L'ARTICOLO
di Samuel Huntington "The clash of civilizations?" ("Scontro di
civiltà?") apparve nella primavera del 1993 su Foreign Affairs e subito suscitò una
sorprendente quantità di attenzione e di reazioni. Dato l'intento, fornire agli americani
una tesi originale sulla "nuova fase" della politica mondiale dopo la fine della
Guerra fredda, i termini del ragionamento di Huntington apparvero irresistibilmente ampi,
audaci, addirittura visionari. L'autore aveva ben presenti i rivali tra i ranghi della
politica attiva, i teorici come Francis Fukuyama e le sue tesi sulla fine della storia, al
pari delle schiere di coloro che avevano inneggiato all'avvento del globalismo, del
tribalismo e alla dissoluzione dello stato. Ma essi, concedeva Huntington, avevano
compreso solo alcuni aspetti di questo nuovo periodo. Egli si accingeva ad annunciare
quello che definiva "l'aspetto cruciale, realmente centrale" di ciò "che
la politica globale probabilmente sarà nei prossimi anni". Senza incertezze
incalzava: "La mia tesi è che la fonte prima di conflitto in questo nuovo mondo non
sarà né essenzialmente ideologica né essenzialmente economica. Le grandi divisioni
all'interno dell'umanità e la fonte di conflitto predominante avranno carattere
culturale. Gli stati nazione resteranno i protagonisti più potenti degli affari mondiali
ma i principali conflitti della politica globale avranno luogo tra nazioni e gruppi di
civiltà diverse. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le faglie tra
civiltà saranno i fronti di battaglia del futuro".
Quando Huntington nel 96 pubblicò il libro con lo stesso titolo, cercò di
aggiungere un po' di sottigliezza al suo ragionamento e molte, molte note a piè di
pagina, ma non fece altro che confondersi, dando prova della rozzezza del suo scrivere e
dell'ineleganza del suo pensiero.
Il paradigma fondamentale dell'Occidente contro tutti (che riformula la contrapposizione
della guerra fredda) restò intatto ed è ciò che è rimasto, spesso in maniera insidiosa
e implicita, in discussione a partire dai terribili eventi dell'11 settembre: l'orrendo
attentato suicida con motivazioni patologiche da parte di un piccolo gruppo di militanti
usciti di senno è stato trasformato in prova della tesi di Huntington. Invece di
considerarlo per ciò che è in realtà, l'impossessarsi cioè di grandi idee (uso il
termine in senso generico) da parte di una piccola banda di fanatici impazziti, alcuni
luminari internazionali, dall'ex primo ministro pakistano Benazir Bhutto al primo ministro
italiano Silvio Berlusconi, hanno pontificato sui guai dell'Islam e, nel caso di
Berlusconi, hanno utilizzato Huntington per farneticare sulla superiorità occidentale,
tipo "noi" abbiamo Mozart e Michelangelo e loro no.
C'è un abuso della retorica churchilliana da parte di sedicenti combattenti nella guerra
dell'Occidente e soprattutto dell'America contro chi la odia, i suoi saccheggiatori e
distruttori, con scarsa attenzione a vicende complesse che sfidano questi termini
riduttivi. È questo il problema di etichette poco edificanti come Islam e Occidente:
sviano e confondono la mente che si sforza di dare un senso a una realtà disordinata che
non intende essere archiviata o liquidata con tanta facilità. Una volta ho interrotto un
uomo che si era alzato in piedi tra il pubblico dopo una conferenza che avevo tenuto
all'Università della Cisgiordania nel 94 e aveva iniziato a scagliarsi contro le
mie idee "da occidentale" considerandole opposte a quelle fondamentaliste
islamiche da lui esposte. "Perché porta giacca e cravatta?" fu la prima
risposta che mi venne spontanea. "Non sono occidentali anche quelle?". L'uomo
tornò a sedersi con un sorriso imbarazzato, ma questo episodio mi è tornato in mente
quando hanno cominciato a circolare le notizie sulle modalità con cui i terroristi sono
riusciti a gestire tutti i dettagli tecnici necessari a realizzare la loro malvagità
omicida sul World Trade Center e al Pentagono. Dove va tracciato il confine tra la
tecnologia "occidentale" come ha dichiarato Berlusconi, e l'incapacità
"dell'Islam" di far parte della modernità? Quanto sono inadeguate le etichette,
le generalizzazioni? Una decisione unilaterale di tracciare linee nella sabbia,
intraprendere crociate per opporre al loro male il nostro bene, per estirpare il
terrorismo e, nel vocabolario nichilista di Paul Wolfowitz, porre interamente fine alle
nazioni, non rende affatto più facile individuare queste supposte entità, ma piuttosto,
esprime quanto sia più semplice fare affermazioni bellicose al fine di mobilitare le
passioni collettive piuttosto che riflettere, esaminare cercare di capire che cosa stiamo
in realtà affrontando, l'interconnessione di innumerevoli vite, "nostre" quanto
"loro".
Fu Conrad a comprendere che le distinzioni tra la Londra civilizzata e il "Cuore di
tenebra" facevano presto a crollare in situazioni estreme, e che le vette della
civiltà europea potevano trasformarsi all'istante nelle pratiche più barbare senza
preavviso né transizione. Sempre Conrad ne "L'agente segreto" (1907) descrisse
l'attrazione del terrorismo per astrazioni come la "scienza pura" (e per
estensione, per "l'Islam" o "l'Occidente") e il fondamentale degrado
morale dei terroristi.
Esistono legami più stretti tra civiltà apparentemente in guerra tra loro di quanto alla
maggior parte di noi piaccia credere e, come hanno dimostrato sia Freud che Nietzsche, il
traffico tra confini attentamente salvaguardati, persino presidiati, avviene con una
facilità che spesso spaventa. Ma poi queste idee fluide, piene di ambiguità e
scetticismo riguardo a concetti cui restiamo aggrappati, stentano a fornirci orientamenti
appropriati e pratici per affrontare situazioni simili a quella attuale. Da qui gli ordini
di battaglia tutto sommato più rassicuranti (una crociata, il bene contro il male, la
libertà contro la paura ecc.) tratti dall'opposizione tra Islam e Occidente teorizzata da
Huntington, dalla quale la retorica ufficiale ha derivato nei primi giorni il suo
vocabolario. Quella retorica ha notevolmente smorzato i toni da allora, ma a giudicare
dalla percentuale consolidata di discorsi e azioni ispirati all'odio, il paradigma resta
valido.
Un'ulteriore motivo per cui resiste è l'accresciuta presenza di musulmani in tutta Europa
e negli Stati Uniti. L'Islam non è più al margine dell'Occidente, ma al suo centro. Ma
che c'è di così minaccioso in questa presenza? Sepolti nella cultura collettiva
giacciono i ricordi delle prime grandi conquiste Araboislamiche iniziate nel settimo
secolo che, come scrisse l'illustre storico belga Henri Perenne nel suo fondamentale
saggio "Maometto e Carlo Magno" (1939), mandarono in frantumi una volta per
tutte l'antica unità del Mediterraneo, distrussero la sintesi Cristianoromana e diedero
vita ad una nuova civiltà, dominata dai poteri nordici (La Gemania e la Francia dei
Carolingi) la cui missione, sembra intendere Perenne, è di prendere le difese
dell'"Occidente" contro i suoi nemici storicoculturali. Ciò che l'autore omette
di dire, ahimè, è che nella creazione di questa nuova linea di difesa l'Occidente
attinse all'umanesimo, alla scienza alla filosofia alla sociologia e alla storiografia
dell'Islam, che si era già interposta tra il mondo di Carlomagno e l'antichità classica.
L'Islam è inserito fin dall'inizio, come anche Dante, grande nemico di Maometto, dovette
ammettere quando collocò il Profeta proprio al centro del suo Inferno.
Permane poi l'eredità del monoteismo stesso, le religioni abramiche, come ben le definì
Louis Massignon. A iniziare dall'Ebraismo e dal Cristianesimo ogni religione è
ossessionata dal fantasma di ciò che la ha preceduta: per i Musulmani l'Islam realizza e
conclude la linea della profezia. Non c'è ancora un adeguato passato di demistificazione
della disputa su più fronti tra questi tre seguaci del più geloso di tutti gli dei, che
in nessun caso rappresentano una fazione monolitica, unificata, anche se la moderna
sanguinosa convergenza sulla Palestina fornisce un forte esempio secolare delle divergenze
che si sono rivelate così tragicamente inconciliabili. Non sorprende quindi che musulmani
e cristiani siano pronti a parlare di crociate e di jihad, elidendo la presenza ebraica
con noncuranza spesso sublime. Un programma simile, dice Eqbal Ahmad, "risulta molto
rassicurante per gli uomini e le donne che si trovano incagliati nel bel mezzo delle acque
profonde della tradizione e della modernità".
Ma noi tutti nuotiamo in queste acque, occidentali, musulmani e altri, allo stesso modo. E
poiché le acque fanno parte dell'oceano della storia, cercare di dividerle con barriere
è inutile. Viviamo momenti di tensione ma è meglio pensare in termini di comunità che
detengono il potere e comunità che ne sono prive, di secolari politiche di raziocinio e
ignoranza, e di principi universali di giustizia e ingiustizia, piuttosto che smarrirsi in
astrazioni che possono essere fonte di soddisfazione momentanea ma producono scarsa
autoconsapevolezza. La tesi dello "scontro di civiltà" è una trovata tipo
"Guerra dei mondi", più adatta a rafforzare un amor proprio diffidente che la
conoscenza critica della sorprendente interdipendenza del nostro tempo.
Copyright Edward Said
(Traduzione di Emilia Benghi) |