Tema: la guerra
di Laurana Lajolo
Presidente dell'Istituto nazionale "Ferruccio Parri" - Insmli

 

      Come fare scuola e, in particolare, fare storia quando è in atto la guerra dichiarata tra il mondo occidentale e il terrorismo islamico? Quale progetto di educazione prevedere? Per molti anni era impegno di tutti svolgere programmi, e in qualche caso significative sperimentazioni, sull’educazione ai diritti e alla pace. Oggi le posizioni pacifiste sono prese di mira da quasi tutti gli opinionisti che contano, oltre che dai politici, come posizioni negative, controproducenti ai fini della civiltà e, come già in qualche recente occasione, sembra che l’unica strada per estendere l’area dei diritti a popoli che ancora non ce l’hanno sia lo strumento guerra. Si bombarda da parte degli stati alleati e si provvede, se e come si può, ai profughi, alla marea nomade di popolazioni perseguitate dalla guerra nel loro paese, già prima dell’arrivo delle bombe dal cielo. E’ accaduto così in Kossovo, accade ora in Afghanistan.

     E come dare strumenti ai ragazzi per capire le ragioni di questa guerra, le cause più o meno dirette dell’attacco terroristico al cuore dell’Occidente, come capire in quale situazione viviamo dopo l’11 settembre, data di inizio della guerra?

     Ma prima di tutto, quale metodologia critica possono seguire gli insegnanti per affrontare a scuola il tema della guerra, senza cadere in retoriche e ritualità militariste, che pure si affermano nelle scuole americane, dove, insieme al giuramento alla bandiera statunitense, i bambini vengono sollecitati a versare un dollaro per il proprio coetaneo afghano? E’ giusto partire da affermazioni di schieramento, più o meno semplificate per le esigenze di guerra, o dobbiamo piuttosto affrontare lo scenario mondiale in cui questa guerra si inserisce: le conseguenze del colonialismo, i grandi interessi economici e le ragioni del mercato globale, di cui è parte integrante anche il mondo arabo, i conflitti mediorientali, le differenze tra società opulente e società povere, il ruolo politico del fondamentalismo religioso e gli impulsi distruttivi del terrorismo?

    E tutto questo per capire il contesto in cui si svolgono gli avvenimenti e le risposte necessarie con i valori simbolici e politici che sono in discussione.

    Forse è il caso di studiare i documenti della conferenza sul razzismo a Durban (Sud Africa), dove vi erano già gli elementi del grave contrasto, fatto esplodere dal terrorismo di Bin Laden; forse è il caso di studiare i contenuti religiosi dell’Islam (come di altre religioni) e anche delle interpretazioni dogmatiche e intolleranti verso gli "infedeli" e capire il ruolo che certo fanatismo religioso svolge a livello politico, culturale e sociale.

    Forse è il caso di conoscere meglio la storia e il presente degli stati arabi, spesso monarchie e regimi dittatoriali senza democrazia. Forse è il caso di approfondire gli squilibri economici e le condizioni di vita delle popolazioni sotto la soglia della povertà e quindi esclusi dall’istruzione e dai diritti fondamentali delle società civili.

    E’ il caso cioè di fare un progetto di insegnamento della storia contemporanea, che, per necessità di conoscenza e di comprensione del presente affronti i temi della mondialità. Oggi il luogo di osservazione è la guerra, che si sta estendendo oltre l’Afghanistan e sta producendo conflitti civili all’interno dei paesi musulmani, irrigidendo le posizioni contrapposte. E il mercato delle armi ne trae vantaggi enormi.

    Ma non va sottovalutato il versante interno alla nostra società: ciò che nei cittadini e nei governi ha prodotto la distruzione delle torri gemelle, che cosa il pericolo del terrorismo mondiale e la guerra hanno cambiato e stanno cambiando nella nostra cultura e nel nostro modo di percepire la civiltà, la pace e i diritti.

    Con la tragedia delle torri gemelle e le seimila persone sepolte ci si è resi angosciosamente conto della vulnerabilità e della fragilità tecnologica del nostro sistema e questo deve condurre non all’intolleranza tra civiltà, ma a una riflessione attenta e critica sui rapporti internazionali e sui principi su cui si basa il nostro modo di vivere e quelli di altri popoli. Per molte generazioni, nate dopo la seconda guerra mondiale e sotto l’incubo di una possibile guerra atomica distruttiva dell’umanità, la cultura della pace è stata fondamentale, costitutiva della propria concezione del mondo e del vivere civile. Le ragazze e i ragazzi di oggi, sotto la spinta emotiva degli avvenimenti possono nuovamente ritenere, come è già accaduto in tempi passati, la guerra una necessità e un evento da considerare come parte integrante dei rapporti tra stati. Sarebbe anche interessante ripercorrere il filo conduttore del pacifismo nella storia italiana a partire dalla questione interventismo-neutralismo nella prima guerra mondiale.

     Il pacifismo, dalla guerra del Golfo al Kossovo fino a quella contro il terrorismo, ha perso terreno. In dieci anni abbiamo vissuto tre terribili guerre, ma si è trattato, solitamente, di guerre lontane, seguite sugli schermi televisivi, fatte da soldati professionisti, che non toccavano direttamente le nostre vite. Quelle guerre sono state chiamate con nomi diversi, soltanto Bush junior ha pronunciato di nuova la parola "guerra" del bene contro il male del terrorismo, usando terminologie fortemente simboliche.

     L’11 settembre l’attacco terroristico ha colpito la popolazione di New York e dal 7 ottobre la guerra è piovuta sugli abitanti di Kabul, mentre il pericolo batteriologico può estendersi e distruggere la nostra tranquillità. E si sa che nelle guerre più recenti, quelle più altamente tecnologiche, il 90% delle vittime sono civili.

     Ha ancora senso oggi fare educazione alla pace, all’integrazione interetnica, alla società multiculturale? Tutto è sicuramente più difficile e contrastato, ma la scuola è luogo formativo in cui dovrebbe essere possibile confrontarsi e dialogare, esprimere dubbi e approfondire i problemi, per acquisire strumenti al fine di capire il presente, per costruire conoscenze e quindi avere indicazioni razionali, in cui anche l’emotività, che è parte così importante degli avvenimenti che stiamo vivendo, possa essere collocata e interpretata.

    La scuola non è la piazza né il parlamento, è un luogo di studio e di conoscenza e deve saper trasmettere il meglio del patrimonio culturale e della memoria della nazione.

     E allora è forse proprio adesso che bisogna intensificare l’insegnamento del rifiuto della violenza, del rispetto della diversità, della convivenza civile, della cultura della pace e dei diritti, anche se in controtendenza. La responsabilità prioritaria della scuola, nel momento attuale, viene dunque ad essere quella di educare i singoli individui di culture e religioni diverse a convivere. E spesso questi individui, nelle nostre scuole, sono già studenti della stessa classe.