Quello
che la televisione ci ha fatto vedere l’11 settembre e i giorni
seguenti con una ripetitività ossessiva, è una visione che potrebbe
essere uscita dalla mente di un regista di fantascienza, se non fosse
purtroppo una tremenda realtà. Donne e uomini diventati proiettili
sono stati lanciati contro altri loro concittadini per colpire e
abbattere i simboli di una nazione e di un sistema, quello
occidentale, fondato sul capitalismo e sulla difesa militare. Il
terrorismo è purtroppo di casa da noi e ci ha abituati a stragi
crudeli che, di volta in volta, deploriamo e puntualmente incassiamo
nella memoria o, forse è meglio dire, nel dimenticatoio collettivo.
Ma questa volta non potremo dimenticare le due torri tagliate come da
una lama di fuoco che le decapita e le fa crollare. E i morti di quest’operazione?
Si azzardano numeri: ventimila o cinquemila dispersi, quasi fosse una
differenza insignificante dentro la mostruosità della tragedia. E
quale sara il seguito?
Uno spartiacque della storia
C’è un’affermazione
che, come un ritornello, abbiamo sentito in questi giorni: dopo questo
attacco alle Twin Towers di Manhattan e al Pentagono di Washington "la
storia non potrà essere più la stessa". Ed è vero. Abbiamo
visto cadere sicurezze ritenute assolute o quasi, ci siamo sentito
improvvisamente insicuri e soli e lo choc provocato è stato tale che
il mondo si è ritrovato pietrificato dalla paura. Dopo la fine della
guerra fredda che aveva diviso il mondo in Est e Ovest, sembrava che
tutti fossimo diventati cittadini di un mondo in pace dominato dalla
prospettiva del benessere. Oggi l’illusione, perché di illusione si
trattava, è svanita e ci siamo ritrovati improvvisamente schierati in
due campi, il Nord e il Sud del mondo, il Nord che fa quadrato attorno
agli Stati Uniti e il Sud che si trova, suo malgrado, identificato con
il mondo islamico il quale, a sua volta, si sente tutto costretto nell’angolo
dall’accusa di proteggere un gruppo di terroristi fanatici. E’
vero che ci sono stati dei gruppi che hanno festeggiato il massacro
(dei fatti sostanzialmente isolati, ma subito strumentalizzati da chi
ha interessi a scatenare la guerra), ma ora il mondo islamico deve
fare i conti con le conseguenze di un gesto che non è di tutti e
neppure da tutti condiviso, e prepararsi a subire il castigo
collettivo.
No, davvero la storia non potrà essere
più la stessa. Riviene istintivamente alla memoria l’attentato
di Sarajevo nel 1914 che ha messo in moto la prima guerra mondiale, e
l’invasione della Polonia nel settembre del 1939 o l’attentato di
Pearl Harbor, fatti che hanno scatenato o esteso la seconda guerra. E
la paura cresce per quella che potrebbe essere la prima guerra del
nuovo secolo. In futuro questo sarà l’avvenimento che
caratterizzerà il passaggio al nuovo secolo. No, la storia non potrà
essere più la stessa! Si è già aperto un nuovo capitolo della
storia dell’Occidente e del mondo: ci eravamo abituati a cinquant’anni
e più di pace e a vedere le guerre combattute altrove, come uno
spettacolo tragico, ma lontano, da seguire alla televisione, come la
guerra del Golfo o quella della Somalia chiamava, lo ricordate?,"Restore
Hope" riportare la speranza, e che invece aveva lasciato più
problemi di quanti ne avesse risolti. Come si chiamerà la prossima?
La storia non dovrà essere più la
stessa!
"La storia non
potrà essere più la stessa". Ma questa amara constatazione
deve trasformarsi in un impegno collettivo. Modificandola leggermente,
possiamo e dobbiamo dire: "No, la storia non deve essere
più la stessa!" Nessuno intende negare la
responsabilità di chi ha progettato, sostenuto ed eseguito questa
barbarie. Ma questa tragedia deve farci riflettere. L’odio viscerale
contro gli Stati Uniti (e l’Occidente) non è nato dall’oggi al
domani, non è solo un’incomprensibile quanto irriducibile
opposizione all’America, come sembra dedursi da certi commenti
sbrigativi sentiti in questi giorni. I problemi portati in superficie
da questo gesto criminale sono la punta di un iceberg sommerso, una
colossale mina vagante che presto o tardi doveva pur scoppiare e fare
dei danni, sono l’emergere di una rabbia accumulata e profonda
contro l’arroganza, il disprezzo e il trionfalismo con i quali noi
Occidentali ci siamo comportati negli ultimi tempi nei confronti del
Sud del mondo.
Questa mina vagante deve essere
onestamente identificata, riconosciuta e disinnescata. Essa è
costituita dalle ingiustizie strutturali del "nuovo ordine
mondiale" ereditate dalla guerra fredda, che il processo di
globalizzazione economica ha fatto emergere e che ora stanno
scoppiando e di cui l’attentato agli Stati Uniti non è che il primo
grande segno eclatante: forse solo un inizio! Non è quindi un
problema soltanto di islamici fanatici, arrabbiati contro un Occidente
pagano e trasgressore, ed ancora meno il contenzioso dei Palestinesi
opposti ad Israele per rivendicare il diritto alla loro terra. Le
reazioni dell’Islam integrista e fondamentalista devono essere
capite confrontandole con le lentezze e le tergiversazioni dell’Occidente
nel risolvere i problemi politici, con la prepotenza del mondo
Occidentale che impone la sua cultura umiliando sistematicamente le
altre e con l’arroganza di un mondo che decide tutto per conto suo
sulla pelle di stati indipendenti, ma poveri, come se questi ultimi
fossero i servi dell’Occidente.
All’origine del terrorismo
Gli stati più
poveri da anni ormai vedono che la casa delle decisioni mondiali è
occupata da gente che non si accorge degli altri possibili inquilini
che quando questi ultimi gridano violentemente la loro rabbia. Sono
intere popolazioni che si vedono negati i diritti umani più
elementari, quello alla vita, alla salute, all’istruzione, alla
casa, alla patria; stati che non possono fare i primi passi sulla
strada di una reale indipendenza economica, perché non possono
contare su un’economia, un’industria e un commercio propri, paesi
che sono invece sfruttati con il pretesto che non sono in grado di
governarsi; sono stati che vedono le loro forze migliori emigrare
verso l’Occidente per mancanza di futuro nella loro patria, paesi
che sono diventati il nuovo campo di battaglia per guerre che non sono
loro.
Gli Stati Uniti e, in generale, l’Occidente
dovranno comprendere che il terrorismo è la conseguenza di una
frustrazione collettiva e di un odio troppo a lungo covati, e
rappresenta lo sfogo sbagliato di quella che è stata chiamata "l’ira
dei poveri". E’ uno sfogo ingiusto e sbagliato, perché la
violenza non può che provocare violenza. Di fatto tutti temiamo che
questo attacco generi una inarrestabile spirale di violenza, come si
vede in Medio Oriente.
Ora noi vogliamo sinceramente comprendere
e condividere la sofferenza e l’angoscia degli Stati Uniti e dell’Occidente.
Ma dobbiamo anche domandarci le cause che hanno scatenato questo
disastro e la posta in gioco che esso mette sul tavolo. Come ha
scritto Antonio Giorgi su Avvenire del 15 settembre u.s.
("Ma ora Washington impari a stare al mondo") citando
Chalmers Johnson, politologo americano, in questi ultimi tempi gli
Stati Uniti "hanno mantenuto un atteggiamento di guerra fredda
in un mondo post-guerra fredda […] Per miopia, per superbia
imperiale, forse anche per un deficit congenito di capacita di aprirsi
e di capire gli altri", gli Stati Uniti si sono chiusi in una
forma di isolazionismo, e hanno cominciato a "inventare
continuamente nuove minacce, nuovi nemici. Non importa se - fino a
poco tempo prima - il nemico in carica era (il caso di Ben Ladden è
eloquente) il resistente abbondantemente foraggiato ieri. Cosi nascono
i" regimi criminali" e si moltiplicano gli "stati
canaglia"". Tutti ricordiamo ancora il Panama di Noriega
e l’Iraq di Saddam Hussein, prima ancora dell’Afganistan, dei
Taleban e di Osama Ben Ladden.
Ma c’è anche un altro pericolo,
che noi missionari sentiamo con preoccupazione. Se la risposta
militare all’attentato dell’11 settembre fosse esagerata e se, per
il principio della legge del taglione ("occhio per occhio e dente
per dente"), colpisse troppe vite umane innocenti, o imponesse
sanzioni esageratamente ingiuste, come quelle contro l’Iraq che sono
ancora in vigore, malgrado le ripetute richieste di levarle anche di
Giovanni Paolo II, potrebbe crescere la rabbia e venire meno la
fiducia nella volontà di giustizia dell’Occidente. Malgrado tutto,
questa fiducia sussiste ancora, ma se tutto l’Occidente si lasciasse
prendere in questa voglia di vendetta, ci sarebbe il rischio di una
deriva inarrestabile. Il Terzo Mondo potrebbe imboccare una strada di
cui nessuno può prevedere la fine.
Non mescolare politica e religione
Bisogna anche
evitare un altro equivoco. In questi giorni abbiamo sentito tirare in
ballo la religione sia da una parte che dall’altra: gli islamici che
fanno dell’opposizione all’Occidente una jihad, la guerra
santa, voluta da Dio; e dall’altra parte, molti occidentali che
accusano la religione del Corano come responsabile di questa guerra.
Ma in tutto questo, lo si sa, Dio non deve proprio essere chiamato in
causa! Si sta facendo qui una gran confusione! Purtroppo non sono
mancate neppure le voci cattoliche (e autorevoli!) che affermano che "non
possiamo chiedere di porgere l’altra guancia" e che imporre
la non violenza evangelica "si commetterebbe un sopruso".
Tutto questo ci mostra che dobbiamo identificare correttamente le
responsabilità e ascoltare il Vangelo e la sana dottrina della
chiesa, quella che ci è stata ricordata chiaramente dal Papa in
questi ultimi giorni: non possiamo cedere alla violenza e all’odio
nella risposta a questi attacchi.
E per non mescolare indebitamente la
religione a questa immane sciagura, va ricordato che il
fondamentalismo islamico fiorisce come un miraggio o una speranza
nelle fasce più povere e umiliate della popolazione. Non è quindi
una guerra di religione, ma una guerra che nasce della frustrazione
collettiva di popolazioni che si vedono messe al margine e che non
hanno nulla da dire sul proprio destino. Ad esse certi intellettuali e
politici islamici hanno fatto balenare l’idea che il loro futuro
sarà migliore e che lo sviluppo sarà vero e pieno, quando l’Islam
sarà ripristinato, quando le influenze occidentali saranno rimosse e
quando la fede islamica sarà riportata alla sua purezza.
Non confondiamo quindi le rivendicazioni
di una identità culturale e di una autentica indipendenza con le
ragioni religiose! Sarebbe come dire che nell’Irlanda del Nord è in
atto una guerra di religione, quando tutti sanno che essa è solo il
carburante che tiene accesa una guerra sociale, tra chi ha il potere e
chi non ce l’ha quando potrebbe averlo o condividerlo con gli altri.
La soluzione è nella verità e nella
giustizia
Non è nostro
compito ne siamo in grado di decidere quello che deve essere fatto sul
piano politico e militare in questo momento. Dobbiamo però portare
anche noi il nostro piccolo contributo non solo a ritrovare la verità
e la serenità prima di ogni decisione, ma anche a progettare e
realizzare una società nuova e diversa. Penso che la prima cosa sia
quella di cercare la verità al di là delle giuste e
comprensibili emozioni del primo momento. Non tutti gli islamici, non
tutti quelli che non sono occidentali sono colpevoli e responsabili di
quanto è avvenuto. In questo momento dobbiamo fare uno sforzo per
essere oggettivi, per non fare dei giudizi sommari, ma per coltivare e
promuovere invece delle relazioni fraterne e rispettose con i molti
extracomunitari che sono tra noi senza cadere in facile quanto
ingiuste generalizzazioni e senza lasciarci trasportare dalla paura e
dalla rabbia.
La vera soluzione del terrorismo sarà
nella promozione della giustizia. Gli ultimi incontri di Genova e
Durban hanno mostrato, se ce ne fosse stato bisogno,"la
complicità della politica nell’assecondare le scelte economiche
piuttosto che comprendere la necessita e l’urgenza di una azione
comune per la costruzione di una società mondiale giusta in grado in
grado di difendere i diritti umani ovunque questi siano
minacciati" (Antonio Raimondi, del VIS) e ora vediamo
"con orrore dove ci sta portando questa divaricazione tra Stati
che hanno ogni potere di decidere e popoli che sono costretti a subire
senza scegliere il loro futuro". Bisogna far tutto quello che è
possibile per spegnere questi focolai di violenza senza accenderne
altri, come ammoniva il Card. Martini qualche sera fa alla
televisione.
La globalizzazione della solidarietà
L’Occidente non
deve lasciare incancrenire i problemi internazionali senza
intervenire. Non può permettere che certi gruppi economici
approfittino delle situazioni di guerra per saccheggiare i poveri. Le
molte guerre che si combattono in Africa e nel Sud del mondo non
possono essere dette locali, se non per il fatto che sono combattute
là, ma hanno radici nel Nord del mondo. La pace è opera della
giustizia. E la giustizia passa per la condivisione dei beni nella
solidarietà. Non a caso questi avvenimenti, anche se hanno radici
che vanno molto lontano, sono accaduti in questo momento in cui più
acuta e la coscienza della globalizzazione nei suoi aspetti negativi.
Non cessiamo di ripeterlo: la
globalizzazione non è ne buona nè cattiva. Proprio per questo essa
deve essere governata in modo che non consolidi, ed ancora meno
approfondisca, la divisione del mondo in pochi ricchi con molte
risorse e in molti poveri con poche risorse. Bisogna cercare la
globalizzazione della giustizia, dei diritti economici, sociali,
politici e della solidarietà a livello internazionale. Bisogna
governare insieme questo mondo. Non tocca agli otto Grandi (G8)
pensare e, meno ancora, decidere per tutti, perché tutti hanno il
diritto e il dovere di sedersi e discutere al tavolo della famiglia
umana.
Bisogna inoltre curare l’immensa piaga
della miseria e della disperazione in modo "da togliere le
ragioni dell’odio alla manovalanza del terrorismo e fermare chi,
anche attraverso il suicidio, porta al massimo gli effetti devastanti
di azioni atroci" come quella che questa volta ha colpito gli
USA. Lo ha detto il presidente della FOCSIV.
Essere segni della divina utopia
Quanto a noi religiosi e
missionari sentiamo oggi più che mai il dovere di essere segni,
memoria e profezia del Regno, dell’utopia divina della fraternità
universale sia nel Nord che nel Sud del mondo, e in particolare, nelle
nazioni islamiche. Noi siamo destinati dalla nostra vocazione
cristiana e religiosa o missionaria, ad essere segni di una chiesa che
cerca la comunione e il dialogo e di un mondo più fraterno e
solidale. Se noi, religiosi e missionari, ripetiamo con ostinazione
queste cose non è perchè saremmo affetti da "mal d’Occidente"
o per disprezzo del mondo occidentale (come ci è stato
rimproverato in occasione del G8 di Genova da certi giornalisti malati
tanto di laicismo quanto di miopia); ma perché è sotto gli occhi di
tutti, che se l’Occidente sbaglia il passo in questo momento, non lo
ritroverà più. E’ stato scritto, giustamente, che siamo tutti
seduti sopra una polveriera e non è difficile essere profeti per
prevedere il ripetersi di tragedie come quella di questi giorni, che
potrebbero riprodursi in tante altre nazioni. Meglio che qualcuno
abbia il coraggio di dirlo ai nostri Grandi, prima che sia troppo
tardi. Anche se a dirlo sono i missionari e i religiosi.
©
TESTIMONI
8 ottobre 2001
p. Gabriele Ferrari sx
E-mail: ferrarigaby@libero.it
Como, 16 settembre 2001
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