Com'è vulnerabile il mondo globalizzato

Luciano Gallino
La Repubblica, 21 ottobre 2001

 
    Poco dopo l'attacco alle Twin Towers diversi commentatori han cominciato a chiedersi quali potrebbero essere le sue conseguenze sul processo di globalizzazione. Ora che è iniziata la guerra, oggi in Afghanistan domani chissà, il medesimo interrogativo si ripropone con maggior forza. Finora le risposte convergono su una singola interpretazione. Si constata ovviamente che la lotta al terrorismo ha imposto l'adozione di severe misure di sicurezza, mentre ovunque nel mondo si diffonde la paura di attentati. Si prosegue notando che le une e l'altra ostacolano notevolmente gli intensi e scorrevoli flussi a largo raggio di persone, merci e informazioni in cui la globalizzazione consiste. Per concludere che se tali ostacoli dovessero protrarsi a lungo, il processo di globalizzazione potrebbe arrestarsi o degradare, e molte popolazioni ne soffrirebbero.
A tale interpretazione è sottesa l'ipotesi che quando gli attentati e la guerra avranno termine, e saranno rimossi gli ostacoli da essi derivanti alla fluida circolazione nel mondo di persone, informazioni e merci, il processo di globalizzazione riprenderà tranquillamente il suo corso. Un'ipotesi cui conviene opporne un'altra: che la globalizzazione, così come è stata finora concepita e realizzata, sia un progetto contenente tali difetti strutturali da rendere inevitabile, a medio periodo se non prima, il suo arresto o un suo degrado. Agli occhi e ai sentimenti di chi per caso non li avesse notati prima, gli attentati e la guerra hanno fatto di colpo risaltare i difetti insiti nel progetto, ma – a parte che nessuno può dire quanto a lungo tali sciagure dureranno – non sono affatto le cause prime del suo malfunzionamento. E' questo uno dei motivi che alimentano le riflessioni sulla "global vulnerability", che in ogni caso non sono cominciate il 12 settembre, né sono dovute unicamente ad avversari preconcetti della globalizzazione.


    I vizi di fondo del progetto chiamato globalizzazione sono da vedere soprattutto nell'aver puntato a costruire sistemi sociali e tecnologici che debbono essere per forza giganteschi, estesi a ogni angolo del pianeta con le stesse identiche modalità, e impeccabilmente funzionanti 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Si è puntato cioè a fare del mondo una sorta di gigantesco orologio, automatico, superpreciso e, manco a dirlo, "satellite controlled". Disegnato con un simile proposito, esso reca in sé i caratteri di una crescente vulnerabilità. L'orologio si può fermare più o meno a lungo per un attentato o una guerra, ma questi sono, per quanto terribili, solamente alcuni degli incidenti a cui il mondoorologio è esposto. Le cause di molti altri guasti possibili si trovano dentro il suo meccanismo, non fuori.
Sistemi di trasporto di merci e persone, sistemi di comunicazione, sistemi produttivi, con le loro componenti sociali e tecnologiche: più si globalizzano, più tendono a diventare vulnerabili. Una prima causa di vulnerabilità è identificabile nel fatto che qualsiasi sistema sociotecnico è formato necessariamente da tanti pezzi, ovvero da una molteplicità di sottosistemi. A mano a mano che i sottosistemi diventano più numerosi, perché si vuole che il sistema che li comprende arrivi a coprire tutto il globo, aumenta la probabilità che tra di essi ve ne sia qualcuno che funziona male, o si rompe. Oppure che saltino i collegamenti tra l'uno e l'altro. In ambedue i casi l'intero sistema può andare in crisi, e mandarne subito in crisi altri. Si veda il caso ineffabile della new economy, di cui si diceva che fosse il dominio del clic, dell'immateriale, del virtuale. Salvo scoprire che se per qualche motivo si inceppa, o dovesse incepparsi, il materialissimo sistema di 653 aeroplani, 43.500 veicoli, e 148.000 operai e impiegati di un'impresa di trasporti tipo la Federal Express (dati di inizio 2000), nessuna merce e nessun servizio, per quanto si clicchi, entra o esce da alcuna unità produttiva.
Una seconda causa di vulnerabilità dei sistemi globali è la perdita della capacità di adattamento ai mutamenti locali, di qualsivoglia natura: sociali, economici, ambientali. Essa consegue sia dalla riduzione della varietà della natura e dei comportamenti che i costruttori di sistemi globali tenacemente perseguono, sia dalla perdita di autonomia decisionale che i soggetti locali subiscono perché i centri di decisione sono stati trasferiti altrove. In ampie regioni del globo, Europa compresa, i sistemi economici locali sono stati decostruiti e poi ricostruiti in un modo tale che le decisioni attinenti i modi di produrre beni d'uso o alimenti, l'occupazione, i consumi, la distribuzione della popolazione sul territorio, che un tempo erano prese sul luogo da artigiani, piccoli imprenditori, coltivatori, amministratori locali, sono ora prese da qualcuno che sta a migliaia di chilometri di distanza. Un decisore lontano non è necessariamente un decisore malvagio. E' però un decisore al quale della regione in cui le sue decisioni ricadranno importa probabilmente poco, non foss'altro perché nel suo ordine di priorità globali quella regione occupa magari il decimo posto. Nel migliore dei casi finirà per prendere decisioni tardive o inadeguate.


    V'è un paradosso nei sistemi globali: alcuni di essi sono stati sviluppati con il preciso scopo di ridurre la vulnerabilità dei processi sociali o tecnologici che ne sono alla base. Esemplare è il caso di Internet, divenuta ormai il principale sistema di comunicazione a fini scientifici ed economici, per vari aspetti modello di tutti i sistemi globali. La sua antenata, Arpanet, fu creata nel 1969 al fine di evitare che la comunicazione tra elaboratori elettronici potesse essere interrotta da atti di sabotaggio o da un attacco nucleare. Se il computer A è collegato con una sola linea al computer B, un colpo di forbici alla linea, reale o figurato, gli impedirà di comunicare con B. Ma se A e B sono collegati in rete con C, D, ecc., un dato messaggio troverà sempre la strada per arrivare da A a B. La rete rendeva così invulnerabile la comunicazione. All'inizio Arpanet constava di quattro soli computer, diventati faticosamente una trentina nel 1971. Oggi i computer collegati tramite Internet sono diventati centinaia di milioni. La comunicazione tra di loro continua ad essere invulnerabile? C'è qualche motivo per dubitarne. Infatti l'enorme aumento del traffico di dati ha reso necessaria la posa di cavi transoceanici in fibra ottica, tra Europa, Americhe ed Estremo Oriente, attraverso i quali passa la maggior parte dei dati di rilevanza scientifica ed economica. Questi cavi sono pochi, meno di una dozzina per stare ai più importanti; quindi i sistemi di comunicazione che ne dipendono sono intrinsecamente vulnerabili. Inoltre i pc collegati a Internet funzionano in forza di tre soli sistemi operativi (Windows, Mac Os e Linux), il primo dei quali è presente in circa il 90% dei pc. Quando i pc se ne stavano da soli, questa poteva essere una gran comodità. Ma ora che sono quasi tutti in rete, il ridottissimo numero di sistemi operativi facilita grandemente lo sviluppo e la diffusione di virus informatici.


   Oltre ai dolori che hanno recato e recheranno, la tragedia americana e la guerra ci stanno facendo toccare con mano che cosa significhi la vulnerabilità globale. Essa comporta sin da ora costi umani addizionali, come una decina di milioni di nuovi poveri, quelli che vivono con meno di un dollaro al giorno. Potrebbe essere giunto il momento per cercare di comprendere perché il mondo sembra rifiutarsi di funzionare come un orologio. E per provare eventualmente a cambiare disegno.