D.:
Molti commentatori hanno detto,
nel giorno degli attentati che hanno colpito New York e Washington,
che "stava cominciando il XXI secolo". Cosa ne pensa lei
che, nel 1999, aveva detto "il secolo breve si è concluso con
una crisi di tutti i sistemi, non semplicemente con il crollo del
comunismo"?
R.:Vorrei evitare di immergermi nel lago della retorica
emotiva che ci inonda da giorni e giorni. L'idea che tutto sarebbe
cambiato dopo l'attentato di New York, l'idea che da oggi bisognerebbe
perseguire una specie di supercriminale mondiale - grazie a qualcuno
tipo James Bond - l'idea che bisognerebbe ristabilire la giustizia...
tutto ciò non è serio. La realtà non ha nulla a che vedere con le
frasi fatte tipo "una guerra che non sarebbe veramente una
guerra", senza che si sappia davvero contro chi e contro cosa
farla. E' importante mantenere un certo equilibrio mentale davanti
all'enorme ondata di propaganda che arriva dagli Stati uniti. Gli
attentati di New York e Washington sono l'esito straordinario di un
fenomeno che non è veramente nuovo, se si conosce il terrrorismo
internazione che opera al di là e oltre le frontiere. Ciò non vuol
dire - anzi, al contrario - che non bisogna far nulla: si tratta di
difendere, in un certo senso, l'ordine internazionale contro questo
tipo di minacce. Cosa che, en passant, non ha nulla a che vedere con
l'ideologia - né quella occidentale né qualunque altra - fin che ne
va dell'interesse di tutti gli stati del mondo, compresa la Russia, la
Cina, Cuba... Finora la conseguenza più importante degli attentati
americani ha riguardato l'economia mondiale, con l'affondamento delle
piazze finanziarie. Certo questa situazione non è dovuta alla
distruzione del World Trade Center. Il mondo era già sull'orlo della
recessione: gli attentati l'hanno accelerata e, si può dire,
cristallizzata.
D.: Lei ha suggerito che il terrorismo richiedeva una
risposta. Di che tipo?
R.: Un'altra questione in cui si tratta di liberarsi dalla
retorica. In fondo, da una trentina d'anni sono cambiate le relazioni
tra il potere degli stati, comprese le superpotenze, e le attività
all'interno degli stati. Gli stati più importanti - di fatto dalla
guerra fredda - hanno perso il monopolio delle forze di coercizione.
Tutti, o quasi, possono utilizzare armi, persino un esercito. E
persino negli stati molto stabili - penso alla Gran Bretagna, agli
Stati uniti, alla Spagna... - queste forze ci sono, anche se
relativamente deboli, incapaci di incidere davvero nella realtà di
quegli stati, figurarsi gli stati più modesti. Ma non è realistico
pensare di dimostrare che pure lo stato con il più potente esercito
potrebbe sparire con un colpo di bacchetta magica grazie a quei gruppi
e a quelle persone. Bisogna viverci insieme, controllare senza dubbio
la situazione con forze militari, ma non si tratta di
"altri" che si possono eliminare senza problemi. Abbiamo a
che fare con problemi politici e sociali che bisogna affrontare
militarmente ma anche politicamente.
D.: Vuol dire che il mondo è "dovunque", che
nessuno, cittadino o gruppo o stato, può tenersi isolato dal mondo?
R.: E' così. Viviamo in un mondo globalizzato, dove il
tempo e lo spazio sono praticamente aboliti, un mondo con flussi così
liberi da rendere molto più facili eventi come quello americano. La
circolazione delle persone da un oceano all'altro, attraverso i
continenti, è il fondamento dell'esistenza del mondo d'oggi. Ancora
una volta, bisogna viverci, sforzandosi di controllare gli aspetti
insopportabili di questo fenomeno, il terrorismo internazionale, le
mafie, il mercato della droga, che sono i "figli" della
globalizzazione. Nell'economia di mercato, solo i soldi contano....
D.: Ne "Il secolo breve" lei sostiene che lo
sviluppo capitalistico trascina il mondo verso un'implosione o
un'esplosione, e che se il rischio di una guerra mondiale sembrava
evitato, l'umanità era di fronte a immensi problemi - democrafici,
ecologici, economici, politici, intellettuali - tra cui la crescita
del fanatismo e dell'irrazionalismo. Ciò che è successo la porta a
rimodulare, precisare o riconsiderare queste considerazioni?
R.: Penso che questa analisi resti valida. Gli attentati di
New York non la modificano. Una guerra mondiale, diciamo tradizionale,
mi sembra impossibile salvo, forse un giorno, tra Stati uniti e Cina.
Ma oggi non è all'ordine del giorno. Quanto alle guerre territoriali
"medie" non sono mai finite, soprattutto in Medio Oriente o
nell'Asia del sud. Quando a Washington, a Londra e forse a Parigi oggi
si parla di guerra contro chissà chi, non s'intende una vera guerra
"all'antica", ma operazioni d'altro tipo. La questione nuova
che abbiamo di fronte è l'esistenza di stati indipendenti e sovrani:
fino a che punto possono esistere di fronte a stati più grandi? E'
ormai possibile eliminare uno stato - l'Afghanista, per esempio -
senza che ci sia una guerra mondiale. La pressione che uno stato
egemonico può esercitare su un vicino meno importante è ormai
considerevole. E' un fenomeno piuttosto nuovo, contenuto dal
bipolarismo al tempo della guerra fredda, cresciuto dopo la caduta del
comunismo. Non c'è ormai che una sola potenza egemonica e, anche se
io penso che gli Stati uniti non siano in grado di dominare il mondo -
come nessun'altra superpotenza - hanno una libertà di cui nessun
paese ha mai goduto in passato. La seconda crisi che sembra iniziare a
profilarsi riguarda il fatto che rispunta la questione
dell'imperialismo, o piuttosto del colonialismo. E' forse la più
grande novità dell'era post-sovietica. Ci sono paesi occupati la cui
politica interna è controllata da eserciti stranieri: come chiunque
sa, è il caso dei Balcani. Si parla ora della destituzione del regime
in Afghanistan - cosa persino sperabile - ma di rimpiazzarlo con un
regime provvisorio sotto il controllo Onu: come, dopo il 1918, le
nuove colonie furono mascherate da "mandati" sotto il
controllo della Società delle Nazioni.
D.: Che rischi comporta questa scelta?
R.: Il rischio più grande - accertato da una dozzina d'anni
- è che l'occupazione coloniale non basta più. In Bosnia, in Kosovo,
in Macedonia la nuova occupazione non genera la scontata stabilità
interna.
D.: Perché afferma che "la superpotenza americana non
sarà in grado di dominare il mondo"?
R.: Il mondo è troppo grande, troppo complesso.
D.: L'illusione che questa superpotenza fosse in grado di
governare tutto il pianeta comunque resiste, anche in Europa?
R.: Più che mondiale, è un'illusione americana. I
governanti degli Stati uniti, io credo, sono stati troppo trionfalisti,
fino al World Trade Center. Si sono creduti onnipotenti, lontani da
ogni pericolo. Nel XIX secolo, quando l'impero britannico esercitava
un'egemonia mondiale, i governanti inglesi erano più realisti,
sufficentemente intelligenti da non avere l'ambizione di controllare
tutto, da sapere che il massimo che si potesse fare era manipolare la
situazione in nodo da conservare il proprio potere. Ricordando che non
si poteva dominare l'Europa, né le Americhe... Temo non ci sia
abbastanza tempo - non è un giudizio di valore - perché la nuova
potenza egemonica impari i limiti delle sue capacità d'influenza in
un mondo così complicato, in permanente trasformazione come il
nostro.
D.: Lei parla di risoluzione dei conflitti sul terreno
politico...
R.: Gli Stati uniti dovrebbero ripensare ciò che possono
fare. Del resto non credo che siano le relazioni tra gli stati ad
essere troppo problematiche - e anche se lo sono, poco dipende dalla
loro soluzione. Il problema è sul fronte delle grandi strutture che
sono dietro agli stati - e dentro gli stati - e che domineranno il
mondo nei prossimi decenni. Penso all'economia e alla dialettica tra
l'economia e i governi. Per la prima volta da molto tempo l'economia
mondiale è in recessione. Ma in questa incertezza crescono le
ineguaglianze tra i paesi, e all'interno di ogni paese. Quando si
parla di "crisi dell'economia" si intendono cose assai
differenti a seconda se si tratti di paesi ricchi, o benestanti,
stabili, poveri e "intermediari" (come il Brasile,
l'Argentina, la Corea...). In un paese come l'Argentina, ad esempio,
una crisi economica provocherebbe quasi immediatamente una crisi
politica drammatica. E' poco probabile che, se anche l'Europa fosse
colpita, le conseguenze sarebbero così tragiche per paesi come la
Francia, la Gran Bretagna e la Germania. L'altro problema è
ideologico: c'è una sconfitta delle antiche ideologie di
mobilitazione dei popoli, fondati sulla tradizione illuminista e delle
grandi rivoluzioni - l'americana, la francese, la russa... Ben al di
là della sinistra, la crisi coinvolge tutta la tradizione che risale
al razionalismo, alle speranze e ai progetti politici del XVIII
secolo, cosa che lascia uno spazio enorme ad altre forze. Non penso
solo a quel che avviene nel mondo musulmano ma, in misura minore, a
quel che si osserva nel nostro paese: la xenofobia, ad esempio.
L'altro aspetto di questa crisi è che l'ideologia del laisser
faire ha conquistato gran parte degli stati e delle istituzioni
internazionali, con risultati assolutamente funesti. A cominciare
dall'aver facilitato le attività transnazionali, terroriste e
criminali comprese. Parodossalmente è qui che vedo una piccola luce
di speranza. Gli attentati di New York e Washington hanno tragicamente
dimostrato che la libertà totale del mercato e la circolazione di
denaro non ha consentito di controllare ciò che ha messo in pericolo
gli Stati uniti. Ho sentito Lionel Jospin dire che non si poteva
lasciare senza controlli il mercato dei cambi, e ha suggerito di
raccogliere il suggerimento dell'economista keynesiano James Tobin.
Oggi, di fronte ai rischi di una fragorosa caduta delle piazze
finanziarie, sono i governi - compreso quello degli Stati uniti - che
cominciano a preoccuparsi di controlli e regole, di una ingerenza
pubblic
a, cosa che le ideologie liberiste hanno rifiutate di pensare per
vent'anni. Comincio dunque a credere nella possibilità di ostacolare
le violenze dell'ideologia del mercato "duro e puro".
D.: Ne "Il secolo breve" lei propone una storia
davvero mondiale, che non si limiti allo scontro tra le grandi potenze
ma che, con il mostrare quel che avviene in Siria, Brasile o Africa
del sud, possa mostrarci le "tendenze" di un'epoca. Quali
situazioni, quali eventi - pur sapendo che l'attualità non è
necessariamente tutto il presente - catturano la sua attenzione ora?
R.: Ciò che mi interessa e mi preoccupa ora è la sorte di
quattro regioni. Prima di tutto l'India dove c'è, da un lato, la
salita vertiginosa dell'economia ma anche della potenza intellettuale,
che sono state e restano largamente sottostimate. Dall'altro lato c'è
lo slancio di un induismo integralista e emarginante, antimusulmano,
antirazionalista, antisecolare, antilaico e reazionario se non
fascistizzante, nella politica interna. Poi, la Cina: sarà pure un
gigante economico, se non il gigante economico di questo secolo. Il
suo futuro è promettente, ma nessuno sa ciò che diventerà. Terza
questione, le regioni tragiche, cioé l'Africa sub sahariana, ma anche
i paesi dell'ex Urss: lì c'è un dramma economico, sociale,
intellettuale che in occidente non si valuta nella giusta misura. La
crisi attuale dell'agricoltura russa, ad esempio, supera quella
dell'agricoltura sovietica dopo la collettivizzazione. In ultimo, le
regioni incerte come l'Europa, il cui avvenire resta oscuro: l'unica
cosa chiara è che l'antico progetto europeo è in un vicolo cieco.
Ecco le regioni del mondo che mi sembrano oggi più interessanti.
Sapendo che, come dicono i cinesi, non si dovrebbe vivere in un'epoca
interessante...
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