Giuristi contro la guerra

 Dopo oltre due settimane di guerra tutto è diventato più chiaro.
L’orrore e la barbarie che hanno devastato New York e Washington non hanno giustificazioni. Non c’è dio, non c’è politica, non c’è progetto di emancipazione senza rispetto e pietà per l’uomo. Anche per questo gli attentati terroristici richiedono una reazione ferma, efficace e priva di distinguo e incertezze: sul piano culturale, politico, economico ed anche su quello repressivo.
Ma la reazione non può essere la guerra: non dobbiamo temere di dire forte che la guerra porta come conseguenza altra guerra, che le bombe sull’Afghanistan colpiranno con effetti indiscriminati e devastanti migliaia di donne, uomini, vecchi e bambini (non certo risparmiati, come gli eventi dei primi giorni già stanno dimostrando, dai cd bombardamenti selettivi), che si stanno già creando masse ingenti di disperati privi di qualsiasi assistenza, che richiedono rifugio e vengono respinti e che la prova di forza finirà per essere deleteria perché compatterà ancor più gli integralismi. Non possiamo assistere in silenzio all’inizio delle operazioni militari contro l’Afghanistan (destinate – secondo le dichiarazioni dei suoi protagonisti – ad estendersi anche contro altri Paesi). Non possiamo farlo proprio come giuristi: perché il fine del diritto è quello di risolvere i conflitti tra gli uomini, evitando che ogni controversia finisca necessariamente in una guerra, privata o collettiva che sia; e perché anche quando la guerra viene accettata come “male minore” l’ordinamento internazionale e quelli interni la ancorano a princìpi rigorosi e indefettibili: non per inutile formalismo ma per la consapevolezza della sua gravità ed eccezionalità.

La guerra iniziata il 7 ottobre 2001 dagli Stati Uniti e dalla Nato (supportati da alcuni paesi anche arabi) non ha i requisiti di legittimità richiesti dall’ordinamento internazionale. L’attacco aereo contro il World Trade Center non è, infatti, definibile come “atto di guerra”, cioè come aggressione di uno Stato contro un altro Stato, e ciò osta all’uso legittimo della guerra come strumento di legittima difesa da parte dello Stato aggredito. In ogni caso, anche ove l’atto terroristico potesse essere considerato “atto di guerra”, l’art.42 dello Statuto delle Nazioni Unite prevede che - esauriti gli interventi di autotutela, legittimamente realizzabili di fronte ad un “attacco in corso” - solo il Consiglio di Sicurezza può intraprendere “con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale” e nessuna decisione in tal senso è stata assunta dal Consiglio di sicurezza prima dell’inizio dell’azione militare, tali non essendo, all’evidenza, la risoluzione n. 1368 (che, dopo aver riconosciuto agli Stati Uniti il diritto di autotulela, ha statuito l’obbligo di tutti gli Stati di perseguire con la massima urgenza i responsabili di atti di terrorismo e dichiarato che gli Stati che danno rifugio o protezione ai terroristi saranno considerati responsabili di tali comportamenti) e la risoluzione n. 1373 (che ha adottato una serie di misure volte a prevenire e a stroncare il terrorismo, prevedendo “fra l’altro” il congelamento dei fondi e di ogni risorsa economica che possa essere usata dai terroristi e l’obbligo di tutti gli Stati di cooperare e scambiarsi le informazioni necessarie ed utili per la repressione del terrorismo). L’art.5 dello Statuto della Nato, a sua volta, consente ed impone l’intervento ai Paesi membri dell’alleanza solo quando uno degli aderenti sia oggetto di “attacco esterno”. Per quanto riguarda l’Italia, poi, la situazione non è cambiata rispetto al quadro delineato al tempo della guerra in Kosovo. La partecipazione italiana all’operazione Enduring Freedom è una azione di guerra che la nostra Costituzione ammette solo come strumento di difesa (art.11) e previa formale delibera dello stato di guerra da parte delle Camere (art.78) e sua dichiarazione da parte del Presidente della Repubblica (art.87) (procedure, ad oggi, non intervenute e neppure attivate).

Respingere la guerra non significa accettare la barbarie ed assistere rassegnati alle stragi terroristiche: significa al contrario mettere in campo, in modo convinto ed autorevole, l’ONU e le istituzioni internazionali. A tal fine è assolutamente necessario che l'ONU si riappropri della funzione di mantenimento della pace tra i popoli e di risoluzione pacifica delle controversie internazionali che la Carta prevede come ragion d'essere dell'Organizzazione, mentre l'uso della forza è consentito solo come extrema ratio dopo che ogni altro tentativo sia risultato vano.
Troppo spesso, per il prevalere di uno o più Stati, l'ONU ha abdicato a questo ruolo, essenziale per sperare in una civile convivenza tra i popoli e, in dispregio delle norme pattizie, ha omesso di svolgere il proprio ruolo istituzionale: ciò è avvenuto, ad esempio, per la questione palestinese, che andava e va risolta soddisfacendo i legittimi diritti di tutte le parti coinvolte, secondo il principio “Due popoli, due Stati”, come già affermato in numerose e inapplicate risoluzioni dell’ONU.
Si pone, comunque, il problema di una riforma dell’ONU che garantisca il recupero della credibilità, efficienza, rappresentatività e democraticità dei suoi organi, a partire dal Consiglio di Sicurezza, (a cui, nell’attuale composizione, è devoluta in via esclusiva ogni decisione sul ricorso alla forza), non più ristretto, nella composizione permanente, a pochi Stati portatori di specifici interessi economici e di istanze di superati equilibri politici.
Ed ancora appare ineludibile l'entrata in vigore della Corte Penale Internazionale, per la quale mancano ancora significative ratifiche, tra cui quelle della Cina, degli Stati Uniti, dotata di maggiore autonomia ed imparzialità dei Tribunali ad hoc sino ad oggi costituiti, e capace di giudicare, sia pure in via complementare ai singoli Stati, nell'interesse di una comunità internazionale resa uguale dal riconoscimento di un comune diritto e di una precostituita autorità giurisdizionale, dei crimini di guerra come gli attentati di New York e Washington.

La titolarità del potere di decidere e realizzare interventi sul piano internazionale – lo abbiamo già ricordato in occasione della guerra nel Kosovo - non è questione formale o secondaria, anche perché ad essa si legano i modi dell’operazione, le forze in essa coinvolte, la possibilità di aggregare consensi non forzati.
Vale per le questioni internazionali lo stesso principio del diritto interno secondo cui non sono lecite giustizie private. È l’eterno problema delle regole e delle garanzie. Come nel diritto interno il garantismo autentico non è uno strumento per assicurare impunità a chi delinque, così nel diritto internazionale esso non è la scappatoia per consentire a terroristi e autori di crimini internazionali di continuare nella loro attività e di sfuggire alla punizione: esso è il metodo (pur a volte difficile) per assicurare una convivenza giusta, per evitare il prevalere della forza sulla ragione e per non offrire ai terroristi terreno di coltura e di consenso. Di ciò, a livello internazionale, non può essere garante altri che l’ONU, ed è irresponsabile emarginarlo e indebolirlo per ragioni di convenienza politica contingente.
E diciamo questo nella consapevolezza dell’assoluta rilevanza delle regole, pur consci che, per la risoluzione dei conflitti, occorra farsi carico di tutta una serie di altri problemi, quale quello economico, per affrontare la gravità e la drammaticità di simili eventi.
Chiediamo per questo a tutti i giuristi di far sentire la loro voce perché la guerra sia bloccata, il diritto alla vita di persone innocenti sia salvaguardato e si riaffermi il diritto internazionale.

16 ottobre 2001
Umberto Allegretti (Università Firenze)
Angelo Caputo (magistrato, Roma)
Mario Dogliani (università Torino)
Luigi Ferrajoli (università Camerino)
Gianni Ferrara (Università di Roma)
Domenico Gallo (magistrato, Roma)
Maria Grazia Giammarinaro (magistrato, Roma)
Franco Ippolito (magistrato, Corte di cassazione)
Roberto Lamacchia (avvocato, Torino, coordinatore Ass. Giuristi democratici)
Raniero La Valle
Giovanni Palombarini (magistrato, Corte cassazione)
Livio Pepino (magistrato, Torino, presidente Magistratura democratica)
Lorenzo Trucco (avvocato, Torino, presidente Asgi)
Danilo Zolo (Università Firenze)