Il programma di storia Moratti-Bertagna: due emendamenti urgenti e alcune ricerche da promuovere.

Antonio Brusa

Pubblichiamo l'intervento di  Antonio Brusa al seminario svoltosi il 24 giugno 2004 a Bologna sulle "Indicazioni" ministeriali per l'insegnamento di storia nella scuole, organizzato dal Dipartimento Discipline Storiche dell’Università di Bologna.  Riprendiamo il testo dell'intervento dal n. 4 della rivista on line "Storia e Futuro": <http://www.storiaefuturo.com>.


Ai tradizionali problemi dell’insegnamento della storia (il tempo, i contenuti, i ragazzi che non si interessano e così via) si sono aggiunti di recente quelli causati dai programmi Moratti-Bertagna, che hanno posto i docenti di fronte ad alcune improvvise novità, delle quali non molti sentivano il bisogno, quali la riduzione delle ore o la scomparsa della storia antica nelle medie. Lo sconcerto degli insegnanti è stato grande ed è stato solo in misura molto ridotta messo in evidenza da alcune iniziative di protesta, come la sospensione dell’adozione dei nuovi manuali di storia e qualche articolo sulla stampa. In effetti, gli scompensi creati da questa nuova organizzazione degli studi sono molti e di vario genere. Ad alcuni, a mio modo di vedere, si può rimediare senza eccessivi problemi (a patto solo di volerlo). Altri, invece, sono la spia di problemi molto profondi e richiedono discussioni e studi che vanno ben oltre la contingenza di questi nuovi programmi.

Salviamo lo studio del Novecento

In primo luogo segnalo la questione dell’insegnamento del Novecento. Non è il caso di riaccendere la discussione sulla direttiva 682 del 1996 (ministro Berlinguer), con argomenti ampiamente dibattuti e, peraltro,sovradimensionati rispetto al disastro prospettato da questa riforma: ora non si tratta di continuare a ragionare dell’importanza e del ruolo formativo dello studio del Novecento, ma – molto più radicalmente – di intervenire per impedire la sua sparizione.

Questa riforma, infatti, ci mette di fronte ad un’autentica emergenza. Pochi calcoli bastano a illustrare con evidenza il problema. Al momento attuale, un insegnante di III media ha a disposizione circa 50 ore (al netto di scioperi, gite, neve e così via), alle quali solitamente aggiunge 30 ore di educazione civica. Dovrebbero servire a spiegare bene e diffusamente il Novecento. Secondo la riforma, invece, l’insegnante futuro avrà qualcosa di meno delle 50 ore annuali – a causa delle riduzioni di orario – , né potrà disporre della riserva dell’educazione civica: meno ore e, per giunta, il compito di spiegare non uno, ma ben due secoli (dal 1796 in poi). Grosso modo: 25 ore per l’Ottocento, e altrettante per il secolo successivo. Meno, addirittura, di quello che era previsto dai programmi del ’79, che facevano iniziare la III media con il Trattato di Vienna: un dispositivo che, come sanno tutti gli studiosi della questione, già impediva allora lo studio del Novecento. Tutto ciò è aggravato da un fatto, del quale pochi, anche fra i docenti, si sono resi conto. Fra due anni, i futuri esami di III media (esami di stato come quelli di maturità) avranno, molto presumibilmente, un particolare impatto sull’andamento della scuola, dal momento che costituiranno uno snodo (pressoché) definitivo per gli allievi, e vedranno con ogni probabilità l’esordio delle prove INVALSI, almeno per italiano, scienze e matematica. È facile il paragone con gli esami attuali di maturità, che, pur nel nuovo assetto con la Commissione tutta composta da membri interni, spingono i professori a sospendere la programmazione a maggio (almeno) per preparare adeguatamente gli allievi: e un mese di meno comporta 10 ore di storia in meno.
Questa è l’emergenza: in 15-25 ore si dovrebbero spiegare le due guerre mondiali, la società di massa, la crisi europea, il secondo dopoguerra, la crisi degli anni ’70 ….

Si ricordi che la direttiva sul Novecento nacque sull’onda di una scoperta collettiva, innescata da un programma televisivo (Combat Film, 1994: era il tempo del primo governo Berlusconi) nel quale una studentessa confessò candidamente di non sapere chi fosse Badoglio. Fu allora che l’opinione pubblica scoprì che nessuno studiava il Novecento, né nelle medie né nelle elementari. Se ne scandalizzarono tutti, commentatori di destra e di sinistra. Ma con la riforma Moratti, tutti – di destra e di sinistra – torneremo a quelle tristi sorprese. Questo governo, per altri versi, è tanto sensibile alla conoscenza del Novecento, che ha aggiunto alla Giornata della memoria, celebrata in tutto il mondo, una particolare, solo italiana (per la verità prontamente bilanciata da un’analoga istituita in Slovenia), destinata al ricordo dei massacri delle foibe. Saremo un paese con ben due giornate della memoria, dunque, e qualche milione di ragazzi ignari del Novecento?

Si può (e si deve) supporre che non esista governo, di qualsiasi colore politico, interessato a tale ignoranza di massa. Si deve (e si può) supporre che un curricolo verticale – dalle elementari alle medie – di oltre 300 ore di storia, che ne riservi solo due decine al Novecento, sia materialmente (e non politicamente o ideologicamente) sbagliato. Si può ipotizzare che si tratti di un mero errore tecnico, di una svista, alla quale lo stesso ministro potrebbe porre rimedio, senza essere costretto a rinnegare nessuna sua convinzione, ma senza convocare, nemmeno, commissioni di Nobel (come nella riuscita operazione prendi-tempo su Darwin): semplicemente spostando il discrimine cronologico fra II e III media.
È sufficiente iniziare la storia della III secondaria inferiore con il 1870, o, in alternativa, lasciare liberi i docenti di stabilire loro la data, così come questo stesso programma prevede nel biennio I-II media.

Peraltro, la data del 1870 fu suggerita da alcuni critici asperrimi di Berlinguer, per mitigarne il presunto eccesso di novecentismo: potremmo accettarla tutti, perciò. Sottolineo che si tratta di un emendamento effettivamente urgente: occorrerebbe approvarlo prima che gli editori stampino le copie del III volume (al momento sono state stampate solo quelle per la propaganda scolastica). Per contro, sarebbe facile da promulgare, perché questo spostamento non è collegato necessariamente a nessun’altra modificazione aggiuntiva.

Per uno studio realmente più approfondito nelle superiori

Il programma della primaria e della secondaria di primo grado è stato varato nel silenzio, quasi assoluto, di insegnanti e storici. Solo a programma operante ci si è accorti dei problemi. Si è ancora in tempo, a mio giudizio, per evitare che questa situazione si ripeta per le superiori: almeno su alcune questioni fondamentali e condivisibili da tutti. Conosciamo alcuni tratti di questo programma: fin d’ora invitano a discussioni profonde e prolungate (sulla concezione della storia, della didattica, sulle finalità dell’insegnamento e così via). Propongo di concentrare le richieste di emendamenti urgenti intorno a due suoi aspetti. La nuova organizzazione degli studi prevede che ci sia un programma di storia diverso per ciascun liceo. Proporrei, invece, che fosse unico, sulla base del principio che la storia non è una materia di servizio, professionalizzante, ma una materia di cittadinanza. Serve a tutti i cittadini per capire il mondo, per interpretarlo: non per far meglio un certo lavoro, piuttosto che un altro. Una materia formativa di questo genere non può che essere uguale per tutti. Non è possibile infatti immaginare cittadinanze diverse, all’interno di uno stesso paese: né per la costituzione italiana, né per quella europea.

Una seconda caratteristica del nuovo programma è che dovrebbe essere articolato in un percorso cronologico di quattro anni, al quale si aggiunge un anno di studio di temi. Tale organizzazione è motivata sia dal desiderio di conservare un certo parallelismo con il programma quadriennale delle professionali (ma quale storia, poi, si studierà in questi istituti?), sia dalla necessità di disporre un anno speciale, "orientativo", prima di iscriversi all’Università. Sono motivazioni interessanti, intorno alle quali conviene discutere approfonditamente, per valutarne l’utilità o l’efficacia delle soluzioni: ma, intanto, possiamo immediatamente apprezzarne alcune conseguenze non propriamente desiderabili:

La compressione del mondo antico: non ci sarà un recupero di conoscenza del mondo antico, perché il tempo a disposizione degli insegnanti delle superiori diminuirà di circa 30 ore (metà anno scolastico), rispetto ad oggi. Quindi, il futuro saldo totale – elementare +media + superiore – sarà del tutto negativo.

Il paradosso medievale e moderno: il tempo a disposizione per storia medievale e moderna nelle superiori rischia di essere minore di quello che la stessa riforma prevede nella scuola media di primo grado. Infatti, nel nuovo assetto, si può spiegare storia medievale in I media, partendo dalla caduta dell’impero romano e giungendo al XIII-XV secolo (a seconda degli autori); mentre la storia moderna, da spiegare in II media, potrà andare da quella data fino a Napoleone. Una quantità di tempo superiore a quella che la riforma metterà a disposizione nelle superiori, per gli stessi periodi. Il paradosso, dunque, è che potranno essere studiati analiticamente nelle medie, e sommariamente nelle superiori.

Il Novecento sparito due volte: si rischia, inoltre, di ripetere anche per la secondaria superiore l’effetto-scomparsa del Novecento, se, ad esempio, si confermerà la proposta di studiare nello stesso anno, con lo stesso numero di ore, i due secoli insieme. Di per sé, questi difetti sono una diretta (per quanto non necessariamente prevista) conseguenza di due scelte strategiche di questa riforma:
a. collegare in un’unica "narrazione" la storia delle elementari e quella della media, con il risultato di far scomparire di fatto quel tanto di conoscenza strutturata del mondo antico, che (pure con tutte le difficoltà) oggi le scuole medie riescono ad assicurare, senza compensare questa diminuzione con un adeguato aumento nella secondaria superiore;
b. interpretare la pur necessaria (e mai contestata, nemmeno dai programmi De Mauro) "ricorsività", come ripetizione pedissequa dello stesso modello di storia generale, nel ciclo di base e in quello delle superiori. Infatti, un secondo ciclo – di quattro anni – non è per nulla compatibile con una ripresa degli studi ad un livello più approfondito, se il primo ciclo è di 5-7 anni, nemmeno fidando sulla differenza di età degli allievi. Proprio perché si tratta di scelte strategiche, immagino che la commissione di riforma sia molto legata ad esse e non vorrà rinunciarvi. Tuttavia, se essa converrà con la perversione degli effetti che ho segnalato, potrebbe porre qualche riparo con il seguente emendamento:
Il programma di storia generale sia uguale in tutti i licei, e si svolga in cinque anni

Alcune ricerche da promuovere

Alcuni interventi hanno già messo in evidenza degli aspetti molto discutibili di questa riforma: l’eurocentrismo, la storia come matrice identitaria, errori di fatto e così via (Cajani su "Società e Storia", Prosperi su "Repubblica", nella rubrica curata da Augias, Brusa su "Storiaoggi.it", Mattozzi su "Clio92"). Ma il dibattito stenta a decollare: difende la riforma Vitolo su "Società e Storia", ne difende in qualche modo gli aspetti eurocentrici, recuperati sul nuovo sito della Sisem. Un invito alla discussione, apparso qualche tempo fa sul sito della Sissco, è stato praticamente inevaso, come se tutto fosse stato già detto al tempo del dibattito sui programmi De Mauro. Eppure, le questioni aperte, sia pure da due versanti opposti, dai due progetti di riforma (De Mauro e Moratti) appaiono fondamentali, per definire i nuovi contorni, teorici e pratici, dell’insegnamento della storia nella realtà contemporanea.

Il vero problema, a mio modo di vedere, non è tanto (o soltanto) quello di scegliere una strada, o di fare mediazioni fra proposte, quanto piuttosto quello di spingere gli storici italiani a intervenire nella questione in modo perspicuo: non soltanto con opinioni, espresse in elzeviri e in terze pagine, ma con lo strumento della ricerca. È questo che rende l’opinione degli storici diversa qualitativamente da quella di pedagogisti, giornalisti, uomini di cultura e politici. I temi posti in discussione sono così profondi e delicati, al tempo stesso, che solo con una seria attività di ricerca sarà possibile avere un quadro chiaro e sereno, all’interno del quale una Commissione, poi, potrà prendere decisioni ponderate e si potrà discutere, senza che ogni opinione dia la stura a una sorta di guerra di religione storico-didattica. Dal canto suo, è ormai entrata nello spettro delle discipline universitarie la "Didattica della storia", ormai presente in quasi tutte le Scuole di specializzazione all’insegnamento. Il tempo per una "strutturazione scientifica e accademica" del dibattito sull’insegnamento della storia si può considerare giunto. Ed è un bene: non è qualificante, infatti, che questioni così vitali per una nazione vengano dibattute e decise nella sola stampa (quasi che per la didattica della storia esistesse soltanto il suo "uso pubblico") o dalle redazioni delle case editrici scolastiche. Le questioni aperte sono di diverso genere, e investono l’intero assetto dell’insegnamento storico. Proporrei di accorparle in quattro gruppi:

Il rapporto fra storia, insegnamento storico, identità. Le discipline antropologiche hanno da lungo tempo aperto un dibattito sulla questione identitaria. Molti parlano esplicitamente di un "imbroglio identitario", attuato dalle politiche nazionali negli ultimi decenni. Gli storici, dal canto loro, hanno fatto luce su questioni quali l’invenzione della tradizione e i luoghi di memoria. C’è materia, a mio modo di vedere, per rivedere l’intera questione. È vero che nel 1800 la storia viene introdotta nelle scuole con uno scopo identitario nazionale, e che da quel momento si è costituita una tradizione scolastica. Basta questo per indurre gli storici a difendere la tradizione: oppure il mestiere dello storico è quello di rivederla e sottoporla continuamente a critica? Perché, in questa ricerca ossessiva delle origini, gli storici hanno dimenticato l’ammonimento di Bloch, a considerare la questione delle origini come puramente mitica? Il programma De Mauro era prevalentemente cognitivo, cioè metteva in secondo piano la questione dell’identità e interpretava la storia come strumento di conoscenza e di comprensione. Al contrario, il programma Moratti decide, per tutta la nazione, che l’identità deve essere "giudaico-cristiana", e subordina a questa l’acquisizione delle conoscenze. Entro questo spazio argomentativo, lo storico è un intellettuale che esprime opinioni, per quanto autorevoli, o fornisce risultati di sue ricerche? Qual è il ruolo specifico di una riflessione storiografica nel dibattito sull’identità e sul rapporto che esiste fra questa e la formazione storica?

Storia mondiale e nazionale. Fin dagli anni ’60, i programmi (non solo quelli italiani) introducono la questione delle dimensioni spaziali della storia: locale, regionale, nazionale, europea, mondiale. Come dosare queste dimensioni e come legarle in una sintassi Il programma di storia Moratti-Bertagna: due emendamenti urgenti e alcune ricerche da promuovere significativa? Il cocktail (inevitabile, quali che siano le prese di posizione) deve essere il frutto di una mediazione politica, interna a questa o quella commissione, deciso dalle "maggioranze", o sarà il frutto anche di una riflessione e di un dibattito storiografico? Su questo punto la International Committee of Historical Sciences ha espresso un preciso invito ad tenere vivamente presente la dimensione mondiale. Juergen Kocka, nella sua prolusione alle giornate di studio sulla "Global History", organizzate a Villa Vigoni da Pietro Rossi (maggio 2004), sostiene che il compito futuro delle numerose comunità nazionali di storici è quello di far interagire le loro diverse tradizioni e prospettive di ricerca. Ha proposto, perciò, tre "cantieri": rivedere i concetti e le problematiche delle diverse storie nazionali in modo che siano comprensibili anche da studiosi di altri paesi (ad esempio: descrivere il regime signorile in modo che studiosi giapponesi o africani riescano a comprenderlo); comparare situazioni spaziali diverse; focalizzare tutte le situazioni di intreccio e di interscambio fra spazi diversi. Ecco come un progetto scientifico acquista un forte spessore didattico, dal momento che risponde ad un bisogno largamente sentito nelle scuole di tutto il mondo. Qual è la posizione della comunità storica italiana? Nell’ipotesi che decida una sua strada di ricerca, disgiunta da quella internazionale: quali ne saranno le conseguenze didattiche per la scuola italiana? Queste conseguenze devono essere una semplice ricaduta, o vanno discusse pubblicamente (dando il giusto peso anche all’opinione degli insegnanti)?

Il cosiddetto metodo di insegnamento. Nelle bozze di riforma della secondaria superiore si parla di un "metodo narrativo", e si afferma che deve essere considerato specifico dell’insegnamento storico nelle superiori. Nel programma De Mauro, al contrario, si insisteva sulla necessità di introdurre, accanto alle modalità tradizionali di insegnamento (e non al loro posto, come in qualche intervento eccessivamente polemico si è scritto) anche tecniche di tipo laboratoriale e seminariale. La ricerca (e direi: il lavoro) degli insegnanti negli ultimi quarant’anni ha prodotto una varietà di comportamenti didattici, sommariamente accumulati nella dizione "metodo di insegnamento", e con essa, anche, una somma notevole di problemi e di questioni irrisolte. Quale deve essere l’atteggiamento dello storico, di fronte a questa realtà? Rimpiangere la tradizione dei suoi tempi giovanili, accettare acriticamente le novità, abbandonare tutto alla discussione dei pedagogisti o al senso pratico degli insegnanti? O lasciare che sia una questione soltanto politica, decisa man mano dai governi che si alternano? È ovvio, credo, che la sola risposta specifica che gli storici possono offrire deriva dalla loro capacità di assumere la questione, di aprire spazi interni alle discipline storiche. Di legittimare una didattica della storia, all’interno della quale storici, sostenitori di questo o di quel metodo, si diano battaglia con le armi proprie della ricerca e della discussione scientifica.

La formazione degli insegnanti di storia. Le Scuole di specializzazione, quale che sia il loro destino, hanno evidenziato da una parte tutti i cattivi rapporti che esistono fra storici e pedagogisti, e dall’altra una variegata interpretazione di che cosa voglia dire "Didattica della storia": ripetizione pura e semplice degli studi universitari, approfondimenti dettagliati di questa o di quella questione, immaginata interessante per le scuole, lotta agli stereotipi, lavoro sul manuale, tecniche di insegnamento, studio dei programmi di storia, storiografia e epistemologia storica. L’elenco potrebbe essere lunghissimo e testimonia con ogni evidenza tutte le incertezze della categoria nei confronti del problema della formazione. Se si considera che questo è legato da una parte alle classi di concorso, e dall’altra, inevitabilmente, allo sviluppo degli studi universitari, si apprezza il significato strategico di questo problema per l’intera categoria, quale che sia il proprio interesse di ricerca. Fra tutti, proprio questo è il campo che non dovrebbe essere lasciato allo stato selvaggio.