Giù dalle torri
Intervista a Hobsbawm

 
di Jean Paul Monferran
Il manifesto, 28/9/01

 

D.: Molti commentatori hanno detto, nel giorno degli attentati che hanno colpito New York e Washington, che "stava cominciando il XXI secolo". Cosa ne pensa lei che, nel 1999, aveva detto "il secolo breve si è concluso con una crisi di tutti i sistemi, non semplicemente con il crollo del comunismo"?

R.:Vorrei evitare di immergermi nel lago della retorica emotiva che ci inonda da giorni e giorni. L'idea che tutto sarebbe cambiato dopo l'attentato di New York, l'idea che da oggi bisognerebbe perseguire una specie di supercriminale mondiale - grazie a qualcuno tipo James Bond - l'idea che bisognerebbe ristabilire la giustizia... tutto ciò non è serio. La realtà non ha nulla a che vedere con le frasi fatte tipo "una guerra che non sarebbe veramente una guerra", senza che si sappia davvero contro chi e contro cosa farla. E' importante mantenere un certo equilibrio mentale davanti all'enorme ondata di propaganda che arriva dagli Stati uniti. Gli attentati di New York e Washington sono l'esito straordinario di un fenomeno che non è veramente nuovo, se si conosce il terrrorismo internazione che opera al di là e oltre le frontiere. Ciò non vuol dire - anzi, al contrario - che non bisogna far nulla: si tratta di difendere, in un certo senso, l'ordine internazionale contro questo tipo di minacce. Cosa che, en passant, non ha nulla a che vedere con l'ideologia - né quella occidentale né qualunque altra - fin che ne va dell'interesse di tutti gli stati del mondo, compresa la Russia, la Cina, Cuba... Finora la conseguenza più importante degli attentati americani ha riguardato l'economia mondiale, con l'affondamento delle piazze finanziarie. Certo questa situazione non è dovuta alla distruzione del World Trade Center. Il mondo era già sull'orlo della recessione: gli attentati l'hanno accelerata e, si può dire, cristallizzata.

D.: Lei ha suggerito che il terrorismo richiedeva una risposta. Di che tipo?

R.: Un'altra questione in cui si tratta di liberarsi dalla retorica. In fondo, da una trentina d'anni sono cambiate le relazioni tra il potere degli stati, comprese le superpotenze, e le attività all'interno degli stati. Gli stati più importanti - di fatto dalla guerra fredda - hanno perso il monopolio delle forze di coercizione. Tutti, o quasi, possono utilizzare armi, persino un esercito. E persino negli stati molto stabili - penso alla Gran Bretagna, agli Stati uniti, alla Spagna... - queste forze ci sono, anche se relativamente deboli, incapaci di incidere davvero nella realtà di quegli stati, figurarsi gli stati più modesti. Ma non è realistico pensare di dimostrare che pure lo stato con il più potente esercito potrebbe sparire con un colpo di bacchetta magica grazie a quei gruppi e a quelle persone. Bisogna viverci insieme, controllare senza dubbio la situazione con forze militari, ma non si tratta di "altri" che si possono eliminare senza problemi. Abbiamo a che fare con problemi politici e sociali che bisogna affrontare militarmente ma anche politicamente.

D.: Vuol dire che il mondo è "dovunque", che nessuno, cittadino o gruppo o stato, può tenersi isolato dal mondo?

R.: E' così. Viviamo in un mondo globalizzato, dove il tempo e lo spazio sono praticamente aboliti, un mondo con flussi così liberi da rendere molto più facili eventi come quello americano. La circolazione delle persone da un oceano all'altro, attraverso i continenti, è il fondamento dell'esistenza del mondo d'oggi. Ancora una volta, bisogna viverci, sforzandosi di controllare gli aspetti insopportabili di questo fenomeno, il terrorismo internazionale, le mafie, il mercato della droga, che sono i "figli" della globalizzazione. Nell'economia di mercato, solo i soldi contano....

D.: Ne "Il secolo breve" lei sostiene che lo sviluppo capitalistico trascina il mondo verso un'implosione o un'esplosione, e che se il rischio di una guerra mondiale sembrava evitato, l'umanità era di fronte a immensi problemi - democrafici, ecologici, economici, politici, intellettuali - tra cui la crescita del fanatismo e dell'irrazionalismo. Ciò che è successo la porta a rimodulare, precisare o riconsiderare queste considerazioni?

R.: Penso che questa analisi resti valida. Gli attentati di New York non la modificano. Una guerra mondiale, diciamo tradizionale, mi sembra impossibile salvo, forse un giorno, tra Stati uniti e Cina. Ma oggi non è all'ordine del giorno. Quanto alle guerre territoriali "medie" non sono mai finite, soprattutto in Medio Oriente o nell'Asia del sud. Quando a Washington, a Londra e forse a Parigi oggi si parla di guerra contro chissà chi, non s'intende una vera guerra "all'antica", ma operazioni d'altro tipo. La questione nuova che abbiamo di fronte è l'esistenza di stati indipendenti e sovrani: fino a che punto possono esistere di fronte a stati più grandi? E' ormai possibile eliminare uno stato - l'Afghanista, per esempio - senza che ci sia una guerra mondiale. La pressione che uno stato egemonico può esercitare su un vicino meno importante è ormai considerevole. E' un fenomeno piuttosto nuovo, contenuto dal bipolarismo al tempo della guerra fredda, cresciuto dopo la caduta del comunismo. Non c'è ormai che una sola potenza egemonica e, anche se io penso che gli Stati uniti non siano in grado di dominare il mondo - come nessun'altra superpotenza - hanno una libertà di cui nessun paese ha mai goduto in passato. La seconda crisi che sembra iniziare a profilarsi riguarda il fatto che rispunta la questione dell'imperialismo, o piuttosto del colonialismo. E' forse la più grande novità dell'era post-sovietica. Ci sono paesi occupati la cui politica interna è controllata da eserciti stranieri: come chiunque sa, è il caso dei Balcani. Si parla ora della destituzione del regime in Afghanistan - cosa persino sperabile - ma di rimpiazzarlo con un regime provvisorio sotto il controllo Onu: come, dopo il 1918, le nuove colonie furono mascherate da "mandati" sotto il controllo della Società delle Nazioni.

D.: Che rischi comporta questa scelta?

R.: Il rischio più grande - accertato da una dozzina d'anni - è che l'occupazione coloniale non basta più. In Bosnia, in Kosovo, in Macedonia la nuova occupazione non genera la scontata stabilità interna.

D.: Perché afferma che "la superpotenza americana non sarà in grado di dominare il mondo"?

R.: Il mondo è troppo grande, troppo complesso.

D.: L'illusione che questa superpotenza fosse in grado di governare tutto il pianeta comunque resiste, anche in Europa?

R.: Più che mondiale, è un'illusione americana. I governanti degli Stati uniti, io credo, sono stati troppo trionfalisti, fino al World Trade Center. Si sono creduti onnipotenti, lontani da ogni pericolo. Nel XIX secolo, quando l'impero britannico esercitava un'egemonia mondiale, i governanti inglesi erano più realisti, sufficentemente intelligenti da non avere l'ambizione di controllare tutto, da sapere che il massimo che si potesse fare era manipolare la situazione in nodo da conservare il proprio potere. Ricordando che non si poteva dominare l'Europa, né le Americhe... Temo non ci sia abbastanza tempo - non è un giudizio di valore - perché la nuova potenza egemonica impari i limiti delle sue capacità d'influenza in un mondo così complicato, in permanente trasformazione come il nostro.

D.: Lei parla di risoluzione dei conflitti sul terreno politico...

R.: Gli Stati uniti dovrebbero ripensare ciò che possono fare. Del resto non credo che siano le relazioni tra gli stati ad essere troppo problematiche - e anche se lo sono, poco dipende dalla loro soluzione. Il problema è sul fronte delle grandi strutture che sono dietro agli stati - e dentro gli stati - e che domineranno il mondo nei prossimi decenni. Penso all'economia e alla dialettica tra l'economia e i governi. Per la prima volta da molto tempo l'economia mondiale è in recessione. Ma in questa incertezza crescono le ineguaglianze tra i paesi, e all'interno di ogni paese. Quando si parla di "crisi dell'economia" si intendono cose assai differenti a seconda se si tratti di paesi ricchi, o benestanti, stabili, poveri e "intermediari" (come il Brasile, l'Argentina, la Corea...). In un paese come l'Argentina, ad esempio, una crisi economica provocherebbe quasi immediatamente una crisi politica drammatica. E' poco probabile che, se anche l'Europa fosse colpita, le conseguenze sarebbero così tragiche per paesi come la Francia, la Gran Bretagna e la Germania. L'altro problema è ideologico: c'è una sconfitta delle antiche ideologie di mobilitazione dei popoli, fondati sulla tradizione illuminista e delle grandi rivoluzioni - l'americana, la francese, la russa... Ben al di là della sinistra, la crisi coinvolge tutta la tradizione che risale al razionalismo, alle speranze e ai progetti politici del XVIII secolo, cosa che lascia uno spazio enorme ad altre forze. Non penso solo a quel che avviene nel mondo musulmano ma, in misura minore, a quel che si osserva nel nostro paese: la xenofobia, ad esempio. L'altro aspetto di questa crisi è che l'ideologia del laisser faire ha conquistato gran parte degli stati e delle istituzioni internazionali, con risultati assolutamente funesti. A cominciare dall'aver facilitato le attività transnazionali, terroriste e criminali comprese. Parodossalmente è qui che vedo una piccola luce di speranza. Gli attentati di New York e Washington hanno tragicamente dimostrato che la libertà totale del mercato e la circolazione di denaro non ha consentito di controllare ciò che ha messo in pericolo gli Stati uniti. Ho sentito Lionel Jospin dire che non si poteva lasciare senza controlli il mercato dei cambi, e ha suggerito di raccogliere il suggerimento dell'economista keynesiano James Tobin. Oggi, di fronte ai rischi di una fragorosa caduta delle piazze finanziarie, sono i governi - compreso quello degli Stati uniti - che cominciano a preoccuparsi di controlli e regole, di una ingerenza pubblic
a, cosa che le ideologie liberiste hanno rifiutate di pensare per vent'anni. Comincio dunque a credere nella possibilità di ostacolare le violenze dell'ideologia del mercato "duro e puro".

D.: Ne "Il secolo breve" lei propone una storia davvero mondiale, che non si limiti allo scontro tra le grandi potenze ma che, con il mostrare quel che avviene in Siria, Brasile o Africa del sud, possa mostrarci le "tendenze" di un'epoca. Quali situazioni, quali eventi - pur sapendo che l'attualità non è necessariamente tutto il presente - catturano la sua attenzione ora?

R.: Ciò che mi interessa e mi preoccupa ora è la sorte di quattro regioni. Prima di tutto l'India dove c'è, da un lato, la salita vertiginosa dell'economia ma anche della potenza intellettuale, che sono state e restano largamente sottostimate. Dall'altro lato c'è lo slancio di un induismo integralista e emarginante, antimusulmano, antirazionalista, antisecolare, antilaico e reazionario se non fascistizzante, nella politica interna. Poi, la Cina: sarà pure un gigante economico, se non il gigante economico di questo secolo. Il suo futuro è promettente, ma nessuno sa ciò che diventerà. Terza questione, le regioni tragiche, cioé l'Africa sub sahariana, ma anche i paesi dell'ex Urss: lì c'è un dramma economico, sociale, intellettuale che in occidente non si valuta nella giusta misura. La crisi attuale dell'agricoltura russa, ad esempio, supera quella dell'agricoltura sovietica dopo la collettivizzazione. In ultimo, le regioni incerte come l'Europa, il cui avvenire resta oscuro: l'unica cosa chiara è che l'antico progetto europeo è in un vicolo cieco. Ecco le regioni del mondo che mi sembrano oggi più interessanti. Sapendo che, come dicono i cinesi, non si dovrebbe vivere in un'epoca interessante...