L' autunno è splendido negli Stati americani della costa atlantica: una
stagione placida, prolungata, malinconica, colori vivacissimi, giornate corte, notti
limpide. E' la stagione più bella, cara a poeti come Robert Frost. Comincia trionfalmente
con le ultime giornate dell'estate, culmina malinconicamente nella macabra allegria, di
origine irlandese, dei culti mortuari e delle beffe scherzose di Halloween. Quest'anno,
purtroppo, l'atmosfera è assai diversa: le prime brinate mattutine sembrano in tono,
assai più che con le malinconie dolci della natura, con i brividi di angoscia e i timori
paranoici e indefinibili che si insinuano nelle menti e nell'immaginario della gente.
Le bandiere al vento, i discorsi degli uomini politici, degli esperti di guerra
convenzionale o biologica, dei funzionari in disarmo della Cia, dei burocrati della
sanità nazionale che si affacciano alla televisione, insieme ai titoli gridati dei
quotidiani e delle riviste ("La sfida contro la nostra nazione", "L'America
al contrattacco", "In guerra contro il terrore") non sono assolutamente
sufficienti, con la loro retorica scontata, a nascondere un nervosismo crescente, una
fiducia sempre meno sicura di sé sugli esiti della guerra in Afghanistan, un
rafforzamento sempre più diffuso delle teoria della cospirazione, un impalpabile,
penetrante terrore nutrito dalle notizie sempre più incalzanti e sempre più misteriose
sulla diffusione dell'antrace.
Il dibattito intellettuale, percorso da quelle tensioni, spesso
sovratono e palesemente nevrotico, si dimostra incapace di creare momenti di riflessione
collettiva, di elaborare idee forti attorno a cui creare consenso, e neppure è capace di
proporre discorsi o simboli che siano almeno consolatori o tranquillizzanti.
Noam Chomsky, Susan Sontag, Dinesh D'Souza, Christopher Hitchens, Bill Maher
e altri ancora hanno provato a fare discorsi di analisi fredda della realtà e di denuncia
delle politiche aggressive del passato e delle vuote retoriche del presente: il rumore
assordante della retorica ufficiale li ha trasformati in voci nel deserto. In alcuni casi
sono stati attaccati in modo brutale e personale, e accusati di non amare la patria, in un
momento in cui la patria è in pericolo. Edward W. Said, con un bel saggio comparso in
"The Nation" ha cercato di smontare con calma razionalità e abbondanti richiami
alla storia le tesi sullo "scontro di civiltà" avanzate da Samuel Huntington (e
riprese da Berlusconi) e proposte come una nuova chiave per capire il fenomeno del
postmoderno e della globalizzazione.
Di molti di questi interventi si è avuta eco in Italia
(l'articolo di Said è stato tradotto dalla Repubblica giovedì scorso, mentre lo stesso
giorno Il Corriere dell sera intervistava sia Huntington che il suo ex allievo
Francis Fukuyama) molti intellettuali italiani hanno accompagnato la discussione con
interventi, riflessioni, prese di posizione (anche, purtroppo, e c'è da vergognarsene,
con posizioni di tipo mitologico prima ancora che ideologico, arcaiche e oscurantiste
prima ancora che conservatrici o reazionarie). Alle tesi di Huntington e al suo
immaginario mitologico sullo "scontro delle civiltà", gli intellettuali
intervenuti (come Eco da noi o Said in America) hanno contrapposto ricostruzioni attente
della storia, analisi dei processi di confronto, assimilazione e differenziazione delle
culture (e non delle civiltà).
Forse meno noto e meno frequentemente ripreso è stato
l'intervento di Stanley Fish, che invece credo meriti una segnalazione. L'articolo è
stato pubblicato sul "New York Times" il 15 ottobre scorso, e non ha ricevuto
neppure in America grande attenzione. Stanley Fish è un personaggio controverso, ritenuto
da molti un poco simpatico provocatore, certo non particolarmente progressista: un
moderato di idee liberali. E' impegnato nell'accademia americana come professore di
letteratura e anche di giurisprudenza e come sostenitore di una teoria critica ed
ermeneutica di tipo pragmatico e relativista -un suo famoso pamphlet, C'è un testo in
questa classe?, è stato tradotto dalla Einaudi. Ma è anche un amministratore e un
manager spregiudicato e fortunato della nuova università americana intesa come azienda
(Corporation): dopo aver contribuito a trasformare una università provinciale del Sud, la
Duke University del North Carolina, in un centro intellettuale brillante e alla moda,
aperto alle più varie sperimentazioni culturali, ora è stato chiamato a rinnovare dalle
fondamenta, in cambio di uno stipendio favoloso, un'altra università in crisi: la
University of Illinois a Chicago. L'articolo sul "New York Times" risponde
anzitutto alla domanda, posta a Fish per telefono da un giornalista, se l'attacco
terrorista alle Twin Towers dell'11 settembre possa significare "la fine del
relativismo postmoderno". Fish racconta di aver reagito pensando che una simile
domanda fosse futile e poco adatta alla tragicità degli eventi; poi, però, l'ha sentita
ripetere più volte nei giornali e alla televisione nei giorni seguenti e ha visto
avanzare e farsi strada questa tesi: che le idee sostenute dagli intellettuali postmoderni
hanno indebolito la forza morale del paese: affermando la legittimità di ogni posizione e
interpretazione, i postmoderni hanno eroso il patrimonio storico dei grandi valori,
rendendo impossibile per esempio condannare gli attacchi terroristici o rispondere a essi
in modo forte e adeguato. (Il lettore italiano avrà riconosciuto l'eco delle tesi
sostenute da Panebianco).
Nell'articolo per il "New York Times", Fish
brandisce ancora una volta il rasoio di Occam e traccia le dovute distinzioni. "I
postmodernisti sostengono che non esistono delle unità di misura indipendenti per
determinare quale, fra le molte interpretazioni rivali di un evento, sia quella vera. Ciò
che il pensiero postmoderno rifiuta è l'idea che sia possibile giustificare la nostra
risposta agli attacchi facendo appello a principi universali, che risultino persuasivi per
chiunque, compresi i nostri nemici. Invocare le nozioni astratte della giustizia e della
verità per sostenere la nostra causa non avrebbe comunque nessuna efficacia, perché i
nostri avversari utilizzano lo stesso tipo di linguaggio e avanzano le stesse pretese.
(Nessuno si proclama sostenitore dell'ingiustizia)".
Qui viene la parte forse più interessante del discorso di Fish. Alle tesi di Huntington
sullo "scontro delle civiltà" egli si oppone ragionando in termini di
formazioni e convenzionalità sociali, di quella condivisione di tradizioni e valori che
in ogni comunità umana, ciascuna nella propria relativa specificità e tutte in rapporto
fra di loro, informano le istituzioni, i simboli, le motivazioni dei comportamenti
collettivi, "quell'insieme di valori vissuti, aspirazioni e realizzazioni collettive
che costituiscono le fondamenta condivise di ogni cultura e società". La comunità
americana, per esempio, "può trovare nei principi democratici che la caratterizzano
le ragioni sufficienti per agire e condannare gli attacchi senza dover ricorrere alla
vuote retorica degli assoluti universali che tutti sottoscrivono ma poi tutti definiscono
diversamente".
Fish tradizionalmente è parso ai suoi avversari intellettuali (specialmente quelli
progressisti) al tempo stesso troppo individualista e troppo appiattito sulle istituzioni,
estremista nelle posizioni polemiche ma accomodante verso il potere. Egli ha irritato
molti con le sue teorie: l'idea, per esempio, che si può dare di un testo letterario
qualsiasi interpretazione, basta avere le risorse retoriche per persuadere gli altri della
validità della propria interpretazione; o le idee parallele, in economia e nel sistema
giudiziario, che non esistono valori assoluti e le decisioni vanno lasciare ai liberi
meccanismi del mercato o al confronto retorico fra i discorsi dei diversi soggetti
implicati. In questa occasione, tuttavia, ha preso posizioni molto più progressive e
illuminate, offrendo semmai gli argomenti della sua teoria (che lui definisce
"post-modernista") a sostegno delle posizioni di Susan Sontag o di Edward Said.
Grande studioso di Milton e dell'immagine che nel Paradiso perduto viene data del
Male, egli mette in guardia contro i discorsi fatti da Bush e da molta stampa americana
fondati sul linguaggio biblico e sulla retorica della guerra contro il Male. "Non
abbiamo visto la faccia del male; abbiamo visto la faccia di un nemico che viene da noi
con una lunga lista di rimostranze, obbiettivi e strategie. Riducendo l'avversario
all'immagine del Male, finiamo con l'evocare un demone informe e sfuggente, un agente
misterioso di anarchia morale che va oltre ogni nostra comprensione e quindi anche oltre
ogni possibile nostra contro-strategia".
Fish ricorda come gli avversari dell'America non emergono da
un'oscurità primordiale, ma arrivano a noi da una storia, fatta di ragioni e motivi e
anche da virtù, per quanto pervertite. Egli sottoscrive l'affermazione di Sontag e di
D'Souza secondo cui ai dirottatori degli aerei dell'11 novembre va riconosciuta la virtù
del coraggio, intesa come termine puramente descrittivo: si può agire con coraggio anche
quando si compie una cattiva azione. Fish fa appello inoltre al buon senso, dimostrando
ancora una volta che le radici del suo pensiero vanno cercate nella tradizione
dell'empirismo inglese e del pragmatismo americano (si dice che Fish abbia fornito almeno
in parte il modello al personaggio del professore americano in visita in Inghilterra nei
noti romanzi di David Lodge). Riferendosi a una decisione presa dall'agenzia Reuters
(foriera di grosse controversie) di usare con molta cautela le parole
"terrorismo" e "terrorista", Fish ricorda che anche questi termini
vanno relativizzati e accuratamente specificati, poiché colui che per una parte è un
terrorista per l'altra può essere un combattente per la libertà. "Se tu pensi di
essere il bersaglio di un terrorismo con la T maiuscola, il tuo avversario è dovunque e
in nessun luogo. Ma se pensi di essere il bersaglio di un terrorismo che viene da un luogo
preciso, anche se opera su scala internazionale, puoi almeno cercare di anticipare i suoi
assalti futuri".
La situazione americana intellettuale e culturale, rispetto
al giorno in cui Fish ha scritto l'articolo per il "New York Times", è
decisamente peggiorata. Dopo alcuni giorni di cautela, i discorsi di Bush si sono sempre
più, e nervosamente, riempiti della retorica miltoniana del male. Il nemico si presenta
come sempre più difficile da definire, e da conoscere. Segnali tranquillizzanti di
sicurezza e segnali preoccupanti di allarme si alternano a ritmo spaventosamente veloce. I
fantasmi che si affacciano alla mente sono assai meno innocui di quelli che bussano alla
porta la notte di Halloween e non bastano pochi dolcetti e caramelle per mandarli via in
pace. Gli intellettuali che scrivono sulle riviste o compaiono in televisione, gli uomini
politici dell'opposizione sembrano in uno stato di terrore e di agitazione estrema. Loro
sì, avrebbero bisogno di forti iniezioni di coraggio. |