Poco dopo l'attacco alle Twin
Towers diversi commentatori han cominciato a chiedersi quali
potrebbero essere le sue conseguenze sul processo di globalizzazione.
Ora che è iniziata la guerra, oggi in Afghanistan domani chissà, il
medesimo interrogativo si ripropone con maggior forza. Finora le
risposte convergono su una singola interpretazione. Si constata
ovviamente che la lotta al terrorismo ha imposto l'adozione di severe
misure di sicurezza, mentre ovunque nel mondo si diffonde la paura di
attentati. Si prosegue notando che le une e l'altra ostacolano
notevolmente gli intensi e scorrevoli flussi a largo raggio di
persone, merci e informazioni in cui la globalizzazione consiste. Per
concludere che se tali ostacoli dovessero protrarsi a lungo, il
processo di globalizzazione potrebbe arrestarsi o degradare, e molte
popolazioni ne soffrirebbero.
A tale interpretazione è sottesa l'ipotesi che quando gli attentati e
la guerra avranno termine, e saranno rimossi gli ostacoli da essi
derivanti alla fluida circolazione nel mondo di persone, informazioni
e merci, il processo di globalizzazione riprenderà tranquillamente il
suo corso. Un'ipotesi cui conviene opporne un'altra: che la
globalizzazione, così come è stata finora concepita e realizzata,
sia un progetto contenente tali difetti strutturali da rendere
inevitabile, a medio periodo se non prima, il suo arresto o un suo
degrado. Agli occhi e ai sentimenti di chi per caso non li avesse
notati prima, gli attentati e la guerra hanno fatto di colpo risaltare
i difetti insiti nel progetto, ma – a parte che nessuno può dire
quanto a lungo tali sciagure dureranno – non sono affatto le cause
prime del suo malfunzionamento. E' questo uno dei motivi che
alimentano le riflessioni sulla "global vulnerability", che
in ogni caso non sono cominciate il 12 settembre, né sono dovute
unicamente ad avversari preconcetti della globalizzazione.
I vizi di fondo del progetto chiamato
globalizzazione sono da vedere soprattutto nell'aver puntato a
costruire sistemi sociali e tecnologici che debbono essere per forza
giganteschi, estesi a ogni angolo del pianeta con le stesse identiche
modalità, e impeccabilmente funzionanti 24 ore su 24, 7 giorni su 7.
Si è puntato cioè a fare del mondo una sorta di gigantesco orologio,
automatico, superpreciso e, manco a dirlo, "satellite controlled".
Disegnato con un simile proposito, esso reca in sé i caratteri di una
crescente vulnerabilità. L'orologio si può fermare più o meno a
lungo per un attentato o una guerra, ma questi sono, per quanto
terribili, solamente alcuni degli incidenti a cui il mondoorologio è
esposto. Le cause di molti altri guasti possibili si trovano dentro il
suo meccanismo, non fuori.
Sistemi di trasporto di merci e persone, sistemi di comunicazione,
sistemi produttivi, con le loro componenti sociali e tecnologiche:
più si globalizzano, più tendono a diventare vulnerabili. Una prima
causa di vulnerabilità è identificabile nel fatto che qualsiasi
sistema sociotecnico è formato necessariamente da tanti pezzi, ovvero
da una molteplicità di sottosistemi. A mano a mano che i sottosistemi
diventano più numerosi, perché si vuole che il sistema che li
comprende arrivi a coprire tutto il globo, aumenta la probabilità che
tra di essi ve ne sia qualcuno che funziona male, o si rompe. Oppure
che saltino i collegamenti tra l'uno e l'altro. In ambedue i casi
l'intero sistema può andare in crisi, e mandarne subito in crisi
altri. Si veda il caso ineffabile della new economy, di cui si diceva
che fosse il dominio del clic, dell'immateriale, del virtuale. Salvo
scoprire che se per qualche motivo si inceppa, o dovesse incepparsi,
il materialissimo sistema di 653 aeroplani, 43.500 veicoli, e 148.000
operai e impiegati di un'impresa di trasporti tipo la Federal Express
(dati di inizio 2000), nessuna merce e nessun servizio, per quanto si
clicchi, entra o esce da alcuna unità produttiva.
Una seconda causa di vulnerabilità dei sistemi globali è la perdita
della capacità di adattamento ai mutamenti locali, di qualsivoglia
natura: sociali, economici, ambientali. Essa consegue sia dalla
riduzione della varietà della natura e dei comportamenti che i
costruttori di sistemi globali tenacemente perseguono, sia dalla
perdita di autonomia decisionale che i soggetti locali subiscono
perché i centri di decisione sono stati trasferiti altrove. In ampie
regioni del globo, Europa compresa, i sistemi economici locali sono
stati decostruiti e poi ricostruiti in un modo tale che le decisioni
attinenti i modi di produrre beni d'uso o alimenti, l'occupazione, i
consumi, la distribuzione della popolazione sul territorio, che un
tempo erano prese sul luogo da artigiani, piccoli imprenditori,
coltivatori, amministratori locali, sono ora prese da qualcuno che sta
a migliaia di chilometri di distanza. Un decisore lontano non è
necessariamente un decisore malvagio. E' però un decisore al quale
della regione in cui le sue decisioni ricadranno importa probabilmente
poco, non foss'altro perché nel suo ordine di priorità globali
quella regione occupa magari il decimo posto. Nel migliore dei casi
finirà per prendere decisioni tardive o inadeguate.
V'è un paradosso nei sistemi globali: alcuni di
essi sono stati sviluppati con il preciso scopo di ridurre la
vulnerabilità dei processi sociali o tecnologici che ne sono alla
base. Esemplare è il caso di Internet, divenuta ormai il principale
sistema di comunicazione a fini scientifici ed economici, per vari
aspetti modello di tutti i sistemi globali. La sua antenata, Arpanet,
fu creata nel 1969 al fine di evitare che la comunicazione tra
elaboratori elettronici potesse essere interrotta da atti di
sabotaggio o da un attacco nucleare. Se il computer A è collegato con
una sola linea al computer B, un colpo di forbici alla linea, reale o
figurato, gli impedirà di comunicare con B. Ma se A e B sono
collegati in rete con C, D, ecc., un dato messaggio troverà sempre la
strada per arrivare da A a B. La rete rendeva così invulnerabile la
comunicazione. All'inizio Arpanet constava di quattro soli computer,
diventati faticosamente una trentina nel 1971. Oggi i computer
collegati tramite Internet sono diventati centinaia di milioni. La
comunicazione tra di loro continua ad essere invulnerabile? C'è
qualche motivo per dubitarne. Infatti l'enorme aumento del traffico di
dati ha reso necessaria la posa di cavi transoceanici in fibra ottica,
tra Europa, Americhe ed Estremo Oriente, attraverso i quali passa la
maggior parte dei dati di rilevanza scientifica ed economica. Questi
cavi sono pochi, meno di una dozzina per stare ai più importanti;
quindi i sistemi di comunicazione che ne dipendono sono
intrinsecamente vulnerabili. Inoltre i pc collegati a Internet
funzionano in forza di tre soli sistemi operativi (Windows, Mac Os e
Linux), il primo dei quali è presente in circa il 90% dei pc. Quando
i pc se ne stavano da soli, questa poteva essere una gran comodità.
Ma ora che sono quasi tutti in rete, il ridottissimo numero di sistemi
operativi facilita grandemente lo sviluppo e la diffusione di virus
informatici.
Oltre ai dolori che hanno recato e recheranno, la
tragedia americana e la guerra ci stanno facendo toccare con mano che
cosa significhi la vulnerabilità globale. Essa comporta sin da ora
costi umani addizionali, come una decina di milioni di nuovi poveri,
quelli che vivono con meno di un dollaro al giorno. Potrebbe essere
giunto il momento per cercare di comprendere perché il mondo sembra
rifiutarsi di funzionare come un orologio. E per provare eventualmente
a cambiare disegno.
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