SULL' ORLO DI UNA GUERRA Sun Tzu, Cina, l' arte della
guerra, scritto oltre 2.500 anni fa "Soltanto coloro che calcolano molto
vinceranno; coloro che calcolano poco non vinceranno e tantomeno vinceranno
coloro che non calcolano affatto".
Per loro quello delle armi non è un mestiere ma una missione. La civiltà
musulmana, un tempo grande e temuta, si sente ora sempre più marginalizzata,
umiliata e offesa dallo strapotere dell' Occidente. L' Islam è una grande e
inquietante religione con una sua tradizione di atrocità e di delitti (come
tante altre fedi peraltro) ma è assurdo pensare che si possa cancellarla dalla
faccia della Terra. Il mondo non
è più quello che conoscevamo, le nostre vite sono definitivamente
cambiate. Forse questa è l' occasione per pensare diversamente da
come abbiamo fatto finora, l' occasione per reinventarci il futuro e
non rifare il cammino che ci ha portato all' oggi e potrebbe domani
portarci al nulla. Mai come ora la sopravvivenza dell' umanità è
stata in gioco. Non c' è niente di più pericoloso in una guerra - e
noi ci stiamo entrando - che sottovalutare il proprio avversario,
ignorare la sua logica e, tanto per negargli ogni sua possibile
ragione, definirlo un "pazzo". Ebbene, la Jihad islamica,
quella rete clandestina e internazionale che fa ora capo allo sceicco
Osama Bin Laden e che, con ogni probabilità, ha avuto la mano nell'
allucinante attacco-sfida agli Stati Uniti, è tutt' altro che un
fenomeno di "pazzia" e, se vogliamo trovare una via d'
uscita dal tunnel di sgomento in cui ci sentiamo gettati, dobbiamo
capire con chi abbiamo a che far e e perché. Nessun giornalista
occidentale è riuscito a passare del tempo con Bin Laden e a
osservarlo da vicino, ma alcuni hanno potuto avvicinare e ascoltare la
sua gente. A me capitò, nel 1996, di passare una giornata in uno dei
campi di addestramento che lui finanziava al confine fra il Pakistan e
l' Afghanistan. Ne uscii sgomento e impaurito. Per tutto il tempo in
mezzo ai mullah, duri e sorridenti, e tanti giovani dagli sguardi
freddi e sprezzanti, mi ero sentito un appestato, il portatore di un
qualche morbo da cui non mi ero mai sentito affetto. Ai loro occhi la
mia malattia era semplicemente il mio essere occidentale,
rappresentante di una civiltà decadente, materialista, sfruttatrice,
insensibile ai valori universali dell' Islam. Ho visto i seguaci di
Bin Laden. Duri, sprezzanti, senza dubbi Dobbiamo capire con chi
abbiamo a che fare per trovare una via d' uscita Avevo provato sulla
pelle la conferma che, con la caduta del muro di Berlino e la fine del
comunismo, la sola ideologia ancora determinata ad opporsi al Nuovo
Ordine, che, con l' America in testa, prometteva pace e prosperità al
mondo globalizzato, era quella versione fondamentalista e militante
dell' Islam. L' avevo intuito per la prima volta viaggiando nelle
repubbliche musulmane dell' Asia Centrale ex sovietica e l' avevo
sentito con la stessa precisione incontrando i guerriglieri
anti-indiani nel Kashmir e intervistando uno dei loro capi spirituali
che mi salutò dandomi in regalo una copia del Corano - la mia prima -
perché ci "imparassi qualcosa". Vedendo e rivedendo,
allibito come tutti, le immagini degli aerei che si schiantavano
facendo una carneficina nel centro di New York, così come nei giorni
prima leggendo le notizie degli uomini-bomba palestinesi che si
facevano saltare in aria mietendo vittime per le strade di Israele, mi
tornavano in mente quei giovani di varie nazionalità, ma di una
unica, ferma fede, che avevo visto in quel campo di addestramento:
erano gente di un altro pianeta, di un altro tempo, gente che
"crede" come noi stessi abbiamo saputo fare in passato, ma
non sappiamo più, gente che considera il sacrificio della propria
vita per una causa "giusta" come una cosa "santa".
Quei giovani erano d' una pasta che noi abbia mo difficoltà ad
immaginare: indottrinati, abituati ad una vita spartanissima, ritmata
da una stretta routine di esercizi, studio e preghiere, una vita tutta
disciplina, senza donne prima del matrimonio, senza alcol, senza
droghe. Per Bin Laden e la sua gente quello delle armi non è un
mestiere, è una missione che ha radici nella fede acquisita nell'
ottusità delle scuole coraniche, ma soprattutto nel profondo senso di
scacco e di impotenza, nell' umiliazione di una civiltà - quella
musulmana - un tempo grande e temuta, che si vede ora sempre più
marginalizzata e offesa dallo strapotere e dall' arroganza dell'
Occidente. E' un problema che varie altre civiltà hanno dovuto
affrontare nel corso dei due secoli passati. Quell' umiliazione la
provarono i cinesi davanti "alle barbe rosse" degli inglesi
che imposero loro il commercio dell' oppio, la provarono i giapponesi
davanti alle "navi nere" dell' ammiraglio americano Perry
che voleva aprire il Giappone al commercio. La prima reazione fu di
smarrimento. Come poteva la loro civiltà, di gran lunga superiore a
quella degli stranieri-invasori, essere messa al muro e resa così
impotente? I cinesi cercarono una soluzione innanzitutto con un
ritorno alla tradizione (la rivolta dei Boxer), poi imboccando la via
della modernizzazione di stile sovietico e ultimamente di stile
occidentale. I giapponesi, già alla fine dell' Ottocento, fecero
questo salto tutto in una volta, mettendosi a imitare ossessivamente
tutto ciò che era occidentale, copiando le uniformi degli eserciti
europei, l' architettura delle nostre stazioni e imparando a ballare
il valzer. Occidente diabolico Questo problema del come sopravvivere
al confronto con l' Occidente, mantenendo una propria identità, si è
posto ovviamente nel Novecento anche per i musulmani e anche nel loro
caso le risposte hanno oscillato fra il rifugio nel tradizionale, come
nel caso dello Yemen o dei Wahabi, e varie forme di
occidentalizzazione: la più ardita e radicale è stata quella attuata
in Turchia da Kemal Ataturk il quale negli anni Venti, riscrivendo la
Costituzione, togliendo il velo alle donne, sostituendo la legge
islamica con una copia del codice civile svizzero e una di quello
penale italiano, mise il suo Paese sulla strada che oggi sta portando
Istanbul, pur con qualche sussulto, a diventare parte della Comunità
Europea. Per i fondamentalisti questa occidentalizzazione del mondo
islamico è un anatema e mai come ora questo processo minaccia ai loro
occhi la sua ide ntità. Secondo loro, con la fine della Guerra Fredda
l' Occidente ha scoperto le sue carte e sempre più chiaro appare il
progetto - per loro "diabolico" - di incorporare l' intera
umanità in un unico sistema globale che, grazie alla tecnologia in
suo possesso, dia all' Occidente l' accesso e il controllo di tutte le
risorse del mondo, comprese quelle che il Creatore - non a caso,
secondo i fondamentalisti - ha messo nelle terre dove è nato e si è
esteso l' Islam: dal petrolio del Medio Oriente a l legname delle
foreste indonesiane. Guerra agli Usa E' solo negli ultimi dieci anni
che questo fenomeno della globalizzazione, o meglio della
americanizzazione, si è rivelato nella sua ampiezza. Ed è
esattamente nel 1991 che Bin Laden, fino allora un protegé
degli americani (il suo primo lavoro in Afghanistan fu quello di
costruire per la Cia i grandi bunker sotterranei per lo stoccaggio
delle armi destinate ai mujaheddin), si rivolta contro Washington. Lo
stazionamento di truppe americane nel suo Paese, l' Arabia Saudita,
durante e dopo la guerra del Golfo, gli parve un insopportabile
affronto e una violazione della santità dei luoghi sacri dell' Islam.
La posizione di Osama Bin Laden divenne chiara nel 1996 quando lanciò
la sua prima dichiarazione di guerra contro gli Stati Uniti: "Le
pareti di oppressione e umiliazione non possono essere abbattute che
con una grandine di pallottole". Nessuno lo prese molto sul
serio. Ancora più esplicito fu il manifesto della sua organizzazione,
Al Qaeda, reso noto nel 1998 dopo una riunione dei vari gruppi
associati a Bin Laden. "Da sette anni gli Stati Uniti occupano le
terre dell' Islam nella penisola araba, saccheggiando le nostre
ricchezze, imponendo la loro volontà ai nostri governanti,
terrorizzando i nostri vicini e usando le loro basi militari nella
penisola per combattere i popoli musulmani vicini". L' appello
rivolto a tutti i musulmani fu quello di "confrontare, combattere
e uccidere" gli americani. L' obiettivo dichiarato di Bin Laden
è la liberazione del Medio Oriente. Quello sognato in nome dell'
eroico passato è forse molto più vasto. I primi attacchi della jihad
sono sferrati contro le ambasciate americane in Africa e provocano
decine e decine di morti. Washington risponde bombardando le basi di
Bin Laden in Afghanistan e una fabbrica di medicinali in Sudan
provocando centinaia, altri dicono migliaia di vittime civili (il
numero esatto non fu mai accertato perché gli Stati Uniti bloccarono
un' inchiesta dell' On u sull' incidente). La controrisposta di Bin
Laden è venuta ora a New York e a Washington. Non potendo colpire i
piloti dei B-52 che sganciano le loro bombe da altezze
irraggiungibili, né arrivare ai marinai che lanciano i loro missili
dalle navi al largo, la soluzione è quella terroristica di attaccare
masse di civili indifesi. Le azioni di questi uomini sono atroci, ma
non sono gratuite, sono atti di guerra, una guerra che da tempo non è
più quella cavalleresca, una guerra in cui il bombardamento di
popolazioni inermi è già stato un fenomeno comune a tutti i
belligeranti dell' ultimo conflitto mondiale, da quello dei V2
tedeschi su Londra, al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki
col suo bilancio di oltre duecentomila morti: tutti civili. Da tempo
ormai si combattono con mezzi e metodi nuovi guerre non dichiarate,
lontano dagli occhi del mondo che si illude oggi di vedere e capire
tutto solo perché assiste in diretta al crollo delle Torri Gemelle.
Dal 1983 gli Stati Uniti han no bombardato a più riprese nel Medio
Oriente Paesi come il Libano, la Libia, l' Iran e l' Irak. Dal 1991 l'
embargo imposto dagli Stati Uniti all' Irak di Saddam Hussein dopo la
guerra del Golfo ha fatto, secondo stime americane, circa mezzo
milione di morti, molti dei quali bambini a causa della malnutrizione.
Cinquantamila morti all' anno sono uno stillicidio che certo genera in
Irak e in chi si identifica con l' Irak una rabbia simile a quella che
l' ecatombe di New York ha generato nell' America e di conseguenza
anche in Europa. Importante è capire che fra queste due rabbie esiste
un legame. Ciò non significa confondere le vittime coi boia,
significa solo rendersi conto che, se vogliamo capire il mondo in cui
siamo, lo dobbiamo vedere nel suo insieme e non solo dal nostro punto
di vista. Non si può capire quel che ci sta succedendo solo a sentire
le dichiarazioni dei politici, costretti come sono a ripetere formule
retoriche, condizionati a reagire alla vecchia maniera a una
situazione completamente nuova e incapaci di ricorrere alla fantasia
per suggerire ad esempio che, invece di fare la guerra, questo è il
momento di fare finalmente la pace, a cominciare da quella fra
israeliani e palestinesi. Invece guerra sarà. In queste ore una
strana coalizione si sta mettendo in moto attraverso gli automatismi
di trattati nati per un fine e ora usati per un altro e attraverso l'
adesione di Paesi come la Cina, la Russia e forse anche l' India,
ognuno spinto dai propri interessi strettamente nazionalistici. Per la
Cina la guerra mondiale contro il terrorismo è una buona occasione
per cercare di risolvere i suoi vecchi problemi con le popolazioni
islamiche nei suoi territori di confine. Per la Russia di Putin è un'
occasione per risolvere innanzitutto il problema della Cecenya e
mettere a tacere tutte le accuse per le spaventose violazioni dei
diritti umani da parte delle truppe di Mosca laggiù. Lo stesso è
vero per l' India e il suo annoso conflitto per il controllo del
Kashmir. Il problema è che sarà estremamente difficile fare apparire
questa guerra solo come una campagna contro il terrorismo e non come
una guerra contro l' Islam. Stranamente la coalizione che oggi si sta
formando assomiglia molto a quella che sec oli fa l' Islam si trovò a
combattere su due fronti: a Occidente i Crociati, a Oriente le tribù
nomadi dell' Asia Centrale e i mongoli. In quella occasione i
musulmani resistettero e finirono per convertire all' Islam gran parte
dei loro avversari. Questa è la scommessa che Bin Laden e i suoi
possono aver fatto sferrando il loro attacco al cuore dell' America.
Forse contano proprio su una rappresaglia del mondo occidentale per
coagulare una massiccia resistenza islamica e fare di quella che oggi
è una minoranza, pur determinata, un fenomeno più esteso. L' Islam
si presta bene, per la sua semplicità e il suo innato carattere di
militanza, a essere l' ideologia dei dannati della Terra, di quelle
masse di poveri che oggi affollano, disperate e discriminate, il Terzo
Mondo occidentalizzato. Intreccio di interessi Più che rimuovere i
terroristi e chi li ha appoggiati (forse ci sorprenderà sapere quanti
personaggi, alcuni anche insospettabili, sono coinvolti), sarebbe più
saggio rimuovere le ragioni che spingono tanta gente, soprattutto fra
i giovani, nelle file della jihad e fanno loro apparire come una
missione il compito di uccidersi e di uccidere. Se noi davvero
crediamo nella santità della vita, dobbiamo accettare la santità di
tutte le vite. O siamo invece pronti ad accettare le centinaia, le
migliaia di morti - anche quelli civili e disarmati - che saranno
vittime della nostra rappresaglia? Basterà alle nostre coscienze che
quei morti ci vengano presentati, nel gergo da pubbliche relazioni dei
militari americani, come "danni collaterali"? Dipende da
quel che noi faremo, da come reagiremo a questa orribile provocazione,
da come vedremo la nostra storia di ora nella scala della storia dell'
umanità, il tipo di futuro che ci aspetta. Il problema è che fino a
quando penseremo di avere il monopolio del "bene", fino a
che parleremo della nostra come la civiltà, ignorando le altre, non
saremo sulla buona strada. L' Islam è ovunque L' Islam è una grande
e inquietante religione con una sua tradizione di atrocità e di
delitti (come tante altre fedi peraltro), ma è assurdo pensare che un
qualsiasi cowboy, pur armato di tutte le pistole del mondo, possa
cancellare questa fede dalla faccia della Terra. Meglio sarebbe
aiutare i musulmani stessi a isolare, invece che renderle più
virulente, le frange fondamentaliste e a riscoprire l' aspetto più
spirituale della loro fede. L' Islam è ormai ovunque. Nell' America
stessa ci sono ormai tanti musulmani quanto ebrei (sei milioni, la
gran parte, non a caso, afro-americani, attirati dal fatto che l'
Islam è stato fin dal suo inizio al di sopra del concetto di razza).
Sul territorio americano ci sono già 1.400 moschee, una persino nella
base navale di Norfolk. Non dobbiamo farci ora trascinare da visioni
parziali della realtà, non dobbiamo diventare ostaggi della retorica
a cui oggi ricorre chi è a corto di idee per riempire il silenzio di
sbigottimento. Il pericolo è che, a causa di questi tragici, orribili
dirottamenti, finiamo noi stessi, come esseri umani, per essere
dirottati da quella che è la nostra missione sulla Terra. Gli
americani l' hanno descritta nella loro costituzione come "il
perseguimento della felicità". Bene: perseguiamo tutti assieme
questa felicità, dopo averla magari ridefinita in termini non solo
materiali e dopo esserci convinti che noi occidentali non possiamo
perseguire una nostra felicità a scapito della felicità di altri e
che, come la libertà, anche la felicità è indivisibile. L '
ecatombe di New York ci ha dato l' occasione di ripensare a tutto e ci
ha messo dinanzi a nuove scelte. Quella più immediata è di
aggiungere o togliere al fondamentalismo islamico le sue ragioni di
essere, di trasformare i balli dei palestinesi, da macabre esultazioni
per una tragedia altrui, in espressioni di gioia per una loro
riguadagnata dignità. Altrimenti ogni bomba o missile che cadrà
sulle popolazioni del mondo non-nostro non farà che seminare altri
denti di drago, e dar vita a nuovi giovani disposti a urlare
"Allah Akbar", Allah è grande, pilotando un altro aereo
carico di innocenti contro un grattacielo o, domani, lasciando una
bomba batteriologica o una atomica tascabile in qualche nostro
supermercato. Solo se riusciremo a vedere l' universo come un tutt'
uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande
bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e
dove stiamo. Altrimenti saremo solo come la rana del proverbio cinese
che, dal fondo di un pozzo, guarda in su e crede che quel che vede sia
tutto il cielo. Duemilacinquecento anni fa un indiano, chiamato poi
"illuminato", spiegava una cosa ovvia: che "l' odio
genera solo odio" e che "l' odio si combatte solo con l'
amore". Pochi l' hanno ascoltato. Forse è venuto il momento.
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