PESHAWAR - Sono venuto in questa città di frontiera per essere
più vicino alla guerra, per cercare di vederla coi miei occhi, di
farmene una ragione; ma, come fossi saltato nella minestra per sapere
se è salata o meno, ora ho l’impressione di affogarci dentro. Mi
sento andare a fondo nel mare di follia umana che, con questa guerra,
sembra non avere più limiti. Passano i giorni, ma non mi scrollo di
dosso l’angoscia: l’angoscia di prevedere quel che succederà e di
non poterlo evitare, l’angoscia di essere un rappresentante della
più moderna, più ricca, più sofisticata civiltà del mondo ora
impegnata a bombardare il Paese più primitivo e più povero della
Terra; l’angoscia di appartenere alla razza più grassa e più sazia
ora impegnata ad aggiungere nuovo dolore e miseria al già stracarico
fardello di disperazione della gente più magra e più affamata del
pianeta. C’è qualcosa di immorale, di sacrilego, ma anche di
stupido - mi pare - in tutto questo. A tre settimane dall’inizio dei
bombardamenti anglo-americani dell’Afghanistan la situazione
mondiale è molto più tesa ed esplosiva di quanto lo fosse prima. I
rapporti fra israeliani e palestinesi sono in fiamme, quelli fra
Pakistan e India sono sul punto di rottura; l’intero mondo islamico
è in agitazione e ogni regime moderato di quel mondo, dall’Egitto
all’Uzbekistan, al Pakistan stesso, subisce la montante pressione
dei gruppi fondamentalisti.
Nonostante tutti i missili, le bombe e le operazioni segretissime dei
commandos , mostrateci in piccoli spezzoni del Pentagono, come per
farci credere che la guerra è solo un videogame, i talebani sono
ancora saldamente al potere, la simpatia nei loro confronti cresce all’interno
dell’Afghanistan, mentre diminuisce invece in ogni angolo del mondo
il senso della nostra sicurezza.
"Sei musulmano?", mi chiede un giovane quando mi fermo al
bazar a mangiare una focaccia di pane azzimo.
"No".
"Allora che ci fai qui? Presto vi ammazzeremo tutti".
Attorno tutti ridono. Sorrido anch’io.
Lo chiamano Kissa Qani, il "bazar dei raccontastorie".
Ancora una ventina d’anni fa, era uno degli ultimi, romantici
crocevia dell’Asia pieno delle più varie mercanzie e varie genti.
Ora è una sorta di camera a gas con l’aria irrespirabile per le
esalazioni e le folle sempre più in mal arnese a causa dei tantissimi
rifugiati e mendicanti. Fra le vecchie storie che ci si raccontavano c’era
quella di Avitabile, un napoletano soldato di ventura arrivato qui a
metà dell’Ottocento con un amico di Modena e diventato governatore
di questa città. Per tenerla in pugno, ogni mattina all’ora di
colazione faceva impiccare un paio di ladri dal minareto più alto
della moschea e per decenni ai bambini di Peshawar è stato detto:
"Se non sei buono, ti do ad Avitabile". Oggi le storie che
si raccontano al bazar sono tutte sulla guerra americana
Alcune, come quella secondo cui l’attacco
a New York e Washington è stato opera dei servizi segreti di Tel Aviv
- per questo nessun israeliano sarebbe andato a lavorare nelle Torri
Gemelle l’11 settembre -, e quella secondo cui l’antrace per posta
è una operazione della Cia per preparare psicologicamente gli
americani a bombardare Saddam Hussein, sono già vecchie, ma
continuano a circolare e soprattutto a essere credute. L’ultima è
che gli americani si sarebbero resi conto che con le bombe non
riescono a piegare l’Afghanistan e hanno ora deciso di lanciare
sacchi pieni di dollari sulla gente. "Ogni missile costa due
milioni di dollari. Ne hanno già tirati più di cento. Pensa: se
avessero dato a noi tutti quei soldi, i talebani non sarebbero più al
potere", dice un vecchio rifugiato afghano, ex comandante di un
gruppo di mujaheddin anti-sovietici, venuto a sedersi accanto a me.
L’idea che gli americani son pieni di soldi e disposti a essere
generosi con chi sia disposto a schierarsi dalla loro parte è
diffusissima. Giorni fa alcune centinaia di capi religiosi e tribali
della comunità afghana in esilio si sono riuniti in un grande
anfiteatro nel centro di Peshawar per discutere del futuro dell’Afghanistan
"dopo i talebani". Per ore e ore dei bei, barbutissimi
signori - ottimi per i primi piani delle televisioni occidentali - si
sono avvicendati al microfono a parlare di "pace e unità",
ma nei loro discorsi non c’era alcuna passione, non c’era alcuna
convinzione. "Son qui solo per registrare il loro nome e cercare
di raccogliere fondi americani", diceva un vecchio amico, un
intellettuale pakistano, di origine pashtun come quella gente.
"Ognuno guarda l’altro chiedendosi "e tu quanto hai già
avuto?". Quel che gli americani dimenticano è un nostro vecchio
proverbio: un afghano si affitta, ma non si compra".
Per gli americani la riunione di Peshawar era il primo importante
passo per quella che, sulla carta, pareva loro la ideale soluzione
politica del problema afghano: far tornare il re Zahir Shah,
installare a Kabul un governo in cui tutti fossero rappresentati -
compresi alcuni capi talebani moderati - e mandare l’esercito del
nuovo regime a caccia degli uomini di Al Qaeda, risparmiando così il
lavoro e i rischi ai soldati della coalizione.
Ma le soluzioni sulla carta non sempre funzionano
sul terreno, specie quando questo terreno è l’Afghanistan.
Già l’idea che il vecchio re del passato, in esilio a Roma da trent’anni,
possa ora giocare un ruolo nel futuro del paese è una illusione di
chi crede di poter rifare il mondo a tavolino, è una pretesa di quei
diplomatici che non escono dalle loro stanze ad aria condizionata.
Basta andare fra la gente per rendersi conto che il vecchio sovrano
non gode di quel prestigio che le cancellerie occidentali - specie
quella italiana - gli attribuiscono e che il suo non essersi mai fatto
vedere, il suo non aver mai visitato un campo di rifugiati viene preso
come una indicazione di indifferenza per la sofferenza del suo popolo.
"Bastava che al tempo dell’invasione sovietica si fosse fatto
fotografare con un fucile in mano ed avesse sparato un colpo in aria.
Oggi lo rispetterebbero - dice l’amico - ... e poi, poteva almeno l’anno
scorso essere andato in pellegrinaggio alla Mecca, il che, coi tempi
che corrono, gli avrebbe dato un po’ di rilievo anche dal punto di
vista religioso".
A parte il re, l’altro uomo su cui gli americani contavano per il
loro gioco era Abdul Haq, uno dei più prestigiosi comandanti della
resistenza anti-sovietica, tenutosi poi fuori dalla guerra civile che
seguì. "Non è qui. E’ andato in Afghanistan" si diceva
durante la conferenza di Peshawar, alludendo ad una
"missione" che sarebbe stata decisiva per il futuro. L’idea
ovvia era che Abdul Haq, col suo prestigio e il suo grande ascendente
sui tanti vecchi mujaheddin alleatisi coi talebani, avrebbe staccato
dal regime del Mullah Omar alcuni comandanti regionali e avrebbe
potuto marciare su Kabul alla testa di gruppi pashtun quando la
capitale fosse stata presa dalla Alleanza del Nord, che i pashtun ed i
pakistani non vogliono assolutamente vedere al potere.
La "missione" di Abdul Haq non è
durata a lungo. I talebani lo hanno seguito appena quello è entrato
in Afghanistan, dopo alcuni giorni lo hanno catturato e nel giro di
poche ore lo hanno giustiziato come un "traditore" assieme a
due suoi seguaci. Gli americani con tutta la loro attrezzatura
elettronica ed i loro super-elicotteri non sono riusciti a salvarlo.
Il presupposto di tutta questa manovra americana per una soluzione
politica era comunque che il regime dei talebani si sfaldasse, che
sotto la pressione delle bombe cominciassero le defezioni e che nel
paese si creasse un vuoto di potere. Ma tutto questo non è successo.
Anzi. Ogni indicazione è che i talebani sono ancora fermamente in
carica. Catturano giornalisti occidentali che si avventurano oltre la
frontiera e fanno sapere, per scoraggiare altri tentativi, di non
avere più spazio, né cibo per detenerne altri. "Le varie
inchieste sono in corso. Verranno tutti giudicati secondo la sharia,
la legge coranica", dicono, come farebbe un qualsiasi stato
sovrano. I talebani passano decreti, fanno comunicati per smentire
notizie false e continuano a sfidare la strapotenza americana non
cedendo terreno e promettendo morte agli afghani che si schierano con
il nemico.
Non solo. Il fatto che i talebani siano ora attaccati da degli
stranieri, fa sì che anche chi aveva poca o nessuna simpatia per il
loro regime, ora si schiera dalla loro parte. "Quando un melone
vede un altro melone, ne prende il colore", dicono i pashtun.
Dinanzi agli stranieri, visti di nuovo come invasori, gli afghani
diventano sempre più dello stesso colore.
Per gli americani, già sotto enorme pressione internazionale per la
stupidità delle loro bombe intelligenti che continuano a cadere su
gente inerme e di nuovo sui magazzini della Croce Rossa, la guerra
aerea s’è rivelata un completo fallimento, quella politica uno
smacco.
Avevano cominciato la campagna afghana dicendo di
volere Osama Bin Laden, "vivo o morto", e hanno presto
ripiegato sul voler catturare o uccidere il Mullah Omar, capo dei
talebani, sperando che questo avrebbe fatto vacillare il regime, ma
finora quel che son riusciti a fare, oltre a qualche centinaio di
vittime civili, è terrorizzare la popolazione delle città già
ridotte a macerie. Le Nazioni Unite calcolano che le bombe hanno fatto
fuggire da Kandahar, Kabul e Jalalabad il 75% degli abitanti.
Questo vuol dire che almeno un milione e mezzo di persone sono ora
senza tetto, si aggirano nelle montagne del paese e si aggiungono ai
sei milioni che, sempre secondo le Nazioni Unite, erano già "a
rischio" per mancanza di cibo e protezione prima dell’11
settembre.
"Quelli sono gli innocenti di cui dobbiamo occuparci - dice un
funzionario internazionale -. Quelli che non hanno nulla a che fare
col terrorismo, quelli che non leggono i giornali, che non guardano la
Cnn. Molti di loro non sanno neppure che cosa è successo alle Torri
Gemelle". Quel che tutti sanno invece è che bombe, le bombe che
giorno e notte distruggono, uccidono e scuotono la terra come in un
costante terremoto, le bombe sganciate dagli aerei d’argento che
piroettano nel cielo di lapislazzulo dell’Afghanistan, sono bombe
inglesi e americane e questo coagula l’odio dei pashtun, degli
afghani e più in generale dei musulmani contro gli stranieri. Ogni
giorno di più l’ostilità è ovvia sulla faccia della gente.
Ero andato al bazar perché volevo vedere quanti
avrebbero partecipato alla manifestazione pro-talebani che si tiene di
routine nella vecchia Peshawar dopo la preghiera di mezzo giorno, ma l’amico
pashtun mi aveva avvertito che il numero dei dimostranti non vuol dire
ormai nulla. "I duri non marciano più, si arruolano. Vai nei
villaggi", m’aveva detto.
L’ho fatto e per un giorno e una notte, in compagnia di due studenti
universitari che in quella regione sembrava conoscessero tutti e
tutto, ho gettato uno sguardo su un mondo la cui distanza dal nostro
non è misurabile in chilometri, ma in secoli: un mondo che dobbiamo
capire a fondo se vogliamo evitare la catastrofe che ci sta davanti.
La regione in cui sono stato è a due ore di macchina da Peshawar, a
mezza strada dal confine afghano-pakistano. Per le popolazioni di qui
la frontiera - anche quella stabilita a tavolino oltre cento anni fa
da un funzionario inglese - non esiste.
Dall’una e dall’altra parte di quella innaturale divisione
politica fra identiche montagne vive un’identica gente: i pashtun
(detti anche pathan) che in Afghanistan sono la maggioranza, in
Pakistan una minoranza. I pashtun, prima che afghani o pakistani, si
sentono pashtun e il sogno di un Pashtunstan, uno stato che aggreghi
tutti i pashtun non è mai completamente tramontato. I pashtun sono i
temuti guerrieri dell’Afghanistan; sono loro che gli inglesi non
riuscirono mai a sconfiggere. "Un pashtun ama il suo fucile più
di suo figlio - dicevano dei loro nemici gli ufficiali di Sua Maestà
-. Coraggiosi come leoni, selvaggi come gatti, ingenui come
bambini". I talebani sono pashtun e quasi esclusivamente pashtun
sono le zone in cui ora cadono le bombe americane. "Mio padre è
sempre stato un liberale e un moderato, ma dopo i bombardamenti anche
lui parla come un talebano e sostiene che non c’è alternativa alla
jihad", diceva uno dei miei studenti, mentre lasciavamo Peshawar.
La strada correva fra piantagioni di canna da
zucchero. In lontananza le prime montagne. Sui muri bianchi che
dividono i campi, spiccavano grandi slogan dipinti di fresco. "La
jihad è il dovere della nazione", "Un amico degli americani
è un traditore", "La jihad durerà fino al giorno del
giudizio". Il più strano era: "Il profeta ha ordinato la
jihad contro l’India e l’America".
Nessuno qui si chiede se al tempo del Profeta, mille e quattrocento
anni fa, l’India e l’America esistessero già. Ma è appunto
questa accecante mistura di ignoranza e di fede a essere esplosiva ed
a creare, attraverso la più semplicistica e fondamentalista versione
dell’Islam, quella devozione alla guerra e alla morte con cui
abbiamo deciso, forse un po’ troppo avventatamente, di venirci a
confrontare.
"Quando uno dei nostri salta su una mina o viene dilaniato da una
bomba, prendiamo i pezzi che restano, i brandelli di carne, le ossa
rotte, mettiamo tutto nella stoffa di un turbante e seppelliamo quel
fagotto lì, nella terra. Noi sappiamo morire, ma gli americani? Gli
inglesi? Sanno morire così?". Dal fondo della stanza un altro
uomo barbuto, ricordandosi da dove, presentandomi, ho detto di venire,
apre un giornale in Urdu e ad alta voce legge una breve notizia in cui
si dice che anche l’Italia si è offerta di mandare navi e soldati e
il mio interlocutore personalizza la sua sfida: "...e voi
italiani allora? Siete pronti a morire così? Perché anche voi venite
qui a uccidere la nostra gente, a distruggere le nostre moschee? Che
direste se noi venissimo a distruggere le vostre chiese, se venissimo
a radere al suolo il vostro Vaticano?". Siamo in una sorta di
rudimentalissimo ambulatorio in un villaggio a qualche decina di
chilometri dal confine afghano. Negli scaffali polverosi ci sono delle
polverose medicine; al muro una bandiera verde e nera con al centro un
sole in cui è scritto "Jihad". Attorno al
"dottore" che mi parla si sono riuniti una decina di
giovani: alcuni sono veterani della guerra, altri ci stanno per
andare. Uno è appena tornato dal fronte e racconta dei bombardamenti.
Dice che gli americani sono codardi perché sparano dal cielo,
scappano e non osano combattere faccia a faccia. Dice che il Pakistan
impedisce ai profughi di entrare nel paese e che tanti civili, feriti
nei bombardamenti di Jalalabad, muoiono ora dall’altra parte del
confine per mancanza delle più semplici cure.
L’atmosfera è tesa. Qui, ancora più che al bazar, tutti sono
assolutamente convinti che quella in corso è una grande
congiura-crociata dell’Occidente per distruggere l’Islam, che l’Afghanistan
è solo il primo obbiettivo e che l’unico modo di resistere è per
tutto il mondo islamico di rispondere all’appello per la guerra
santa. "Vengano pure gli americani, così ci potremo procurare
delle buone scarpe, togliendole ai cadaveri - dice uno dei giovani - a
voi la guerra costa tantissimo. A noi nulla. Non sconfiggerete mai l’Islam".
Come non rendersi conto che per combattere il
terrorismo siamo venuti a uccidere innanzitutto degli innocenti e con
ciò ad aizzare ancor più un cane che giaceva? Come non vedere che
abbiamo fatto un passo nella direzione sbagliata, che siamo entrati in
una palude di sabbie mobili e che con ogni altro passo finiremo solo
per allontanarci sempre di più dalla via di uscita? Dopo la
conversazione con i fanatici della jihad, quella fra me e me è
continuata per il resto della notte, passata insonne a tenermi lontano
le zanzare. Certo che non è invidiabile una società come quella che
produce dei ragazzi così ottusi e disposti a morire. Ma lo è forse
la nostra? Lo è quella americana? Che accanto agli eroici pompieri di
Manhattan, produce anche gente come il bombarolo di Oklahoma City, gli
attentatori alle cliniche abortiste e forse anche quelli che - il
sospetto cresce - mettono l’antrace nelle buste spedite a mezzo
mondo? Quella su cui avevo appena gettato uno sguardo era una società
carica d’odio. Ma è da meno la nostra che ora, per vendetta o
magari davvero per mettere le mani sulle riserve naturali dell’Asia
Centrale, bombarda un paese che vent’anni di guerra han già ridotto
ad una immensa rovina? Possibile che per proteggere il nostro modo di
vivere, si debbano fare milioni di rifugiati, si debbano far morire
donne e bambini? Per favore, vuole spiegarmi qualcuno esperto in
definizioni, che differenza c’è fra l’innocenza di un bambino
morto nel World Trade Center e quella di uno morto sotto le bombe a
Kabul? La verità è che quelli di New York, sono i "nostri"
bambini, quelli di Kabul invece, come gli altri centomila bambini
afgani che, secondo l’Unicef, moriranno quest’inverno se non
arrivano subito dei rifornimenti, sono i bambini "loro". E
quei bambini loro non ci interessano più. Non si può ogni sera, all’ora
di cena, vedere sullo schermo della tv di casa un piccolo moccioso
afghano che aspetta di avere una pagnotta. Lo si è già visto tante
volte; non fa più spettacolo. Anche a questa guerra ci siamo già
abituati. Non fa più notizia e i giornali richiamano i loro
corrispondenti, le televisioni riducono i loro staff, tagliano sui
collegamenti via satellite dai tetti degli alberghi a cinque stelle di
Islamabad. Il circo va altrove, cerca altre storie, l’attenzione è
già stata anche troppa.
Eppure l’Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di
tornasole della nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà,
della nostra incapacità di capire che la violenza genera solo
violenza e che solo una forza di pace e non la forza della armi può
risolvere il problema che ci sta dinanzi.
"Le guerre cominciano nella mente degli uomini ed è nella mente
degli uomini che bisogna costruire la difesa della pace", dice il
preambolo della costituzione dell’Unesco. Perché non provare a
cercare nelle nostre menti una soluzione che non sia quella brutale e
banale di altre bombe e di altri morti? Abbiamo sviluppato una grande
conoscenza, ma non appunto quella della nostra mente, e ancor meno
quella della nostra coscienza, mi dicevo insonne tentando sempre di
scacciare le zanzare.
La notte è fortunatamente breve. Alle quattro la
voce metallica di un altoparlante comincia a salmodiare dall’alto di
un minareto vicino; altre rispondono in lontananza. Partiamo.
Nella hall dell’albergo dove arrivo a fare colazione è già accesa
la televisione. La prima notizia, all’alba, non è più la guerra in
Afghanistan, ma l’annuncio fatto a Washington del "più grande
contratto di forniture belliche nella storia del mondo".
Il Pentagono ha deciso di affidare alla Lockheed Martin la costruzione
della nuova generazione di sofisticatissimi aerei da caccia: 3.000
pezzi per un valore iniziale di 200 miliardi di dollari. Gli aerei
entreranno in funzione nel 2012.
Per bombardare chi? Mi chiedo. Penso ai ragazzini della madrassa che
nel 2012 avranno giusto vent’anni e mi torna in mente una frase dell’invasato
"dottore": "Se gli americani vogliono combatterci per
quattro anni, noi siamo pronti, se vogliono farlo per 40 anni siamo
pronti. Per 400, siamo pronti".
E noi ? Questo è davvero il momento di capire che la storia si ripete
e che ogni volta il prezzo sale.