Viaggi mentali tra Kabul e Kandahar
Remo Ceserani

il manifesto, 18 novembre 20011

          Frammenti di fiction nei confini dell'Afghanistan: dal Kipling dell'"Uomo che voleva essere re", al "Flashman" scritto da MacDonald Fraser. Fino all'immaginario di Sherlock Holmes in A Study in Scarlet e al viaggio fiabesco di Margaret Atwood.

      
Non è naturalmente un caso che la fotografia scelta dal "National Geographic" per la copertina di un fascicolo speciale, da poco in libreria, dedicato alle cento migliori immagini tratte dagli archivi della rivista, presenti il volto di una rifugiata afghana, una ragazza dodicenne di un campo profughi al tempo dell'invasione sovietica, scattata dal fotografo americano Steve McCurry e pubblicata nel 1985. L'immagine è di una bellezza struggente e ha avuto centinaia di premi: un volto pulito, circondato da un panno rosso, sul fondo verde di una tenda, due occhi grandi, verdi, luminosissimi, che richiama inevitabilmente alla nostra mente un ritratto di Antonello da Messina. Difficile dire se la levigatura formale e la perfezione estetica della fotografia servano a intensificare la nostra commozione e partecipazione emotiva o se abbiano semplicemente un effetto di sublimazione e di pura partecipazione contemplativa. Non sembra esserci in questa fotografia nessuno di quei tratti che Walter Benjamin e Susan Sontag hanno a suo tempo attribuito all'immagine riprodotta meccanicamente: un investimento feticistico della memoria, una presenza spettrale della vita e della storia. Il distacco estetico sembra prevalere.

      Steve McCurry, il fotografo, racconta di avere scattato la fotografia in un campo di nomadi al confine tra l'Afghanistan e il Pakistan, durante una spedizione in cui egli era penetrato nel territorio dei ribelli anti-sovietici travestito e facendosi passare come uno del luogo. "Gran parte delle mie fotografie", egli dice, "sono basate sulla gente. Cerco il momento indifeso, l'anima essenziale che s'affaccia in un volto, l'esperienza incisa nel viso di una persona." McCurry legge in quegli occhi verdi, animati da sfumature di blu e di paura, la storia di una bambina rimasta senza casa e senza famiglia dopo un'incursione di elicotteri sovietici; ma poi ammette di non sapere nulla di quel volto senza nome e di avere invano cercato per anni, dopo che questa fotografia aveva fatto il giro del mondo, di rintracciare il suo soggetto. I redattori del "National Geographic" parlano di "occhi impauriti" di "vesti stracciate": io ho l'impressione di trovarmi davanti un panneggio morbido e perfettamente in tono con il colore dei capelli e due occhi a cui si possono attribuire molti altri sentimenti oltre la paura: sfida, distacco, pensosità serena, saggezza anzitempo.
I giornali e i programmi radio e televisivi americani si sono riempiti in queste settimane di articoli sull'Afghanistan, sul suo paesaggio - da alcuni considerato bellissimo nella sua rude elementarità, da altri orrifico e affascinante nella sua rudezza - sulla cultura afghana (con letture, per esempio, alla radio, delle poesie mistiche di Rumi, presentato, non so con quanta esattezza storica, come il più grande poeta afghano). Molti hanno rievocato i loro viaggi fatti in quel paese, ne hanno ricavato fotografie e film. La scrittrice canadese Margaret Atwood ha raccontato di un suo viaggio nel 1987 in un Afghanistan magico e fiabesco: "Le case di Kabul erano di legno intagliato, e le strade erano dei Libri d'ore viventi: gente con lunghe tuniche al vento, cammelli, asini, carri con enormi ruote di legno spinti da carrettieri davanti e di dietro. C'erano pochi veicoli a motore. Fra questi degli autobus ricoperti di elaborate scritte in arabo, con occhi dipinti sul davanti perché gli autobus potessero vedere dove andare". In tutte queste quasi affannose forme di scrittura e di testi per immagini si sente un bisogno improvviso di conoscere il nemico e di sganciargli sulla testa non solo bombe, ma pacchi dono e messaggi di umana comprensione; si sente aggressività, paura e senso di colpa. E una grande difficoltà a capire una cultura che non ha nulla di familiare, storicamente e geograficamente lontanissima.

      I paesi che, per la loro storia di conquista e anche di terribili e rovinose sconfitte, e di lunga rivalità fra di loro alle spalle dell'Afghanistan, hanno avuto più contatti e hanno una familiarità storica intensa con l'Afghanistan sono stati, naturalmente, la Russia e l'Inghilterra, non a caso i paesi che più hanno aiutato gli Americani nella guerra attuale, con informazioni, consigli e aiuto diretto. Entrambi avevano, oltretutto, dei conti storici da regolare con l'indomito e ribelle, esoticissimo paese. Non a caso, le voci dei giornalisti che si sentono più spesso anche alle radio e televisioni americane hanno un accento britannico.
Nell'immaginario coloniale britannico l'Afghanistan ha un posto di tutto rispetto, accanto all'India e al Pakistan, con in più il ricordo bruciante di una clamorosa sconfitta, un vero e proprio eccidio dei propri soldati, nella prima guerra afgana del 1838-42, in parte vendicato nel corso della seconda guerra afgana, nel 1878-80. Sono molti i libri di storia, ma anche i romanzi e le opere di invenzione che hanno tenuto vivi quei ricordi. Kipling ha ambientato nell'immaginario paese del Kafiristan (velata allusione all'Afghanistan) il racconto "L'uomo che voleva essere re". Ma forse più interessante, perché appoggiato alla mentalità coloniale nel modo più corposo, brutale, sincero, provocatorio (e irritante) possibile, oltre che assai ben documentato sullo sfondo sociale e geografico del lontano paese, è il primo dei romanzi del ciclo di Flashman, intitolato appunto Flashman: From the Flashman Papers 1839-1842, ambientato ai tempi della prima guerra afghana, scritto nel 1969 dal popolarissimo romanziere britannico George MacDonald Fraser. Nelle presunte memorie del protagonista, il soldato-avventuriero-esteta-gaudente Harry Flashman, tutti gli indiani, pakistani, afgani, sono semplicemente dei "niggers", che vanno trattati con la frusta. Le giovani donne del posto sono belle e sinuose (hanno la forma di una clessidra) e possono insegnare al giovane inglese non solo, e alla svelta, la loro lingua, ma anche le settantaquattro posizioni per far l'amore suggerite dal Kamasutra.
Quando il tenente Flashman si mette in viaggio con le guida afghane e una squadra di lancieri alla volta di Kabul, le prime sentinelle Gilzai che egli incontra alla roccaforte di Mogala "sembravano i guerrieri di una fiaba orientale, con i loro costumi esotici e le feroci facce barbute - e naturalmente, lo erano". Assiste all'uccisione gratuita di un servitore e commenta: "Certo era solo un nigger che era stato ucciso, e sapevo che tra gli afghani la vita non vale, maledettamente, nulla; per loro uccidere un essere umano è cosa di minore importanza che da noi uccidere un fagiano o catturare un pesce". I commenti sulla ferocia degli afghani sono frequenti: "Per quanto sia piacevole la vita laggiù, non ci si può mai dimenticare che in Afghanistan si sta sempre camminando sul filo del rasoio, e che gli afghani sono dei selvaggi crudeli e assetati di sangue". Le vicende che seguono sono tumultuose e comportano cattiverie, trappole, complotti, gare di bravura, torture, atti eroici da parte di Flashman, descrizioni precise della vita nelle guarnigioni inglesi o presso i vari capi afghani, fra Kabul e Kandahar e, in alcune pagine molto dettagliate, la partecipazione di Flashman alla rotta e al massacro degli inglesi sui passi tra Kabul e Jalalabad. Il romanzo di MacDonald Fraser, scritto in stile veloce e ironico, basato su ricerche storiche attente, ricrea dei temi e un'atmosfera molto diffusi nell'immaginario inglese.

       E', del resto, lo stesso immaginario che Sherlock Holmes ha esibito come biglietto da visita e come prima dimostrazione delle sue eccezionali capacità deduttive all'inizio del suo rapporto con il dottor Watson, così come li raccontano i primi capitoli dell'episodio A Study in Scarlet. Watson nel 1878, subito dopo aver ricevuto la laurea in medicina, era stato inviato in India e in Afghanistan, a Kandahar, al tempo della seconda guerra afghana: la campagna militare aveva portato onori e promozioni agli altri, a lui solo sfortuna e disastri. Nella battaglia di Maiwand, egli era stato colpito a una spalla da una pallottola. Portato in un ospedale a Peshawar, erano subentrate delle febbri enteriche che lo avevano portato alla soglia della morte. L'incontro con Sherlock Holmes avviene subito dopo il rientro in patria ed è propiziato da un amico, il giovane Stamford, che racconta a Watson come uno strano frequentatore del suo reparto d'ospedale stia anche lui cercando casa. Watson accompagna Stamford all'ospedale e viene presentato a Holmes, il quale, nel momento stesso della presentazione, fulmina Watson e lo lascia allibito, dicendogli: "Lei è stato in Afganistan, mi sembra di capire (I perceive)." Solo più tardi, quando Holmes e Watson avranno preso casa insieme e Watson sarà stato introdotto all'"arte della deduzione", egli riceverà una spiegazione di come aveva fatto Holmes a indovinare la sua provenienza: "Ecco un signore che appartiene alla classe medica, e però ha l'aspetto di un uomo d'armi. Si tratta evidentemente di un medico militare. E' appena arrivato dai tropici, perché il suo viso è scuro, e questo non è il colore naturale della sua pelle, e infatti i suoi polsi sono chiari. Ha sopportato di recente fatiche e malattie, come dice chiaramente il suo viso macilento. Ha subìto una ferita al braccio sinistro: infatti lo tiene in modo rigido e innaturale. Dove mai un medico militare può avere affrontato, in una zona tropicale, tanto dure prove ed essersi ferito a un braccio? Sicuramente in Afghanistan." Sotto gli occhi acutissimi di Sherlock Holmes tutti i pregiudizi accumulati nell'immaginario inglese a proposito dell'Afghanistan e dei suoi abitanti diventano precisi segnali di riconoscimento.