A Torkham, il posto di confine

Ahmed RASHID
La Stampa, 1 novembre 2001

   A Torkham, il posto di confine sulla cima del passo di Khyber, tra l’Afghanistan ed il Pakistan, una barriera costituita da una sola catena divide i due paesi. Dalla parte pakistana stanno le sentinelle di frontiera - paramilitari nelle loro "shalwar kameez" e turbanti. Era l’aprile del 1989, e la ritirata sovietica dall’Afghanistan era stata appena completata. Stavo ritornando in Pakistan attraverso la strada proveniente da Kabul, ma la frontiera era chiusa. Esausto per il viaggio, mi stesi sul bordo di un prato dal lato afghano del confine e mi misi ad aspettare. All’improvviso, lungo la strada alle mie spalle, un camion pieno di mujaheddin si fermò. I passeggeri non erano afghani. Arabi dalla carnagione chiara, volti dell’Asia centrale dagli occhi azzurri, facce scure dalle sembianze cinesi spuntavano dai turbanti avvolti rozzamente e dalle "shalwar kameez" della misura sbagliata. Portavano a tracolla cartucciere e kalashnikov. Ad esclusione di un solo afghano, che stava svolgendo le mansioni di interprete e guida, nemmeno uno dei trenta stranieri parlava pashtu, dari, o almeno urdu. Nell’attesa che il confine fosse aperto, cominciammo a parlare. Il gruppo era composto da moros filippini, uzbechi dell’Asia centrale sovietica, arabi provenienti da Algeria, Egitto, Arabia Saudita e Kuwait, e uiguri dal Xinjiang, in Cina. La scorta era un membro dell’Hizb-i-Islami di Gulbuddin Hekmatyar. Provenivano da un campo di addestramento vicino al confine e per il fine settimana andavano a Peshawar a ritirare la posta proveniente da casa, a cambiarsi gli abiti e a mangiare del buon cibo. Erano venuti per combattere la jihad insieme ai mujaheddin e a imparare ad usare le armi, a fabbricare bombe e a apprendere tattiche militari in modo da poter portare la jihad a casa loro, quando sarebbero ritornati.

    Quella sera stessa il primo ministro Benazir Bhutto aveva organizzato una cena per i giornalisti ad Islamabad. Tra gli ospiti c’era il sottotenente generale Hamid Gul, il capo dell’Isi (servizi segreti pakistani) ed il più fervente ideologo islamico nell’esercito dopo la morte di Zia. Il generale Gul era in giubilo per la ritirata sovietica. Gli chiesi se non stesse giocando col fuoco invitando radicali musulmani provenienti dai paesi islamici, che erano solo apparentemente alleati del Pakistan. Questi radicali non avrebbero creato problemi nei loro paesi originari, mettendo in pericolo la politica estera pakistana? "Stiamo combattendo un jihad e questa è la prima brigata internazionale islamica nell’era moderna. I comunisti hanno le loro brigate internazionali, l’Occidente ha la Nato, perché i musulmani non possono unirsi e formare un fronte comune?", rispose il generale. Questa fu la prima e unica giustificazione che mi sia mai stata data sul motivo per cui erano stati chiamati gli afghani-arabi, nonostante nessuno di essi fosse afghano e molti non fossero arabi. Tre anni prima, nel 1986, il capo della Cia William Casey aveva intensificato la guerra contro l’Unione Sovietica prendendo tre misure significative, allora anche estremamente segrete. Aveva convinto il Congresso degli Stati Uniti a rifornire i mujaheddin con missili Stinger, fabbricati in America, per abbattere aerei sovietici, e a preparare i "consiglieri" statunitensi ad addestrare la guerriglia. Fino a quel momento nessun armamento di fabbricazione statunitense, nessun militare americano era stato impiegato direttamente nella guerra. La Cia, il britannico Mi6 e l’Isi si accordarono anche su un piano di provocazioni per lanciare gli attacchi della guerriglia fino all’interno delle repubbliche sovietiche del Tagikistan e dell’Uzbekistan, il ventre molle musulmano dello Stato sovietico, dal quale le truppe sovietiche in Afghanistan ricevevano i loro rifornimenti. Il compito fu affidato al leader mujaheddin Gulbuddin Hekmatyar. Nel marzo del 1987, piccole unità attraversarono il fiume Amudarja, provenienti da basi situate nell’Afghanistan settentrionale, e lanciarono il loro primo attacco missilistico contro villaggi in Tagikistan. Casey fu molto felice e soddisfatto per le notizie e, nella sua successiva visita segreta in Pakistan, attraversò il confine ed entrò in Afghanistan insieme al presidente Zia per passare in rassegna i gruppi di mujaheddin. In terzo luogo, Casey impegnò la Cia a sostenere una iniziativa dell’Isi che sarebbe dovuta durare a lungo per reclutare radicali musulmani da tutto il mondo affinché venissero in Pakistan e combattessero con i mujaheddin afghani. Il presidente Zia, desideroso di cementare l’unità islamica, trasformò il Pakistan nel paese guida del mondo musulmano e promosse un’opposizione islamica in Asia centrale. Washington voleva dimostrare che l’intero mondo musulmano stava combattendo contro l’Unione Sovietica a fianco degli afghani e dei loro benefattori americani. E i sauditi videro un’opportunità per promuovere il wahabismo e liberarsi dei radicali. Nessuno considerò il fatto che questi volontari avessero dei loro obiettivi, e che avrebbero eventualmente rivolto l’odio nei confronti dei sovietici verso i loro stessi regimi o verso gli americani.

      Fra queste migliaia di reclute straniere c’era un giovane studente saudita, Osama bin Laden, il figlio del magnate delle costruzioni yemenita Muhammad bin Laden, che era un intimo amico del precedente re Faisal, e la cui azienda era divenuta favolosamente ricca con i contratti per rinnovare ed espandere la moschee sacre della Mecca e di Medina. L’Isi desiderava da molto tempo che il principe Turki bin Faisal, capo del Istakhbarat, il servizio segreto saudita, fornisse un principe di sangue reale per guidare il contingente saudita e mostrare ai musulmani l’impegno della famiglia reale nella jihad. Infatti, solo i sauditi più poveri, studenti, autisti di taxi, e giovani delle tribù beduine, erano arrivati al punto di combattere. Ma nessun viziato principe era pronto nemmeno ad immaginarsi di combattere tra le montagne afghane. Bin Laden, benché non di sangue reale, era sufficientemente vicino ai reali e di certo abbastanza ricco per guidare il contingente saudita. Bin Laden, il principe Turki e il generale Gul sarebbero diventati sicuri amici ed alleati nella causa comune. Il punto di riferimento per gli afghani-arabi erano gli uffici della Lega mondiale musulmana e dei Fratelli musulmani a Peshawar, gestiti da Abdullah Azam, un palestinese giordano che bin Laden aveva incontrato per la prima volta all’università di Gidda e che riveriva come un suo capo. Azam e i suoi due figli morirono in un attentato a Peshawar nel 1989. Durante gli anni Ottanta Azam aveva stretto forti legami con Hekmatyar e Abdul Rasul Sayyaf, lo studioso dell’islam afghano che i sauditi avevano inviato a Peshawar per diffondere il wahabismo. Fondi sauditi arrivavano ad Azam e al Makhtab al Khidmat o al centro di servizio che egli aveva creato nel 1984 in favore di nuovi reclutamenti e per ricevere donazioni da organizzazioni di beneficenza islamiche.

    Finanziamenti dai servizi segreti sauditi, dalla Mezzaluna rossa saudita, dalla Lega mondiale musulmana, e donazioni di privati elargite da principi sauditi e dalle moschee erano convogliati attraverso il Makhtab. Un decennio più tardi il Makhtab sarebbe emerso al centro di una rete di organizzazioni radicali che aiutarono a portare a termine l’attentato al World Trade Center e gli attentati alle ambasciate americane in Africa nel 1998. Izialmente Bin Laden si diresse a Peshawar nel 1980, e vi incontrò i leader mujaheddin, ritornando frequentemente con donazioni saudite per la causa fino al 1982, quando decise di stabilirsi a Peshawar. Prese dalla sua società di ingegneria e costruzioni pesanti l’equipaggiamento necessario per costruire strade e depositi per i mujaheddin. Nel 1986, collaborò alla costruzione del complesso del tunnel di Khost, che la Cia finanziò come grande deposito di armi, fornendo assistenza e un centro medico, nelle viscere di una montagna al confine col Pakistan. Per la prima volta egli fondò personalmente un campo di addestramento a Khost per afghani-arabi, che da allora in modo crescente guardarono a questo saudita dinoccolato, ricco e carismatico come al loro capo. Nell’agosto 1996 proclamò la sua prima jihad contro gli americani, i quali, disse, stavano occupando l’Arabia Saudita: "I muri dell’oppressione e dell’umiliazione non possono essere demoliti se non con una pioggia di proiettili". Stringendo amicizia con il mullah Omar, nel 1997 bin Laden partì per Kandahar ed entrò sotto la protezione dei taleban. All’inizio del 1997 la Cia formò una squadra che giunse a Peshawar per tentare di rapire bin Laden e portarlo fuori dall’Afghanistan. Gli americani reclutarono afghani e pakistani perché li aiutassero, ma poi l’operazione fu sospesa. L’attività statunitense a Peshawar spinse bin Laden a spostarsi verso il più sicuro confine di Kandahar. Il 23 febbraio 1998, in un incontro al nuovo campo di Kandahar, tutti i gruppi associati ad al-Qaeda sottoscrissero un manifesto sotto l’egida del Fronte internazionale islamico per la jihad contro gli ebrei e i crociati. Il manifesto sentenziava: "Per più di sette anni gli Stati Uniti hanno occupato le terre dell’Islam nei suoi luoghi più sacri, la penisola arabica, depredando le sue ricchezze, dettando le proprie regole, umiliando il suo popolo, terrorizzando i vicini, e trasformando le basi americane nella penisola nell’avanguardia con cui combattere i vicini popoli musulmani". Fu proclamata una fatwa: "L’ordine di uccidere gli americani e i loro alleati - civili e militari - è un obbligo individuale per ogni singolo musulmano che possa compiere una simile azione, in qualsiasi paese sia possibile farlo". In quel momento bin Laden aveva ideato una politica che non era solo rivolta alla famiglia reale saudita o agli americani, ma esigeva la liberazione di tutto il Medio Oriente musulmano. Bin Laden si è sempre sentito insicuro all’interno della struttura dell’Islam. Egli infatti non è né uno studioso dell’Islam né un docente e dunque non potrebbe promulgare fatwa conformemente alle scritture. Eppure lo fa. Nell’Occidente il suo "Morte all’America" suona come una fatwa, benché gli occidentali non diano peso morale al mondo musulmano. Gli afghani-arabi che lo hanno conosciuto durante la jihad dicono che egli non è né un intellettuale né una persona che sa bene cosa debba essere fatto nel mondo musulmano. In tal senso, egli non è nemmeno un Lenin della rivoluzione islamica, né un ideologo internazionalista della rivoluzione islamica come fu Che Guevara per la rivoluzione nel Terzo Mondo. I primi compagni di Bin Laden lo descrivono come una personalità profondamente impressionabile, sempre in cerca di qualche mentore - uomini che sapevano molto di più dell’Islam e del mondo moderno di quanto non sapesse lui. Alla lunga lista dei mentori della sua giovinezza si aggiunsero più tardi il dottor Ayman al-Zawahiri, capo della jihad islamica bandita dall’Egitto, e i due figli dello sceicco Omar Abdel Rehman, il predicatore cieco egiziano oggi in una prigione americana, condannato a scontare una pena per l’attentato al World Trade Center e che aveva diretto il gruppo fuori legge di El Gamaa Islammiyya in Egitto. Bin Laden si accattivò ulteriormente i favori dei capi taleban inviando, nel 1997 e nel 1998, diverse centinaia di afghani-arabi a partecipare all’offensiva taleban nel Nord del paese. Questi guerriglieri wahabiti aiutarono i taleban a eseguire i massacri degli sciiti hazara, nel Nord. Diverse centinaia di afghani-arabi, facenti capo al distaccamento di Rishkor, fuori Kabul, combatterono sul fronte di Kabul contro Massud. Sempre più la visione del mondo di Bin Laden doveva dominare il pensiero anche dei leader anziani taleban. A questo scopo servirono anche le conversazioni notturne tra Bin Laden e i capi taleban. Prima del suo arrivo la leadership taleban non era stata particolarmente avversa agli Stati Uniti o all’Occidente, ma richiedeva da tempo il riconoscimento del proprio governo. Tuttavia, dopo gli attentati in Africa, i taleban diventarono sempre più ostili nei confronti degli americani, delle Nazioni Unite, dell’Arabia Saudita e dei regimi musulmani. Le loro dichiarazioni riflettevano il tono di sfida proprio di Bin Laden, e non era una caratteristica originaria taleban. Quando la pressione statunitense sui taleban si intensificò, per convincerli a espellere Bin Laden, dissero che era un ospite ed era contro la tradizione afghana espellere gli ospiti Quando fu chiaro che Washington stava organizzando un altro attacco militare contro bin Laden, i taleban provarono ad aprire una trattativa con l’America: gli avrebbero fatto lasciare il paese in cambio del riconoscimento statunitense del loro governo. Così, fino all’inverno del 1998, i taleban guardarono a bin Laden come a un bene strumentale, un mezzo per contrattare attraverso il quale avrebbero potuto negoziare con gli americani. Il Dipartimento di Stato americano aprì un collegamento satellitare per comunicare telefonicamente col mullah Omar in via diretta. I funzionari dell’ufficio per l’Afghanistan, aiutati da un interprete pashtu, intrattenevano con Omar lunghe conversazioni in cui entrambe le parti consideravano varie opzioni, senza risultato. A partire dai primi mesi del 1999 parve chiaro ai taleban che non era possibile nessun compromesso con gli Stati Uniti. Sicché cominciarono a guardare a bin Laden come ad un inconveniente. Un ultimatum americano ai taleban perché consegnassero Bin Laden, nel febbraio 1999, o avrebbero affrontato le conseguenze del loro rifiuto, spinse i taleban a farlo scomparire prudentemente da Kandahar. Lo spostamento fece guadagnare tempo ai taleban, ma il problema era ancora lontano dall’essere risolto. Gli afghani-arabi erano arrivati al limite del percorso. Partendo come mero complemento alla jihad afghana durante la guerra fredda e negli anni Ottanta, erano diventati il principale punto di riferimento per gli afghani, i paesi confinanti e l’Occidente negli anni Novanta. Gli Stati Uniti stavano ormai pagando il prezzo per aver ignorato l’Afghanistan tra il 1992 e il 1996, mentre i taleban garantivano il sancta sanctorum per i movimenti islamici più fondamentalisti e ostili che il mondo si trovava di fronte nell’era post-guerra fredda.