"Finché a Kabul non ci sarà un governo che goda della fiducia degli Usa e della nostra compagnia, quell'oleodotto non sarà possibile".
L'audizione di un petroliere al Congresso americano

Quello che segue è il testo dell'audizione di John J. Maresca davanti al sottocomitato per l'Asia e il Pacifico della Camera dei rappresentanti Usa, il 12 febbraio del 1998. Maresca è il vicepresidente delle relazioni internazionali della Unocal Corporation, una delle principali compagnie al mondo per le risorse energetiche e lo sviluppo di progetti.

Il manifesto 17 ottobre 2001

 É bene tener presente l'importanza delle riserve di gas e di petrolio presenti in Asia centrale e il ruolo che queste giocano nel determinare la politica Usa. Vorrei concentrarmi su tre questioni. Primo, la necessità di numerose vie di transito in cui far passare gli oleodotti e i gasdotti per le riserve di petrolio e di gas presenti dell'Asia centrale. Secondo, la necessità che l'America sostenga gli sforzi regionali e internazionali tesi a soluzioni politiche equilibrate e durature dei conflitti nella regione, compreso l'Afghanistan. Terzo, il bisogno di assistenza strutturata per incoraggiare le riforme economiche e lo sviluppo nella regione di un clima appropriato per gli investimenti. A questo proposito, noi sosteniamo in modo specifico l'annullamento o la rimozione della sezione 907 del Freedom Support Act.

La regione del Caspio contiene enormi riserve di idrocarburi intatte. Solo per dare un'idea delle proporzioni, le riserve di gas naturale accertate equivalgono a oltre 236mila miliardi di piedi cubici. Le riserve petrolifere totali della regione potrebbero ammontare a oltre 60 miliardi di barili di petrolio. Alcune stime arrivano fino a 200 miliardi di barili. Nel 1995 la regione produceva solo 870.000 barili al giorno. Entro il 2010 le compagnie occidentali potrebbero aumentare la produzione fino a circa 4,5 milioni di barili al giorno, un aumento di oltre il 500% in soli 15 anni. Se questo dovesse accadere, la regione rappresenterebbe circa il 5% della produzione totale di petrolio al mondo.
C'è tuttavia un grosso problema da risolvere: come portare le vaste risorse energetiche della regione ai mercati che ne hanno bisogno. L'Asia centrale è isolata. Le sue risorse naturali sono sbarrate, sia geograficamente che politicamente. Ciascuno dei paesi del Caucaso e dell'Asia centrale vive difficili sfide politiche. Alcuni paesi hanno guerre irrisolte e conflitti latenti. Altri hanno sistemi in via di trasformazione in cui le leggi e anche i tribunali sono dinamici e mutevoli. Inoltre, un importante ostacolo tecnico che noi dell'industria petrolifera riscontriamo nel trasporto del greggio è l'infrastruttura esistente nella regione per quanto riguarda gli oleodotti.
Essendo stati costruiti durante l'era sovietica, con Mosca come suo centro, gli oleodotti della regione tendono a dirigersi a nord e a ovest verso la Russia. Non ci sono collegamenti verso il sud e l'est. Ma attualmente è improbabile che la Russia possa assorbire altri grossi quantitativi di petrolio straniero. Improbabile che nel prossimo decennio essa possa diventare un mercato significativo in grado di assorbire nuove riserve energetiche. Le manca la capacità di trasportarle ad altri mercati.

Due grossi progetti infrastrutturali stanno cercando di rispondere al bisogno di una maggiore capacità di export. Il primo, sotto l'egida del Caspian Pipeline Consortium, prevede la costruzione di un oleodotto a ovest del Caspio settentrionale fino al porto russo di Novorossiysk nel Mar Nero. Il petrolio viaggerebbe poi con le petroliere attraverso il Bosforo fino al Mediterraneo e ai mercati mondiali.
L'altro progetto è sponsorizzato dall'Azerbaijan International Operating Company, un consorzio di undici compagnie petrolifere straniere tra cui quattro compagnie americane: Unocal, Amoco, Exxon e Pennzoil. Questo consorzio considera possibili due vie di transito. Una di esse si dirigerebbe a nord e attraverserebbe il Caucaso settentrionale fino a Novorossiysk. L'altra attraverserebbe la Georgia fino a un terminale di spedizione sul Mar Nero. Questa seconda via potrebbe essere estesa a ovest e a sud attraverso la Turchia fino al porto di Ceyhan sul Mediterraneo.
Ma anche se entrambi gli oleodotti fossero costruiti, la loro capacità totale non sarebbe sufficiente a trasportare tutto il petrolio che, si pensa, la regione produrrà nel futuro. Essi non avrebbero nemmeno la capacità di arrivare ai mercati giusti. Bisogna costruire altri oleodotti per l'export.

Noi dell'Unocal riteniamo che il fattore centrale nella progettazione di questi oleodotti dovrebbe essere la posizione dei futuri mercati energetici che verosimilmente assorbiranno questa nuova produzione. L'Europa occidentale, l'Europa centrale e orientale e gli stati ora indipendenti dell'ex Unione sovietica sono tutti mercati a crescita lenta, in cui la domanda crescerà solo dallo 0,5% all'1,2% all'anno nel periodo 1995-2010.
L'Asia è tutto un altro discorso. Il suo bisogno di consumo energetico crescerà rapidamente. Prima della recente turbolenza nelle economie dell'Asia orientale, noi dell'Unocal avevamo previsto che la domanda di petrolio in questa regione si sarebbe quasi raddoppiata entro il 2010. Sebbene l'aumento a breve termine della domanda probabilmente non rispetterà queste previsioni, noi riteniamo valide le nostre stime a lungo termine.
Devo osservare che è nell'interesse di tutti che vi siano forniture adeguate per le crescenti richieste energetiche dell'Asia. Se i bisogni energetici dell'Asia non saranno soddisfatti, essi opereranno una pressione su tutti i mercati mondiali, facendo salire i prezzi dappertutto.

La questione chiave è dunque come le risorse energetiche dell'Asia centrale possano essere rese disponibili per i vicini mercati asiatici. Ci sono due soluzioni possibili, con parecchie varianti. Un'opzione è dirigersi a est attraversando la Cina, ma questo significherebbe costruire un oleodotto di oltre 3.000 chilometri solo per raggiungere la Cina centrale. Inoltre, servirebbe una bretella di 2.000 chilometri per raggiungere i principali centri abitati lungo la costa. La questione dunque è quanto costerà trasportare il greggio attraverso questo oleodotto, e quale sarebbe il netback che andrebbe ai produttori. Per quelli che non hanno familiarità con la terminologia, il netback è il prezzo che il produttore riceve per il suo gas o il suo petrolio alla bocca del pozzo dopo che tutti i costi di trasporto sono stati dedotti. Perciò è il prezzo che egli riceve per il petrolio alla bocca del pozzo.
La seconda opzione è costruire un oleodotto diretto a sud, che vada dall'Asia centrale all'Oceano Indiano. Un itinerario ovvio verso sud attraverserebbe l'Iran, ma questo è precluso alle compagnie americane a causa delle sanzioni. L'unico altro itinerario possibile è attraverso l'Afghanistan, e ha naturalmente anch'esso i suoi rischi. Il paese è coinvolto in aspri scontri da quasi due decenni, ed è ancora diviso dalla guerra civile. Fin dall'inizio abbiamo messo in chiaro che la costruzione dell'oleodotto attraverso l'Afghanistan che abbiamo proposto non potrà cominciare finché non si sarà insediato un governo riconosciuto che goda della fiducia dei governi, dei finanziatori e della nostra compagnia.

Abbiamo lavorato in stretta collaborazione con l'Università del Nebraska a Omaha allo sviluppo di un programma di formazione per l'Afghanistan che sarà aperto a uomini e donne, e che opererà in entrambe le parti del paese, il nord e il sud. La Unocal ha in mente un oleodotto che diventerebbe parte di un sistema regionale che raccoglierà il petrolio dagli oleodotti esistenti in Turkmenistan, Uzbekistan, Kazakhstan e Russia. L'oleodotto lungo 1.040 miglia si estenderebbe a sud attraverso l'Afghanistan fino a un terminal per l'export che verrebbe costruito sulla costa del Pakistan. Questo oleodotto dal diametro di 42 pollici (poco più di un metro, ndt) avrà una capacità di trasporto di un milione di barili di greggio al giorno. Il costo stimato del progetto, che è simile per ampiezza all'oleodotto trans-Alaska, è di circa 2,5 miliardi di dollari.

Data l'abbondanza delle riserve di gas naturale in Asia centrale, il nostro obiettivo è collegare le risorse di gas con i più vicini mercati in grado di assorbirle. Questo è basilare per la fattibilità commerciale di qualunque progetto sul gas. Ma anche questi progetti presentano difficoltà geopolitiche. La Unocal e la compagnia turca Koc Holding sono interessate a portare forniture competitive di gas alla Turchia. Il prospettato gasdotto Eurasia trasporterebbe il gas dal Turkmenistan direttamente all'altra parte del Mar Caspio attraverso l'Azerbaijan e la Georgia fino in Turchia. Naturalmente la demarcazione del Caspio rimane una questione aperta.
Lo scorso ottobre è stato creato il Central Asia Gas Pipeline Consortium, chiamato CentGas, e in cui la Unocal ha una cointeressenza, per sviluppare un gasdotto che collegherà il grande giacimento di gas di Dauletabad in Turkmenistan con i mercati in Pakistan e forse in India. Il prospettato gasdotto lungo 790 miglia aprirà nuovi mercati per questo gas, viaggiando dal Turkmenistan attraverso l'Afghanistan fino a Multan in Pakistan. Il prolungamento proposto porterebbe il gas fino a New Delhi, dove si collegherebbe a un gasdotto esistente. Per quanto riguarda il proposto oleodotto in Asia centrale, CentGas non può cominciare la costruzione finché non si sarà insediato un governo afghano riconosciuto internazionalmente.

L'Asia centrale e la regione del Caspio è benedetta da riserve abbondanti di petrolio e gas che possono migliorare la vita dei suoi abitanti, e fornire energia per la crescita sia all'Europa che all'Asia. Anche l'impatto di queste risorse sugli interessi commerciali e sulla politica estera degli Stati Uniti è significativo. Senza una risoluzione pacifica dei conflitti nella regione, difficilmente saranno costruiti oleodotti e gasdotti attraverso le frontiere. Noi chiediamo all'Amministrazione e al Congresso di sostenere con forza il processo di pace in Afghanistan condotto dagli Stati Uniti. Il governo Usa dovrebbe usare la sua influenza per contribuire a trovare delle soluzioni per tutti i conflitti nella regione.

L'assistenza Usa nello sviluppare queste nuove economie sarà cruciale per il successo degli affari. Noi incoraggiamo anche forti programmi di assistenza tecnica in tutta la regione. In particolare, chiediamo l'annullamento o la rimozione della sezione 907 del Freedom Support Act. Questa sezione restringe ingiustamente l'assistenza del governo Usa al governo dell'Azerbaijan e limita l'influenza Usa nella regione.
Sviluppare itinerari per l'export a costi competitivi per le risorse dell'Asia centrale è un compito formidabile, ma non impossibile. La Unocal e altre compagnie americane similari sono pienamente preparate a intraprendere il compito e a riportare ancora una volta l'Asia centrale al centro dei traffici come era in passato.
Traduzione di Marina Impallomeni


Una cronologia
da il manifesto, 18 ottobre 2001, Manlio Dinucci

Il progetto del "corridoio" energetico afghano, [...], è uno dei principali motivi della guerra in Afghanistan. Eccone una ricostruzione cronologica.
Nel luglio 1997, subito dopo la conquista di Kabul (25 settembre 1996), i talebani firmano un memorandum d'intesa con Pakistan, Turkmenistan e Uzbekistan per la costruzione di un gasdotto che, attraversando l'Afghanistan, dovrebbe portare fino in Pakistan il gas naturale del Caspio. Si incomincia anche a progettare un oleodotto Caspio-Pakistan che, per un ampio tratto, dovrebbe seguire lo stesso "corridoio" del gasdotto.
Il 27 ottobre 1997: sette compagnie petrolifere e il governo del Turkmenistan costituiscono il consorzio Central Asia Gas Pipeline Ltd. (Centgas), che presenta il progetto di un gasdotto di 1.464 km Turkmenistan-Pakistan via Afghanistan, estendibile per altri 750 km fino in India. A capo del consorzio è la compagnia statunitense Unocal. Le altre sono la saudita Delta Oil, la pakistana Crescent Group, la russa Gazprom, la sudcoreana Hyundai Engineering Construction Company, le giapponesi Inpex e Itochu. Ecco che il gasdotto, con una capacità annua di 20 miliardi di metri cubi, potrebbe essere costruito in 2-3 anni. Vi è però un problema: una compagnia concorrente, l'argentina Bridas, dichiara il 4 novembre di essere vicina a un accordo con i talebani afghani per la costruzione del gasdotto.
E il 25 novembre 1997: il vicepresidente esecutivo della Unocal, Bob Todor, sottolinea l'importanza strategica del "corridoio" afghano per raggiungere l'Asia, "il mercato in più rapida crescita per il gas e petrolio del Caspio". Il "corridoio" cinese è troppo lungo è costoso (e non gradito a Washington), quello iraniano è impraticabile per il divieto Usa.
Siamo al 5 dicembre 1997 quando una delegazione ad alto livello del regime talebano viene invitata negli Stati uniti per colloqui con la Unocal, che la ospita per diversi giorni nel suo quartier generale di Sugarland in Texas. Nello stesso periodo la Unocal apre un suo ufficio di rappresentanza a Kandahar, già base meridionale dei talebani prima della conquista di Kabul.
E' il gennaio 1998, e i talebani annunciano di aver scelto, per la realizzazione del gasdotto attraverso l'Afghanistan, il consorzio con a capo la Unocal, e firmano l'accordo.
Tutto si tiene ancora nel giugno 1998: dopo che la russa Gazprom ha ceduto la sua quota del 10% nel Centgas, la Unocal e la Delta Oil acquistano il pieno controllo del consorzio con l'85% del pacchetto azionario. A questo punto, però, qualcosa si incrina nell'alleanza Usa-Arabia saudita. Washington non si fida più del regime talebano, sia per le sue crescenti tendenze anti-Usa, sia perché lo ritiene inaffidabile per il controllo del decisivo "corridoio" afghano. L'Arabia saudita, che per anni (d'accordo con Washigton) ha finanziato i talebani in funzione anti-russa e anti-iraniana, invece vuole continuare a sostenerli. Il governo saudita, quello pakistano e gli Emirati arabi sono gli unici paesi al mondo a riconoscere ufficialmente il governo talebano.
Così, il 20 agosto 1998, gli Usa lanciano il primo attacco aereo in Afghanistan contro sospette roccaforti del sospetto terrorista Osama bin Laden.
Naturalmente, il 21 agosto 1998, il giorno dopo l'attacco aereo, la Unocal annuncia di sospendere la sua attività per la realizzazione del gasdotto, dichiarando che la riprenderà solo "quando l'Afghanistan conseguirà la stabilità necessaria a ottenere finanziamenti al progetto del gasdotto dalle principali agenzie internazionali". E l'8 dicembre 1998 la Unocal annuncia anche il suo ritiro dal consorzio Centgas. Fatto rilevante, alla guida del Centgas subentra, al posto della Unocal statunitense, la Delta Oil saudita.
Tutto bloccato dunque? No, perché nell'aprile 1999 Afghanistan, Pakistan e Turkmenistan annunciano di essersi accordati per riattivare il progetto del gasdotto e chiedono al consorzio Centgas, ora diretto dalla Delta Oil saudita, di procedere alla sua realizzazione.
A questo punto gli Usa si vedono sfuggire di mano il controllo del "corridoio" afghano e, con esso, la possibilità di controllare l'approvvigionamento energetico dell'Asia con il gas e petrolio del Caspio. Si vedono scavalcati dal loro più importante alleato nella regione, l'Arabia saudita, che riattiva il progetto del gasdotto (cui dovrebbe seguire quello dell'oleodotto) per realizzarlo e gestirlo senza gli Usa, d'accordo con i talebani, a loro volta d'accordo con il fuoriuscito saudita bin Laden. Bin Laden a parte, quel che si prospetta concretamente è la possibilità che si costituisca una coalizione di paesi in grado di sfidare gli Stati uniti, sottraendo loro il controllo delle fonti energetiche da cui anche gli Usa dipendono in misura crescente.
Si verifica, in altre parole, la situazione prevista nel documento strategico pubblicato dal Pentagono il 30 settembre (il manifesto, 10 ottobre 2001), cioè "la possibilità che potenze regionali sviluppino capacità sufficienti a minacciare la stabilità di regioni cruciali per gli interessi statunitensi, la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse" (Quadrennial Defense Review, 30 settembre. 2001). La risposta non può che essere quella indicata nello stesso documento del Pentagono: usare "le forze armate, il cui scopo è proteggere e promuovere gli interessi nazionali degli Stati uniti", per "cambiare il regime di uno stato avversario od occupare un territorio straniero finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati".