Frammenti
di fiction nei confini dell'Afghanistan: dal Kipling dell'"Uomo
che voleva essere re", al "Flashman" scritto da
MacDonald Fraser. Fino all'immaginario di Sherlock Holmes in A
Study in Scarlet e al viaggio fiabesco di Margaret Atwood.
Non
è naturalmente un caso che la fotografia scelta dal "National
Geographic" per la copertina di un fascicolo speciale, da poco in
libreria, dedicato alle cento migliori immagini tratte dagli archivi
della rivista, presenti il volto di una rifugiata afghana, una ragazza
dodicenne di un campo profughi al tempo dell'invasione sovietica,
scattata dal fotografo americano Steve McCurry e pubblicata nel 1985.
L'immagine è di una bellezza struggente e ha avuto centinaia di
premi: un volto pulito, circondato da un panno rosso, sul fondo verde
di una tenda, due occhi grandi, verdi, luminosissimi, che richiama
inevitabilmente alla nostra mente un ritratto di Antonello da Messina.
Difficile dire se la levigatura formale e la perfezione estetica della
fotografia servano a intensificare la nostra commozione e
partecipazione emotiva o se abbiano semplicemente un effetto di
sublimazione e di pura partecipazione contemplativa. Non sembra
esserci in questa fotografia nessuno di quei tratti che Walter
Benjamin e Susan Sontag hanno a suo tempo attribuito all'immagine
riprodotta meccanicamente: un investimento feticistico della memoria,
una presenza spettrale della vita e della storia. Il distacco estetico
sembra prevalere.
Steve McCurry, il fotografo, racconta
di avere scattato la fotografia in un campo di nomadi al confine tra
l'Afghanistan e il Pakistan, durante una spedizione in cui egli era
penetrato nel territorio dei ribelli anti-sovietici travestito e
facendosi passare come uno del luogo. "Gran parte delle mie
fotografie", egli dice, "sono basate sulla gente. Cerco il
momento indifeso, l'anima essenziale che s'affaccia in un volto,
l'esperienza incisa nel viso di una persona." McCurry legge in
quegli occhi verdi, animati da sfumature di blu e di paura, la storia
di una bambina rimasta senza casa e senza famiglia dopo un'incursione
di elicotteri sovietici; ma poi ammette di non sapere nulla di quel
volto senza nome e di avere invano cercato per anni, dopo che questa
fotografia aveva fatto il giro del mondo, di rintracciare il suo
soggetto. I redattori del "National Geographic" parlano di
"occhi impauriti" di "vesti stracciate": io ho
l'impressione di trovarmi davanti un panneggio morbido e perfettamente
in tono con il colore dei capelli e due occhi a cui si possono
attribuire molti altri sentimenti oltre la paura: sfida, distacco,
pensosità serena, saggezza anzitempo.
I giornali e i programmi radio e televisivi americani si sono riempiti
in queste settimane di articoli sull'Afghanistan, sul suo paesaggio -
da alcuni considerato bellissimo nella sua rude elementarità, da
altri orrifico e affascinante nella sua rudezza - sulla cultura
afghana (con letture, per esempio, alla radio, delle poesie mistiche
di Rumi, presentato, non so con quanta esattezza storica, come il più
grande poeta afghano). Molti hanno rievocato i loro viaggi fatti in
quel paese, ne hanno ricavato fotografie e film. La scrittrice
canadese Margaret Atwood ha raccontato di un suo viaggio nel 1987 in
un Afghanistan magico e fiabesco: "Le case di Kabul erano di
legno intagliato, e le strade erano dei Libri d'ore viventi:
gente con lunghe tuniche al vento, cammelli, asini, carri con enormi
ruote di legno spinti da carrettieri davanti e di dietro. C'erano
pochi veicoli a motore. Fra questi degli autobus ricoperti di
elaborate scritte in arabo, con occhi dipinti sul davanti perché gli
autobus potessero vedere dove andare". In tutte queste quasi
affannose forme di scrittura e di testi per immagini si sente un
bisogno improvviso di conoscere il nemico e di sganciargli sulla testa
non solo bombe, ma pacchi dono e messaggi di umana comprensione; si
sente aggressività, paura e senso di colpa. E una grande difficoltà
a capire una cultura che non ha nulla di familiare, storicamente e
geograficamente lontanissima.
I paesi che, per la loro storia di
conquista e anche di terribili e rovinose sconfitte, e di lunga
rivalità fra di loro alle spalle dell'Afghanistan, hanno avuto più
contatti e hanno una familiarità storica intensa con l'Afghanistan
sono stati, naturalmente, la Russia e l'Inghilterra, non a caso i
paesi che più hanno aiutato gli Americani nella guerra attuale, con
informazioni, consigli e aiuto diretto. Entrambi avevano, oltretutto,
dei conti storici da regolare con l'indomito e ribelle, esoticissimo
paese. Non a caso, le voci dei giornalisti che si sentono più spesso
anche alle radio e televisioni americane hanno un accento britannico.
Nell'immaginario coloniale britannico l'Afghanistan ha un posto di
tutto rispetto, accanto all'India e al Pakistan, con in più il
ricordo bruciante di una clamorosa sconfitta, un vero e proprio
eccidio dei propri soldati, nella prima guerra afgana del 1838-42, in
parte vendicato nel corso della seconda guerra afgana, nel 1878-80.
Sono molti i libri di storia, ma anche i romanzi e le opere di
invenzione che hanno tenuto vivi quei ricordi. Kipling ha ambientato
nell'immaginario paese del Kafiristan (velata allusione
all'Afghanistan) il racconto "L'uomo che voleva essere re".
Ma forse più interessante, perché appoggiato alla mentalità
coloniale nel modo più corposo, brutale, sincero, provocatorio (e
irritante) possibile, oltre che assai ben documentato sullo sfondo
sociale e geografico del lontano paese, è il primo dei romanzi del
ciclo di Flashman, intitolato appunto Flashman: From the Flashman
Papers 1839-1842, ambientato ai tempi della prima guerra afghana,
scritto nel 1969 dal popolarissimo romanziere britannico George
MacDonald Fraser. Nelle presunte memorie del protagonista, il
soldato-avventuriero-esteta-gaudente Harry Flashman, tutti gli
indiani, pakistani, afgani, sono semplicemente dei "niggers",
che vanno trattati con la frusta. Le giovani donne del posto sono
belle e sinuose (hanno la forma di una clessidra) e possono insegnare
al giovane inglese non solo, e alla svelta, la loro lingua, ma anche
le settantaquattro posizioni per far l'amore suggerite dal Kamasutra.
Quando il tenente Flashman si mette in viaggio con le guida afghane e
una squadra di lancieri alla volta di Kabul, le prime sentinelle
Gilzai che egli incontra alla roccaforte di Mogala "sembravano i
guerrieri di una fiaba orientale, con i loro costumi esotici e le
feroci facce barbute - e naturalmente, lo erano". Assiste
all'uccisione gratuita di un servitore e commenta: "Certo era
solo un nigger che era stato ucciso, e sapevo che tra gli afghani la
vita non vale, maledettamente, nulla; per loro uccidere un essere
umano è cosa di minore importanza che da noi uccidere un fagiano o
catturare un pesce". I commenti sulla ferocia degli afghani sono
frequenti: "Per quanto sia piacevole la vita laggiù, non ci si
può mai dimenticare che in Afghanistan si sta sempre camminando sul
filo del rasoio, e che gli afghani sono dei selvaggi crudeli e
assetati di sangue". Le vicende che seguono sono tumultuose e
comportano cattiverie, trappole, complotti, gare di bravura, torture,
atti eroici da parte di Flashman, descrizioni precise della vita nelle
guarnigioni inglesi o presso i vari capi afghani, fra Kabul e Kandahar
e, in alcune pagine molto dettagliate, la partecipazione di Flashman
alla rotta e al massacro degli inglesi sui passi tra Kabul e Jalalabad.
Il romanzo di MacDonald Fraser, scritto in stile veloce e ironico,
basato su ricerche storiche attente, ricrea dei temi e un'atmosfera
molto diffusi nell'immaginario inglese.
E', del resto, lo stesso
immaginario che Sherlock Holmes ha esibito come biglietto da visita e
come prima dimostrazione delle sue eccezionali capacità deduttive
all'inizio del suo rapporto con il dottor Watson, così come li
raccontano i primi capitoli dell'episodio A Study in Scarlet.
Watson nel 1878, subito dopo aver ricevuto la laurea in medicina, era
stato inviato in India e in Afghanistan, a Kandahar, al tempo della
seconda guerra afghana: la campagna militare aveva portato onori e
promozioni agli altri, a lui solo sfortuna e disastri. Nella battaglia
di Maiwand, egli era stato colpito a una spalla da una pallottola.
Portato in un ospedale a Peshawar, erano subentrate delle febbri
enteriche che lo avevano portato alla soglia della morte.
L'incontro con Sherlock Holmes avviene subito dopo il rientro in
patria ed è propiziato da un amico, il giovane Stamford, che racconta
a Watson come uno strano frequentatore del suo reparto d'ospedale stia
anche lui cercando casa. Watson accompagna Stamford all'ospedale e
viene presentato a Holmes, il quale, nel momento stesso della
presentazione, fulmina Watson e lo lascia allibito, dicendogli:
"Lei è stato in Afganistan, mi sembra di capire (I perceive)."
Solo più tardi, quando Holmes e Watson avranno preso casa insieme e
Watson sarà stato introdotto all'"arte della deduzione",
egli riceverà una spiegazione di come aveva fatto Holmes a indovinare
la sua provenienza: "Ecco un signore che appartiene alla classe
medica, e però ha l'aspetto di un uomo d'armi. Si tratta
evidentemente di un medico militare. E' appena arrivato dai tropici,
perché il suo viso è scuro, e questo non è il colore naturale della
sua pelle, e infatti i suoi polsi sono chiari. Ha sopportato di
recente fatiche e malattie, come dice chiaramente il suo viso
macilento. Ha subìto una ferita al braccio sinistro: infatti lo tiene
in modo rigido e innaturale. Dove mai un medico militare può avere
affrontato, in una zona tropicale, tanto dure prove ed essersi ferito
a un braccio? Sicuramente in Afghanistan." Sotto gli occhi
acutissimi di Sherlock Holmes tutti i pregiudizi accumulati
nell'immaginario inglese a proposito dell'Afghanistan e dei suoi
abitanti diventano precisi segnali di riconoscimento.
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