La
storia dell'islamismo contemporaneo comincia e finisce esibendo un
profondo smarrimento. Quasi ottant'anni fa, nell'epoca della
colonizzazione europea più avanzata, Atatürk aboliva il califfato
ottomano di Istanbul, simbolo dell'unità dei credenti nel mondo
intero, e gli faceva succedere una repubblica nazionalista turca e
laica. La dimensione politica dell'islam perdeva il suo principale
punto di riferimento, lasciando in eredità una grande confusione e un
fertile terreno per la nascita di inediti fondamentalsmi. Era la fine
degli anni '20 quando veniva creata l'Associazione dei Fratelli
musulmani, modello di azione e di pensiero per i movimenti islamisti
del XX secolo, che crebbe in poco tempo fino a diventare un movimento
di massa, dotato di parole d'ordine destinate a guadagnare a sé
milioni di proseliti: "la nostra Costituzione è il Corano"
gridavano in risposta alle rivendicazioni nazionaliste dei partiti
egiziani, che reclamavano l'indipendenza dai colonizzatori e una
Costituzione democratica. E' da quelle parole che è arrivata sino a
noi la concezione dell'islam come un sistema "completo e
totale", dove è possibile contemporaneamente rivendicare la
propria appartenenza alla modernità e militare per la fusione di
società, stato, cultura e religione. Impenetrabile alle categorie del
mondo occidentale, l'universo islamico sembra procedere nella storia
trainando al suo seguito una galassia di contraddizioni, che vanno
dalla eterogeneità dei radicamenti sociali alla politica degli agreement,
di volta in volta, e spesso contemporaneamente, stabiliti sia con
degli esclusi dal potere e dal benessere che con le monarchie alleate
agli interessi dell'occidente per il tramite del petrolio.
Alla fine della parabola inscritta nell'ultimo quarto del secolo,
quando la quasi totalità degli stati musulmani si trova costretta a
solidalizzare con l'orgoglio americano ferito dagli attentati più
spettacolari e sanguinari che si siano mai visti, una frangia di
fondamentalisti impone al resto del mondo gli effetti riconoscibili di
una parola spesso fraintesa: Jihad. La sua radice significa sforzo:
per essere un buon musulmano, per pregare e fare il bene, per
promuovere l'islam e difenderlo, se necessario, fino a dichiarare la
guerra santa contro gli empi.
Quasi nessuno si occupava di questi concetti in Europa, quando Gilles
Kepel - responsabile del programma di dottorato sul mondo musulmano
all'Institut d'études politiques di Parigi - cominciò a dedicarvi le
sue ricerche, che ora confluiscono in un libro titolato Jihad.
Ascesa e declino, pubblicato da Carocci. All'origine degli
interessi che hanno mosso lo studio di Gilles Kepel c'era una
questione da indagare: come mai alcuni movimenti islamisti erano
riusciti a andare al potere e altri avevano fallito? E all'approdo
delle sue ricerche, una tesi che ha generato molte polemiche: alla
fine dell'era islamista avviata all'indomani della guerra
arabo-israeliana del 1973, mentre buona parte del mondo musulmano
aspira a concondividere i valori democratici dell'occidente, i
movimenti di opposizione precipitano in una grande crisi ideale e
smarriscono ogni progetto politico. Anche nell'Iran sciita, che aveva
portato l'utopia rivoluzionaria al potere, la società afflita dalla
disoccupazione e mortificata da imperativi morali logorati dal tempo
ha votato nel '97 contro il candidato dell'estabishment religioso e
ancora l'anno scorso, alle elezioni legislative, ha confermato la
distanza dall'eredità dei valori imposti da Khomeini. Ma nel mondo
sunnita è andata, se possibile, ancora peggio: in Afghanistan, dove
la corrente salafista-jihadista nata negli anni '80 ha preso la deriva
terroristica che attualmente monopolizza l'attenzione del mondo,
l'ascesa al potere degli islamisti è stata finanziata dall'Arabia
Saudita e dalla Cia. Mentre in Sudan, un colpo di stato insieme
militare e religioso ha ottenuto quella vittoria politica che gli
ideali avevano mancato. Il naufragio dell'ideologia islamista si è
consumato - ci dice il libro di Kepel - anche nel progressivo
abbandono di un sistema finanziario in cui le banche non praticavano
il tasso di interesse e molte società di investimento subordinavano i
movimenti speculativi alla compatibilità con i principi religiosi.
Ora l'economia di mercato è l'unica legge, e ha tra i fedeli di Bin
Laden alcuni dei suoi più abili profeti.
Costretto dalla attualità del suo libro a dividersi tra migliaia di
inviti, richieste di interviste, revisioni delle molte traduzioni
richieste via via dalle case editrici che hanno già comprato il suo
titolo, Gilles Kepel riceve nell'ufficio di Boulevard Saint-Germain
appoggiato a una scrivania dove la stampante produce un insistente
rumore di fondo, e lo squillo dei telefoni scandisce i pochi minuti
concessi alla concentrazione.
D.:Quali sono, secondo lei, i
fraintendimenti più comuni di cui soffre il mondo musulmano quando è
visto da una prospettiva europea?
R.: Uno dei problemi ricorrenti riguarda il fatto
che da entrambe le parti ci sono un certo numero di attori politici
interessati a montare discorsi che legittimino il cosiddetto
"scontro delle civiltà", ovvero che lavorano a alimentare
l'immagine delle culture come insiemi omogenei e tra loro antagonisti,
facendo passare in secondo piano o negando del tutto, le
contraddizioni interne alle diverse società. Inoltre, c'è da parte
di costoro una forte tendenza a stringersi nella propria cultura
svalutando la solidarietà che attraversa società tra loro distanti.
Nel caso del mondo musulmano, i movimenti islamisti nati nel corso del
XX secolo, la cui forza è esplosa soprattutto a partire dagli anni
'70, si sono rivelati sempre molto desiderosi di produrre una
ideologia religiosa il cui obiettivo fosse di diluire o mascherare la
conflittualità sociale. Nel mio libro ho cercato di dimostrare come
il movimento islamista sia tutt'altro che omogeneo: fa parte dei
fraintendimenti correnti considerare i musulmani come una massa di
poveracci, di individui a piedi nudi. Accanto a loro è importante
valutare il peso delle classi medie religiose, dei commercianti e di
una massa di studenti, intellettuali e produttori di ideologie;
perché la via per conquistare il potere è sempre passata attraverso
la saldatura di queste diverse componenti sociali intorno a un
discorso religioso folle. E' accaduto, per fare l'esempio più
clamoroso, in Iran, dove una volta che Khomeini ha trionfato si è
assistito alla eliminazione progressiva dei gruppi sociali più deboli
da parte del clero alleato con i mercanti dei bazar. Dovunque, il
successo e poi il fallimento dei movimenti islamisti sono dipesi dalla
capacità o meno di costruire alleanze di classe. Un altro tra gli
equivoci più comuni riguarda l'uso del termine jihad: solo in
determinati contesti prende la valenza di lotta armata contro gli
empi. Ma nella storia dell'islam è stata usata dagli ulema con molta
parsimonia, perché è un provvedimento a doppio taglio e può
facilmente rivoltarsi contro chi l'ha proclamata. La jihad
sospende gli obblighi che regolano la società, crea una sorta di
stato d'eccezione e se non è ben controllata può sfociare nella
sedizione e nella guerra civile, con le ovvie conseguenze di un grave
indebolimento sociale.
D.: Dal suo libro sembra che i movimenti islamici
più radicali abbiano maturato una speciale vocazione mediatica,
com'è anche dimostrato dalla spettacolarità dei recenti attentati,
unita a una ottima dimestichezza con le nuove tecnologie. Lei racconta
che fin dall'88 l'organizzazione di Bin Laden ha creato un database in
cui sono schedati tutti gli jihadisti e i volontari passati per i
campi di addestramento. Come si spiega la scelta di questa
contaminazione del fondamentalismo più intransigente con le conquiste
della tecnologia avanzata?
R.: Non si prende mai nella giusta considerazione
quanto sia forte, per i movimenti islamisti, il senso di appartenenza
alla modernità tecnologica. E anche questo fa parte dei
fraintendimenti. Molti dei militanti jihadisti sono usciti dalle
facoltà delle scienze applicate: tra loro ci sono studenti di
ingegneria, di medicina, di informatica diventati molto presto attivi
in questi campi con la pretesa di esercitare sulle conquiste
scientifiche un controllo che ponesse la loro visione del mondo al
riparo da ogni possibile contaminazione. Invece di rimettere in
questione i precetti religiosi avviando una riflessione che sarebbe
stata d'obbligo, si sono irrigiditi nella edificazione di una barriera
tra l'ideologia religiosa e quella tecnologica, salvo poi utilizzarne
i risultati. Basta guardare a come Osama bin Laden ha costruito la
propria immagine: la sigla del suo gruppo è spesso la prima cosa che
ci viene incontro all'atterraggio negli aeroporti mediorientali. E gli
attentati al World Trade Center, spaventosi per le migliaia di morti,
i danni e le conseguenze catastrofiche che hanno creato, si inscrivono
deliberatamente nella ricerca di un grande scenario. Certo, dietro
alla persona di Bin Laden in carne e ossa c'è tutto un reticolo
complesso formato da individui da lui utilizzati e che probabilmente
lo usano. Bisognerebbe capire a chi fa capo la rete delle sigle
finanziarie, quali gruppi nascondono e quali interessi incontrano nei
diversi paesi, ma per ora non arriviamo a conoscerli.
D.: Quali radici storiche e culturali ha il
reclutamento degli attentatori suicidi nel mondo islamico?
R.: E' un fenomeno variabile nel corso della
storia. Ma colpisce il fatto che la ricostruzione biografica dei
kamikaze di cui è stato possibile accertare l'identità mette in
evidenza la loro provenienza dalle classi medie della penisola
arabica, insieme al fatto che hanno studiato e sono stati allevati in
buone famiglie. Lo dicono i siti Internet degli islamisti, dove si
trovano pubblicate le biografie dei "martiri della jihad"
morti in Bosnia, in Cecenia; e questo vale anche per i terroristi che
sappiamo coinvolti nei recenti attentati. Del resto, lo stesso Bin
Laden viene da una famiglia di muratori, anche se poi il padre si
costruì una carriera strepitosa come costruttore di corte. Dunque, il
reclutamento non avviene, come ci si sarebbe potuto aspettare, tra le
masse dei diseredati che non hanno nulla da perdere, e questo è un
sintomo molto interessante, che necessita di venire interpretato. E'
come se l'ideologia e la forza della jihad toccasse in
particolar modo la sensibilità dei figli della media borghesia.
D.: Il suo saggio dedica a Bin Laden un capitolo e
varie menzioni. Lei lo definisce un personaggio
"improbabile", ma allo stesso tempo sembra attribuirgli una
certa coerenza ideologica. Per esempio, nei mesi immediatamente
precedenti l'invasione del Kuwait, le "spacconate" di Saddam
Hussein spinsero Bin Laden a offrire il suo aiuto alla monarchia
saudita per difendere le frontiere. Ma quando re Fahd, nonostante
fosse il "servitore dei due luoghi santi", si appellò alla
coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, Bin Laden si unì
ai gruppi ostili al potere e ruppe radicalmente con Riyadh...
R.: Sì, Bin Laden è stato educato in Arabia
Saudita, ma la sua coerenza ideologica è nata nel milieu
salafista ed è stata ulteriormente rinforzata nei campi di formazione
afghani, intossicandosi con i principi della jihad, che egli
concepisce nella sua forma più violenta e minoritaria. A questa Bin
Laden è rimasto fedele, come pure al lavoro sociale e di formazione
delle masse, che ha indirizzato prima contro i sovietici invasori
dell'Afghanistan, poi contro i nemici americani dell'islam che si
erano insediati nell'Arabia Saudita. Quindi, in effetti, Bin Laden
sembra ancora fermo sulle sue posizioni, per quanto minoritarie e
ferocemente oltranziste.
D.: I talebani si sono formati alla scuola
deobandita, una filiazione dell'islam poco nota, che ha avuto larga
influenza in India e in Pakistan. Quali sono le origini storiche di
questo gruppo?
R.: Quando gli inglesi si affacciarono alla storia
del continente indiano, la maggioranza del paese era indu, dunque la
dinastia musulmana si trovò ad essere contemporaneamente in una
posizione di minoranza e sottoposta al potere degli stranieri.
Bisognava riuscire a trovare un modo di applicare la legge della
religione nella vita quotidiana: per se stessi, visto che non c'era
uno stato musulmano di riferimento che la rendesse d'obbligo. I
precetti religiosi vennero imposti attraverso ogni sorta di fatwa
e di diverse deliberazioni giuridiche prese dagli ulema, e da questa
reazione alla necessità di restare buoni musulmani in una condizione
di marginalità politica si originò la reazione dei deobanditi, i
quali edificarono una sorta di controsocietà senza stato. Al loro
insegnamento si richiamano dunque i telebani, ovvero gli studenti di
teologia figli dei rifugiati afghani durante la guerra contro i
sovietici, che vennero educati nelle scuole religiose pakistane, dove
svilupparono appunto una idea di controsocietà religiosa. Tornati in
Afghanistan, a partire dal 1994 vennero aiutati a prendere il potere
dai servizi segreti pakistani appoggiati dagli Stati Uniti. Due anni
prima i mujeaddin afghani avevano rovesciato il regime filosovietico e
la situazione era sfociata nella anarchia più assoluta. Perciò,
purché ci fosse un governo stabile, e senza preoccuparsi di che
natura esso fosse, i talebani vennero istallati alla guida
dell'Afghanistan con ingenti aiuti della Cia.
D.: Tra le tesi del suo libro, quella che in
Francia ha fatto più discutere riguarda la sua diagnosi di declino
dei movimenti islamisti di opposizione. Le violenze di cui si sono
resi responsabili durante tutti gli anni '90 avrebbero segnato - lei
dice - il loro destino, allontanando le correnti democratiche e
spingendo i ceti medi religiosi a cercare alleanze tra i laici.
Dunque, pensa che il mondo islamico uscirà ulteriormente indebolito
dai recenti attentati?
R.: E' difficile dirlo oggi, perché tutto
dipenderà dalla natura della risposta americana, da che genere di
offensiva verrà scatenata e contro chi. I talebani stanno cercando di
rendersi rappresentativi dei musulmani che hanno intorno e della jihad
in generale. E gli Stati Uniti si trovano di fronte al problema di
scongiurare questo grande abbraccio. Apparentemente quel che si
prepara è una risposta che punta a isolare i talebani e Bin Laden
evitando una strage di civili.
D.: Come valuta le ripercussioni degli attentati
dell'11 settembre sulla pace tra Israele e Palestina?
R.:In questa contingenza le tensioni in Medio
Oriente sono particolarmente esasperate, e questo fa pensare a
ripercussioni molto pesanti. In effetti, dall'inizio della seconda
intifada, nell'autunno del 2000, si è formata nella maggior parte
degli stati musulmani una opinione pubblica fortemente antiamericana.
Il governo degli Stati Uniti viene accusato di non avere posto freni
alla politica di Sharon, e questo ha esasperato gli animi. Certo, si
è venuto a creare un clima tale che, nonostante gli schieramenti
recenti, la solidarietà con l'America è debole. Se confrontiamo la
situazione attuale con quella del '91, all'indomani della vittoria
militare americana in Iraq, la differenza è evidente. Allora, Bush
padre torse il braccio tanto agli israeliani che ai palestinesi per
costringerli a intraprendere la logica delle negoziazioni che avrebbe
condotto agli accordi di Oslo. Oggi, invece, sembra che
l'amministrazione Bush abbia completamente trascurato la questione
mediorientale. Non c'è dubbio che questa situazione vada superata,
che gli Stati Uniti debbano dare un segnale molto più forte di quanto
non abbiano fatto sino ad ora, se sperano di dissociare i talebani
dalla massa del mondo musulmano.
D.: Per quali ragioni, secondo lei, i movimenti
islamisti del mondo contemporaneo, nonostante il seguito di cui hanno
goduto, non sono mai andati al potere, salvo che in Iran, e comunque
anche qui per un tempo storicamente breve?
R.: La sfida storica di fronte alla quale si sono
trovati i movimenti islamisti del XX secolo si è giocata sul terreno
dei diversi nazionalismi che si opponevano alle occupazioni coloniali.
Una volta conquistata l'indipendenza, gli islamisti di opposizione,
che pure erano presenti nella coalizione nazionalista, vennero
sconfitti e il mondo dell'islam storico si ritrovò frammentato in
diverse comunità di riferimento, dagli stati arabi alla Turchia, dal
Pakistan alla Malesia e all'Indonesia. All'epoca, due diverse
ideologie si scontravano nei nuovi stati: quella dei nazionalisti
laici, che esaltavano la rottura con il passato, e quella dei
pensatori islamisti più importanti che la deprecavano. Ma il loro
tentativo di promuovere una rivoluzione culturale fondata non sugli
ideali nazionali bensì sul riferimento religioso all'islam fallì,
travolto dalle ambiguità delle alleanze sociali o dalla
conflittualità di classe. I rapporti di forza si rovesciarono di
nuovo negli anni '70, quando i movimenti islamisti si riaffacciarono
sulla scena, proprio in opposizione alle istanze nazionaliste. Ancora
una volta, però, mancarono di coerenza politica: la loro forza stava
nel dare rappresentanza a una coalizione sociale composita, com'è
avvenuto in Iran. Ma per ottenere questo obiettivo bisognava rendersi
portatori di un ideale religioso e morale, che non può allo stesso
tempo contenere un progetto politico davvero moderno. E' da questa
ambiguità che nasce la loro debolezza ideologica.
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