandanti rivali con i denari provenienti dal traffico di droga, come pure da sauditi e pakistani. In Afghanistan l'arte del suk vale più del pensiero di Sun Tzu. Cinquanta dollari un soldato, cento un ufficiale, qualche migliaio per i gradi superiori. I bombardamenti e l'avanzata delle truppe di terra sono stati un accompagnamento necessario ma non sufficiente. Vedremo se anche Bin Laden ha un prezzo. E se c'è un giuda accanto a lui pronto a incassarlo. Nel frattempo, non possiamo che rallegrarci. Con pochi milioni di dollari (americani e non solo) abbiamo inflitto un colpo forse decisivo al nemico attuale.

     Il secondo stereotipo è invece duro a morire. Il professor Sam Huntington, detentore del marchio grazie al celebre articolo dell'estate 1993 su Foreign Affairs ("The Clash of Civilizations?) e del conseguente volume (dove lo "scontro di civiltà" perdeva il punto interrogativo), diffonde trionfali interviste. L'aveva detto, lui. Ogni politologo che si rispetti cerca l'algoritmo del mondo, la riduzione in formula delle umane vicende. Presenti, passate e soprattutto future. Dalle piramidi a Manhattan, dal Giappone alla Finlandia. Se poi i fatti non corrispondono alla teoria, si può sempre adattarli. Così Huntington sposta la battaglia di Poitiers (732) a Tours, in fondo solo un centinaio di chilometri.
Dunque la guerra attuale sarebbe un episodio dello scontro fra Occidente e Islam. Lo pensano, e qualche volta gli scappa detto, molti nostri leader. Lo proclama Bin Laden, autorità definitiva in materia. Fin qui, non c'è discussione. Ma passiamo dalla propaganda ai fatti. Almeno a quelli che possiamo scrutare in televisione o leggere sui giornali. Apprendiamo allora che tanto i tagiki in entrata che i Taliban in uscita da Kabul inneggiavano ad Allah. Musulmani i nordisti, ipermusulmani i sudisti. Contraddizioni in seno all'Islam?
Risaliamo indietro negli anni. Incrociamo un rosario di scontri fra islamici (e fra arabi). Sopra tutti, la Guerra del Golfo (1990-1991), nella quale sette Stati arabi islamici si unirono a noi occidentali per combattere l'Iraq (77% di arabi, 97% di musulmani), che aveva invaso il Kuwait arabo e islamico. Prima, la devastante guerra Iran-Iraq (1980-1988). Ancora, decine di conflitti aperti o sotterranei che da sempre oppongono, magari per una striscia di deserto, popoli e paesi profondamente musulmani. Gli islamisti possono continuare ad agitare la "jihad" contro noi infedeli occidentali. Ad oggi, non risulta però che il cosiddetto blocco occidentale si sia mai scontrato contro il cosiddetto blocco islamico. Quanto alla guerra in corso, per ora è Taliban+Osama contro resto del mondo. In attesa che il crollo del mullah Omar sveli le colossali diversità di interessi riunite sotto l'insegna "guerra al terrorismo".

      Infine, le etnie. Ecco la chiave di tutto, ammoniscono pensosi politici ed esperti. Ce l'avevano già spiegato nei Balcani, adattando a serbi, croati, bosniaci, albanesi, sloveni e quanti altri una categoria cara agli africanisti. Se poi Tudjman e Milosevic, i capitribù croato e serbo, si scambiavano cordiali telefonate in piena guerra, o se le varie milizie (mujahiddin e seguaci di Bin Laden compresi, anche se all'epoca erano invisibili per superiori ragioni di correttezza politica) affittavano i tank per qualche centinaio di marchi all'ora, o se infine la mafia di Belgrado scambiava droga e armi con quella albanese, alla faccia della Gerusalemme serba (Kosovo), tutto questo non faceva e non fa testo.
Oggi in Afghanistan le analisi, e quel che è peggio, le politiche, ruotano intorno alle etnie. Salvo poi scoprire che un pashtun si vende a un uzbeko per un pugno di dollari, e viceversa. Agli etnicisti assoluti può giovare la lettura di una dissertazione testé prodotta da Conrad Schetter, dell'Università di Bonn, che demolisce con teutonica acribia il loro articolo di fede. Ricordando anzitutto che il numero delle etnie varia tra 50 e 200, a seconda della scuola etnografica di riferimento; poi che molte delle cosiddette "etnie", la definizione è ovviamente soggettiva, non biologica, sono creazioni novecentesche. Ad esempio, in Afghanistan "tagiko" era originariamente chi non rientrava in nessuna tribù.
Chi si affatica a calibrare un improbabile governo nazionale afgano compulsando il suo Cencelli etnico farebbe bene a considerare in quale trappola si sta ficcando. E fermarsi a riflettere. Con i cari vecchi strumenti occidentali, soldi e politica, potrà forse far meglio.