PER NON RIPETERE LA STESSA STORIA
di p. Gabriele Ferrari sx
(già Superiore Generale dei Missionari Saveriani)

Dopo l’attacco terroristico alle Torri di New York e al Pentagono si impone una riflessione sulla pace e la guerra. Il compito che spetta all'Occidente di fronte all' "ira dei poveri". E il nostro dovere di cristiani, religiosi e missionari in questa stagione di terrorismo e paura.

 

   Quello che la televisione ci ha fatto vedere l’11 settembre e i giorni seguenti con una ripetitività ossessiva, è una visione che potrebbe essere uscita dalla mente di un regista di fantascienza, se non fosse purtroppo una tremenda realtà. Donne e uomini diventati proiettili sono stati lanciati contro altri loro concittadini per colpire e abbattere i simboli di una nazione e di un sistema, quello occidentale, fondato sul capitalismo e sulla difesa militare. Il terrorismo è purtroppo di casa da noi e ci ha abituati a stragi crudeli che, di volta in volta, deploriamo e puntualmente incassiamo nella memoria o, forse è meglio dire, nel dimenticatoio collettivo. Ma questa volta non potremo dimenticare le due torri tagliate come da una lama di fuoco che le decapita e le fa crollare. E i morti di quest’operazione? Si azzardano numeri: ventimila o cinquemila dispersi, quasi fosse una differenza insignificante dentro la mostruosità della tragedia. E quale sara il seguito?

Uno spartiacque della storia

   C’è un’affermazione che, come un ritornello, abbiamo sentito in questi giorni: dopo questo attacco alle Twin Towers di Manhattan e al Pentagono di Washington "la storia non potrà essere più la stessa". Ed è vero. Abbiamo visto cadere sicurezze ritenute assolute o quasi, ci siamo sentito improvvisamente insicuri e soli e lo choc provocato è stato tale che il mondo si è ritrovato pietrificato dalla paura. Dopo la fine della guerra fredda che aveva diviso il mondo in Est e Ovest, sembrava che tutti fossimo diventati cittadini di un mondo in pace dominato dalla prospettiva del benessere. Oggi l’illusione, perché di illusione si trattava, è svanita e ci siamo ritrovati improvvisamente schierati in due campi, il Nord e il Sud del mondo, il Nord che fa quadrato attorno agli Stati Uniti e il Sud che si trova, suo malgrado, identificato con il mondo islamico il quale, a sua volta, si sente tutto costretto nell’angolo dall’accusa di proteggere un gruppo di terroristi fanatici. E’ vero che ci sono stati dei gruppi che hanno festeggiato il massacro (dei fatti sostanzialmente isolati, ma subito strumentalizzati da chi ha interessi a scatenare la guerra), ma ora il mondo islamico deve fare i conti con le conseguenze di un gesto che non è di tutti e neppure da tutti condiviso, e prepararsi a subire il castigo collettivo.
   No, davvero la storia non potrà essere più la stessa. Riviene istintivamente alla memoria l’attentato di Sarajevo nel 1914 che ha messo in moto la prima guerra mondiale, e l’invasione della Polonia nel settembre del 1939 o l’attentato di Pearl Harbor, fatti che hanno scatenato o esteso la seconda guerra. E la paura cresce per quella che potrebbe essere la prima guerra del nuovo secolo. In futuro questo sarà l’avvenimento che caratterizzerà il passaggio al nuovo secolo. No, la storia non potrà essere più la stessa! Si è già aperto un nuovo capitolo della storia dell’Occidente e del mondo: ci eravamo abituati a cinquant’anni e più di pace e a vedere le guerre combattute altrove, come uno spettacolo tragico, ma lontano, da seguire alla televisione, come la guerra del Golfo o quella della Somalia chiamava, lo ricordate?,"Restore Hope" riportare la speranza, e che invece aveva lasciato più problemi di quanti ne avesse risolti. Come si chiamerà la prossima?

La storia non dovrà essere più la stessa!

  "La storia non potrà essere più la stessa". Ma questa amara constatazione deve trasformarsi in un impegno collettivo. Modificandola leggermente, possiamo e dobbiamo dire: "No, la storia non deve essere più la stessa!" Nessuno intende negare la responsabilità di chi ha progettato, sostenuto ed eseguito questa barbarie. Ma questa tragedia deve farci riflettere. L’odio viscerale contro gli Stati Uniti (e l’Occidente) non è nato dall’oggi al domani, non è solo un’incomprensibile quanto irriducibile opposizione all’America, come sembra dedursi da certi commenti sbrigativi sentiti in questi giorni. I problemi portati in superficie da questo gesto criminale sono la punta di un iceberg sommerso, una colossale mina vagante che presto o tardi doveva pur scoppiare e fare dei danni, sono l’emergere di una rabbia accumulata e profonda contro l’arroganza, il disprezzo e il trionfalismo con i quali noi Occidentali ci siamo comportati negli ultimi tempi nei confronti del Sud del mondo.
   Questa mina vagante deve essere onestamente identificata, riconosciuta e disinnescata. Essa è costituita dalle ingiustizie strutturali del "nuovo ordine mondiale" ereditate dalla guerra fredda, che il processo di globalizzazione economica ha fatto emergere e che ora stanno scoppiando e di cui l’attentato agli Stati Uniti non è che il primo grande segno eclatante: forse solo un inizio! Non è quindi un problema soltanto di islamici fanatici, arrabbiati contro un Occidente pagano e trasgressore, ed ancora meno il contenzioso dei Palestinesi opposti ad Israele per rivendicare il diritto alla loro terra. Le reazioni dell’Islam integrista e fondamentalista devono essere capite confrontandole con le lentezze e le tergiversazioni dell’Occidente nel risolvere i problemi politici, con la prepotenza del mondo Occidentale che impone la sua cultura umiliando sistematicamente le altre e con l’arroganza di un mondo che decide tutto per conto suo sulla pelle di stati indipendenti, ma poveri, come se questi ultimi fossero i servi dell’Occidente.

All’origine del terrorismo

   Gli stati più poveri da anni ormai vedono che la casa delle decisioni mondiali è occupata da gente che non si accorge degli altri possibili inquilini che quando questi ultimi gridano violentemente la loro rabbia. Sono intere popolazioni che si vedono negati i diritti umani più elementari, quello alla vita, alla salute, all’istruzione, alla casa, alla patria; stati che non possono fare i primi passi sulla strada di una reale indipendenza economica, perché non possono contare su un’economia, un’industria e un commercio propri, paesi che sono invece sfruttati con il pretesto che non sono in grado di governarsi; sono stati che vedono le loro forze migliori emigrare verso l’Occidente per mancanza di futuro nella loro patria, paesi che sono diventati il nuovo campo di battaglia per guerre che non sono loro.
   Gli Stati Uniti e, in generale, l’Occidente dovranno comprendere che il terrorismo è la conseguenza di una frustrazione collettiva e di un odio troppo a lungo covati, e rappresenta lo sfogo sbagliato di quella che è stata chiamata "l’ira dei poveri". E’ uno sfogo ingiusto e sbagliato, perché la violenza non può che provocare violenza. Di fatto tutti temiamo che questo attacco generi una inarrestabile spirale di violenza, come si vede in Medio Oriente.
   Ora noi vogliamo sinceramente comprendere e condividere la sofferenza e l’angoscia degli Stati Uniti e dell’Occidente. Ma dobbiamo anche domandarci le cause che hanno scatenato questo disastro e la posta in gioco che esso mette sul tavolo. Come ha scritto Antonio Giorgi su Avvenire del 15 settembre u.s. ("Ma ora Washington impari a stare al mondo") citando Chalmers Johnson, politologo americano, in questi ultimi tempi gli Stati Uniti "hanno mantenuto un atteggiamento di guerra fredda in un mondo post-guerra fredda […] Per miopia, per superbia imperiale, forse anche per un deficit congenito di capacita di aprirsi e di capire gli altri", gli Stati Uniti si sono chiusi in una forma di isolazionismo, e hanno cominciato a "inventare continuamente nuove minacce, nuovi nemici. Non importa se - fino a poco tempo prima - il nemico in carica era (il caso di Ben Ladden è eloquente) il resistente abbondantemente foraggiato ieri. Cosi nascono i" regimi criminali" e si moltiplicano gli "stati canaglia"". Tutti ricordiamo ancora il Panama di Noriega e l’Iraq di Saddam Hussein, prima ancora dell’Afganistan, dei Taleban e di Osama Ben Ladden.
   Ma c’è anche un altro pericolo, che noi missionari sentiamo con preoccupazione. Se la risposta militare all’attentato dell’11 settembre fosse esagerata e se, per il principio della legge del taglione ("occhio per occhio e dente per dente"), colpisse troppe vite umane innocenti, o imponesse sanzioni esageratamente ingiuste, come quelle contro l’Iraq che sono ancora in vigore, malgrado le ripetute richieste di levarle anche di Giovanni Paolo II, potrebbe crescere la rabbia e venire meno la fiducia nella volontà di giustizia dell’Occidente. Malgrado tutto, questa fiducia sussiste ancora, ma se tutto l’Occidente si lasciasse prendere in questa voglia di vendetta, ci sarebbe il rischio di una deriva inarrestabile. Il Terzo Mondo potrebbe imboccare una strada di cui nessuno può prevedere la fine.

Non mescolare politica e religione

   Bisogna anche evitare un altro equivoco. In questi giorni abbiamo sentito tirare in ballo la religione sia da una parte che dall’altra: gli islamici che fanno dell’opposizione all’Occidente una jihad, la guerra santa, voluta da Dio; e dall’altra parte, molti occidentali che accusano la religione del Corano come responsabile di questa guerra. Ma in tutto questo, lo si sa, Dio non deve proprio essere chiamato in causa! Si sta facendo qui una gran confusione! Purtroppo non sono mancate neppure le voci cattoliche (e autorevoli!) che affermano che "non possiamo chiedere di porgere l’altra guancia" e che imporre la non violenza evangelica "si commetterebbe un sopruso". Tutto questo ci mostra che dobbiamo identificare correttamente le responsabilità e ascoltare il Vangelo e la sana dottrina della chiesa, quella che ci è stata ricordata chiaramente dal Papa in questi ultimi giorni: non possiamo cedere alla violenza e all’odio nella risposta a questi attacchi.
   E per non mescolare indebitamente la religione a questa immane sciagura, va ricordato che il fondamentalismo islamico fiorisce come un miraggio o una speranza nelle fasce più povere e umiliate della popolazione. Non è quindi una guerra di religione, ma una guerra che nasce della frustrazione collettiva di popolazioni che si vedono messe al margine e che non hanno nulla da dire sul proprio destino. Ad esse certi intellettuali e politici islamici hanno fatto balenare l’idea che il loro futuro sarà migliore e che lo sviluppo sarà vero e pieno, quando l’Islam sarà ripristinato, quando le influenze occidentali saranno rimosse e quando la fede islamica sarà riportata alla sua purezza.
   Non confondiamo quindi le rivendicazioni di una identità culturale e di una autentica indipendenza con le ragioni religiose! Sarebbe come dire che nell’Irlanda del Nord è in atto una guerra di religione, quando tutti sanno che essa è solo il carburante che tiene accesa una guerra sociale, tra chi ha il potere e chi non ce l’ha quando potrebbe averlo o condividerlo con gli altri.

La soluzione è nella verità e nella giustizia

   Non è nostro compito ne siamo in grado di decidere quello che deve essere fatto sul piano politico e militare in questo momento. Dobbiamo però portare anche noi il nostro piccolo contributo non solo a ritrovare la verità e la serenità prima di ogni decisione, ma anche a progettare e realizzare una società nuova e diversa. Penso che la prima cosa sia quella di cercare la verità al di là delle giuste e comprensibili emozioni del primo momento. Non tutti gli islamici, non tutti quelli che non sono occidentali sono colpevoli e responsabili di quanto è avvenuto. In questo momento dobbiamo fare uno sforzo per essere oggettivi, per non fare dei giudizi sommari, ma per coltivare e promuovere invece delle relazioni fraterne e rispettose con i molti extracomunitari che sono tra noi senza cadere in facile quanto ingiuste generalizzazioni e senza lasciarci trasportare dalla paura e dalla rabbia.
   La vera soluzione del terrorismo sarà nella promozione della giustizia. Gli ultimi incontri di Genova e Durban hanno mostrato, se ce ne fosse stato bisogno,"la complicità della politica nell’assecondare le scelte economiche piuttosto che comprendere la necessita e l’urgenza di una azione comune per la costruzione di una società mondiale giusta in grado in grado di difendere i diritti umani ovunque questi siano minacciati" (Antonio Raimondi, del VIS) e ora vediamo "con orrore dove ci sta portando questa divaricazione tra Stati che hanno ogni potere di decidere e popoli che sono costretti a subire senza scegliere il loro futuro". Bisogna far tutto quello che è possibile per spegnere questi focolai di violenza senza accenderne altri, come ammoniva il Card. Martini qualche sera fa alla televisione.

La globalizzazione della solidarietà

   L’Occidente non deve lasciare incancrenire i problemi internazionali senza intervenire. Non può permettere che certi gruppi economici approfittino delle situazioni di guerra per saccheggiare i poveri. Le molte guerre che si combattono in Africa e nel Sud del mondo non possono essere dette locali, se non per il fatto che sono combattute là, ma hanno radici nel Nord del mondo. La pace è opera della giustizia. E la giustizia passa per la condivisione dei beni nella solidarietà. Non a caso questi avvenimenti, anche se hanno radici che vanno molto lontano, sono accaduti in questo momento in cui più acuta e la coscienza della globalizzazione nei suoi aspetti negativi.
   Non cessiamo di ripeterlo: la globalizzazione non è ne buona nè cattiva. Proprio per questo essa deve essere governata in modo che non consolidi, ed ancora meno approfondisca, la divisione del mondo in pochi ricchi con molte risorse e in molti poveri con poche risorse. Bisogna cercare la globalizzazione della giustizia, dei diritti economici, sociali, politici e della solidarietà a livello internazionale. Bisogna governare insieme questo mondo. Non tocca agli otto Grandi (G8) pensare e, meno ancora, decidere per tutti, perché tutti hanno il diritto e il dovere di sedersi e discutere al tavolo della famiglia umana.
   Bisogna inoltre curare l’immensa piaga della miseria e della disperazione in modo "da togliere le ragioni dell’odio alla manovalanza del terrorismo e fermare chi, anche attraverso il suicidio, porta al massimo gli effetti devastanti di azioni atroci" come quella che questa volta ha colpito gli USA. Lo ha detto il presidente della FOCSIV.

Essere segni della divina utopia

   Quanto a noi religiosi e missionari sentiamo oggi più che mai il dovere di essere segni, memoria e profezia del Regno, dell’utopia divina della fraternità universale sia nel Nord che nel Sud del mondo, e in particolare, nelle nazioni islamiche. Noi siamo destinati dalla nostra vocazione cristiana e religiosa o missionaria, ad essere segni di una chiesa che cerca la comunione e il dialogo e di un mondo più fraterno e solidale. Se noi, religiosi e missionari, ripetiamo con ostinazione queste cose non è perchè saremmo affetti da "mal d’Occidente" o per disprezzo del mondo occidentale (come ci è stato rimproverato in occasione del G8 di Genova da certi giornalisti malati tanto di laicismo quanto di miopia); ma perché è sotto gli occhi di tutti, che se l’Occidente sbaglia il passo in questo momento, non lo ritroverà più. E’ stato scritto, giustamente, che siamo tutti seduti sopra una polveriera e non è difficile essere profeti per prevedere il ripetersi di tragedie come quella di questi giorni, che potrebbero riprodursi in tante altre nazioni. Meglio che qualcuno abbia il coraggio di dirlo ai nostri Grandi, prima che sia troppo tardi. Anche se a dirlo sono i missionari e i religiosi.

© TESTIMONI 8 ottobre 2001
p. Gabriele Ferrari sx
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Como, 16 settembre 2001