Ai tradizionali problemi dell’insegnamento della
storia (il tempo, i contenuti, i ragazzi che non si interessano e
così via) si sono aggiunti di recente quelli causati dai programmi
Moratti-Bertagna, che hanno posto i docenti di fronte ad alcune
improvvise novità, delle quali non molti sentivano il bisogno, quali
la riduzione delle ore o la scomparsa della storia antica nelle medie.
Lo sconcerto degli insegnanti è stato grande ed è stato solo in
misura molto ridotta messo in evidenza da alcune iniziative di
protesta, come la sospensione dell’adozione dei nuovi manuali di
storia e qualche articolo sulla stampa. In effetti, gli scompensi
creati da questa nuova organizzazione degli studi sono molti e di
vario genere. Ad alcuni, a mio modo di vedere, si può rimediare senza
eccessivi problemi (a patto solo di volerlo). Altri, invece, sono la
spia di problemi molto profondi e richiedono discussioni e studi che
vanno ben oltre la contingenza di questi nuovi programmi.
Salviamo lo studio del Novecento
In primo luogo segnalo la questione dell’insegnamento
del Novecento. Non è il caso di riaccendere la discussione sulla
direttiva 682 del 1996 (ministro Berlinguer), con argomenti ampiamente
dibattuti e, peraltro,sovradimensionati rispetto al disastro
prospettato da questa riforma: ora non si tratta di continuare a
ragionare dell’importanza e del ruolo formativo dello studio del
Novecento, ma – molto più radicalmente – di intervenire per
impedire la sua sparizione.
Questa riforma,
infatti, ci mette di fronte ad un’autentica emergenza. Pochi
calcoli bastano a illustrare con evidenza il problema. Al momento
attuale, un insegnante di III media ha a disposizione circa 50 ore (al
netto di scioperi, gite, neve e così via), alle quali solitamente
aggiunge 30 ore di educazione civica. Dovrebbero servire a spiegare
bene e diffusamente il Novecento. Secondo la riforma, invece, l’insegnante
futuro avrà qualcosa di meno delle 50 ore annuali – a causa delle
riduzioni di orario – , né potrà disporre della riserva dell’educazione
civica: meno ore e, per giunta, il compito di spiegare non uno, ma ben
due secoli (dal 1796 in poi). Grosso modo: 25 ore per l’Ottocento, e
altrettante per il secolo successivo. Meno, addirittura, di quello che
era previsto dai programmi del ’79, che facevano iniziare la III
media con il Trattato di Vienna: un dispositivo che, come sanno tutti
gli studiosi della questione, già impediva allora lo studio del
Novecento. Tutto ciò è aggravato da un fatto, del quale pochi, anche
fra i docenti, si sono resi conto. Fra due anni, i futuri esami di III
media (esami di stato come quelli di maturità) avranno, molto
presumibilmente, un particolare impatto sull’andamento della scuola,
dal momento che costituiranno uno snodo (pressoché) definitivo per
gli allievi, e vedranno con ogni probabilità l’esordio delle prove
INVALSI, almeno per italiano, scienze e matematica. È facile il
paragone con gli esami attuali di maturità, che, pur nel nuovo
assetto con la Commissione tutta composta da membri interni, spingono
i professori a sospendere la programmazione a maggio (almeno) per
preparare adeguatamente gli allievi: e un mese di meno comporta 10 ore
di storia in meno.
Questa è l’emergenza: in 15-25 ore si dovrebbero spiegare le due
guerre mondiali, la società di massa, la crisi europea, il secondo
dopoguerra, la crisi degli anni ’70 ….
Si ricordi che la direttiva sul Novecento nacque
sull’onda di una scoperta collettiva, innescata da un programma
televisivo (Combat Film, 1994: era il tempo del primo governo
Berlusconi) nel quale una studentessa confessò candidamente di non
sapere chi fosse Badoglio. Fu allora che l’opinione pubblica scoprì
che nessuno studiava il Novecento, né nelle medie né nelle
elementari. Se ne scandalizzarono tutti, commentatori di destra e di
sinistra. Ma con la riforma Moratti, tutti – di destra e di sinistra
– torneremo a quelle tristi sorprese. Questo governo, per altri
versi, è tanto sensibile alla conoscenza del Novecento, che ha
aggiunto alla Giornata della memoria, celebrata in tutto il mondo, una
particolare, solo italiana (per la verità prontamente bilanciata da
un’analoga istituita in Slovenia), destinata al ricordo dei massacri
delle foibe. Saremo un paese con ben due giornate della memoria,
dunque, e qualche milione di ragazzi ignari del Novecento?
Si può (e si deve) supporre che non esista
governo, di qualsiasi colore politico, interessato a tale ignoranza di
massa. Si deve (e si può) supporre che un curricolo verticale –
dalle elementari alle medie – di oltre 300 ore di storia, che ne
riservi solo due decine al Novecento, sia materialmente (e non
politicamente o ideologicamente) sbagliato. Si può ipotizzare che si
tratti di un mero errore tecnico, di una svista, alla quale lo stesso
ministro potrebbe porre rimedio, senza essere costretto a rinnegare
nessuna sua convinzione, ma senza convocare, nemmeno, commissioni di
Nobel (come nella riuscita operazione prendi-tempo su Darwin):
semplicemente spostando il discrimine cronologico fra II e III media.
È sufficiente iniziare la storia della III secondaria inferiore con
il 1870, o, in alternativa, lasciare liberi i docenti di stabilire
loro la data, così come questo stesso programma prevede nel biennio
I-II media.
Peraltro, la data del 1870 fu suggerita da alcuni
critici asperrimi di Berlinguer, per mitigarne il presunto eccesso di
novecentismo: potremmo accettarla tutti, perciò. Sottolineo che si
tratta di un emendamento effettivamente urgente: occorrerebbe
approvarlo prima che gli editori stampino le copie del III volume (al
momento sono state stampate solo quelle per la propaganda scolastica).
Per contro, sarebbe facile da promulgare, perché questo spostamento
non è collegato necessariamente a nessun’altra modificazione
aggiuntiva.
Per uno studio realmente più
approfondito nelle superiori
Il programma della primaria e della secondaria di
primo grado è stato varato nel silenzio, quasi assoluto, di
insegnanti e storici. Solo a programma operante ci si è accorti dei
problemi. Si è ancora in tempo, a mio giudizio, per evitare che
questa situazione si ripeta per le superiori: almeno su alcune
questioni fondamentali e condivisibili da tutti. Conosciamo alcuni
tratti di questo programma: fin d’ora invitano a discussioni
profonde e prolungate (sulla concezione della storia, della didattica,
sulle finalità dell’insegnamento e così via). Propongo di
concentrare le richieste di emendamenti urgenti intorno a due suoi
aspetti. La nuova organizzazione degli studi prevede che ci sia un
programma di storia diverso per ciascun liceo. Proporrei, invece, che
fosse unico, sulla base del principio che la storia non è una materia
di servizio, professionalizzante, ma una materia di cittadinanza.
Serve a tutti i cittadini per capire il mondo, per interpretarlo: non
per far meglio un certo lavoro, piuttosto che un altro. Una materia
formativa di questo genere non può che essere uguale per tutti. Non
è possibile infatti immaginare cittadinanze diverse, all’interno di
uno stesso paese: né per la costituzione italiana, né per quella
europea.
Una seconda caratteristica del nuovo programma è
che dovrebbe essere articolato in un percorso cronologico di quattro
anni, al quale si aggiunge un anno di studio di temi. Tale
organizzazione è motivata sia dal desiderio di conservare un certo
parallelismo con il programma quadriennale delle professionali (ma
quale storia, poi, si studierà in questi istituti?), sia dalla
necessità di disporre un anno speciale, "orientativo",
prima di iscriversi all’Università. Sono motivazioni interessanti,
intorno alle quali conviene discutere approfonditamente, per valutarne
l’utilità o l’efficacia delle soluzioni: ma, intanto, possiamo
immediatamente apprezzarne alcune conseguenze non propriamente
desiderabili:
• La compressione del mondo antico: non ci
sarà un recupero di conoscenza del mondo antico, perché il tempo a
disposizione degli insegnanti delle superiori diminuirà di circa 30
ore (metà anno scolastico), rispetto ad oggi. Quindi, il futuro saldo
totale – elementare +media + superiore – sarà del tutto negativo.
• Il paradosso medievale e moderno: il
tempo a disposizione per storia medievale e moderna nelle superiori
rischia di essere minore di quello che la stessa riforma prevede nella
scuola media di primo grado. Infatti, nel nuovo assetto, si può
spiegare storia medievale in I media, partendo dalla caduta dell’impero
romano e giungendo al XIII-XV secolo (a seconda degli autori); mentre
la storia moderna, da spiegare in II media, potrà andare da quella
data fino a Napoleone. Una quantità di tempo superiore a quella che
la riforma metterà a disposizione nelle superiori, per gli stessi
periodi. Il paradosso, dunque, è che potranno essere studiati
analiticamente nelle medie, e sommariamente nelle superiori.
• Il Novecento sparito due volte: si
rischia, inoltre, di ripetere anche per la secondaria superiore l’effetto-scomparsa
del Novecento, se, ad esempio, si confermerà la proposta di studiare
nello stesso anno, con lo stesso numero di ore, i due secoli insieme.
Di per sé, questi difetti sono una diretta (per quanto non
necessariamente prevista) conseguenza di due scelte strategiche di
questa riforma:
a. collegare in un’unica "narrazione" la storia delle
elementari e quella della media, con il risultato di far scomparire di
fatto quel tanto di conoscenza strutturata del mondo antico, che (pure
con tutte le difficoltà) oggi le scuole medie riescono ad assicurare,
senza compensare questa diminuzione con un adeguato aumento nella
secondaria superiore;
b. interpretare la pur necessaria (e mai contestata, nemmeno dai
programmi De Mauro) "ricorsività", come ripetizione
pedissequa dello stesso modello di storia generale, nel ciclo di base
e in quello delle superiori. Infatti, un secondo ciclo – di quattro
anni – non è per nulla compatibile con una ripresa degli studi ad
un livello più approfondito, se il primo ciclo è di 5-7 anni,
nemmeno fidando sulla differenza di età degli allievi. Proprio
perché si tratta di scelte strategiche, immagino che la commissione
di riforma sia molto legata ad esse e non vorrà rinunciarvi.
Tuttavia, se essa converrà con la perversione degli effetti che ho
segnalato, potrebbe porre qualche riparo con il seguente emendamento:
Il programma di storia generale sia
uguale in tutti i licei, e si svolga in cinque anni
Alcune ricerche da promuovere
Alcuni interventi hanno già messo in evidenza
degli aspetti molto discutibili di questa riforma: l’eurocentrismo,
la storia come matrice identitaria, errori di fatto e così via (Cajani
su "Società e Storia", Prosperi su "Repubblica",
nella rubrica curata da Augias, Brusa su "Storiaoggi.it",
Mattozzi su "Clio92"). Ma il dibattito stenta a decollare:
difende la riforma Vitolo su "Società e Storia", ne difende
in qualche modo gli aspetti eurocentrici, recuperati sul nuovo sito
della Sisem. Un invito alla discussione, apparso qualche tempo fa sul
sito della Sissco, è stato praticamente inevaso, come se tutto fosse
stato già detto al tempo del dibattito sui programmi De Mauro.
Eppure, le questioni aperte, sia pure da due versanti opposti, dai due
progetti di riforma (De Mauro e Moratti) appaiono fondamentali, per
definire i nuovi contorni, teorici e pratici, dell’insegnamento
della storia nella realtà contemporanea.
Il vero problema, a mio modo di vedere, non è
tanto (o soltanto) quello di scegliere una strada, o di fare
mediazioni fra proposte, quanto piuttosto quello di spingere gli
storici italiani a intervenire nella questione in modo perspicuo: non
soltanto con opinioni, espresse in elzeviri e in terze pagine, ma con
lo strumento della ricerca. È questo che rende l’opinione degli
storici diversa qualitativamente da quella di pedagogisti,
giornalisti, uomini di cultura e politici. I temi posti in discussione
sono così profondi e delicati, al tempo stesso, che solo con una
seria attività di ricerca sarà possibile avere un quadro chiaro e
sereno, all’interno del quale una Commissione, poi, potrà prendere
decisioni ponderate e si potrà discutere, senza che ogni opinione dia
la stura a una sorta di guerra di religione storico-didattica. Dal
canto suo, è ormai entrata nello spettro delle discipline
universitarie la "Didattica della storia", ormai presente in
quasi tutte le Scuole di specializzazione all’insegnamento. Il tempo
per una "strutturazione scientifica e accademica" del
dibattito sull’insegnamento della storia si può considerare giunto.
Ed è un bene: non è qualificante, infatti, che questioni così
vitali per una nazione vengano dibattute e decise nella sola stampa
(quasi che per la didattica della storia esistesse soltanto il suo
"uso pubblico") o dalle redazioni delle case editrici
scolastiche. Le questioni aperte sono di diverso genere, e investono l’intero
assetto dell’insegnamento storico. Proporrei di accorparle in
quattro gruppi:
• Il rapporto fra storia, insegnamento
storico, identità. Le discipline antropologiche hanno da lungo
tempo aperto un dibattito sulla questione identitaria. Molti parlano
esplicitamente di un "imbroglio identitario", attuato dalle
politiche nazionali negli ultimi decenni. Gli storici, dal canto loro,
hanno fatto luce su questioni quali l’invenzione della tradizione e
i luoghi di memoria. C’è materia, a mio modo di vedere, per
rivedere l’intera questione. È vero che nel 1800 la storia viene
introdotta nelle scuole con uno scopo identitario nazionale, e che da
quel momento si è costituita una tradizione scolastica. Basta questo
per indurre gli storici a difendere la tradizione: oppure il mestiere
dello storico è quello di rivederla e sottoporla continuamente a
critica? Perché, in questa ricerca ossessiva delle origini, gli
storici hanno dimenticato l’ammonimento di Bloch, a considerare la
questione delle origini come puramente mitica? Il programma De Mauro
era prevalentemente cognitivo, cioè metteva in secondo piano la
questione dell’identità e interpretava la storia come strumento di
conoscenza e di comprensione. Al contrario, il programma Moratti
decide, per tutta la nazione, che l’identità deve essere "giudaico-cristiana",
e subordina a questa l’acquisizione delle conoscenze. Entro questo
spazio argomentativo, lo storico è un intellettuale che esprime
opinioni, per quanto autorevoli, o fornisce risultati di sue ricerche?
Qual è il ruolo specifico di una riflessione storiografica nel
dibattito sull’identità e sul rapporto che esiste fra questa e la
formazione storica?
• Storia mondiale e nazionale. Fin dagli
anni ’60, i programmi (non solo quelli italiani) introducono la
questione delle dimensioni spaziali della storia: locale, regionale,
nazionale, europea, mondiale. Come dosare queste dimensioni e come
legarle in una sintassi Il programma di storia Moratti-Bertagna: due
emendamenti urgenti e alcune ricerche da promuovere significativa? Il
cocktail (inevitabile, quali che siano le prese di posizione) deve
essere il frutto di una mediazione politica, interna a questa o quella
commissione, deciso dalle "maggioranze", o sarà il frutto
anche di una riflessione e di un dibattito storiografico? Su questo
punto la International Committee of Historical Sciences ha espresso un
preciso invito ad tenere vivamente presente la dimensione mondiale.
Juergen Kocka, nella sua prolusione alle giornate di studio sulla
"Global History", organizzate a Villa Vigoni da Pietro Rossi
(maggio 2004), sostiene che il compito futuro delle numerose comunità
nazionali di storici è quello di far interagire le loro diverse
tradizioni e prospettive di ricerca. Ha proposto, perciò, tre
"cantieri": rivedere i concetti e le problematiche delle
diverse storie nazionali in modo che siano comprensibili anche da
studiosi di altri paesi (ad esempio: descrivere il regime signorile in
modo che studiosi giapponesi o africani riescano a comprenderlo);
comparare situazioni spaziali diverse; focalizzare tutte le situazioni
di intreccio e di interscambio fra spazi diversi. Ecco come un
progetto scientifico acquista un forte spessore didattico, dal momento
che risponde ad un bisogno largamente sentito nelle scuole di tutto il
mondo. Qual è la posizione della comunità storica italiana? Nell’ipotesi
che decida una sua strada di ricerca, disgiunta da quella
internazionale: quali ne saranno le conseguenze didattiche per la
scuola italiana? Queste conseguenze devono essere una semplice
ricaduta, o vanno discusse pubblicamente (dando il giusto peso anche
all’opinione degli insegnanti)?
• Il cosiddetto metodo di insegnamento.
Nelle bozze di riforma della secondaria superiore si parla di un
"metodo narrativo", e si afferma che deve essere considerato
specifico dell’insegnamento storico nelle superiori. Nel programma
De Mauro, al contrario, si insisteva sulla necessità di introdurre,
accanto alle modalità tradizionali di insegnamento (e non al loro
posto, come in qualche intervento eccessivamente polemico si è
scritto) anche tecniche di tipo laboratoriale e seminariale. La
ricerca (e direi: il lavoro) degli insegnanti negli ultimi quarant’anni
ha prodotto una varietà di comportamenti didattici, sommariamente
accumulati nella dizione "metodo di insegnamento", e con
essa, anche, una somma notevole di problemi e di questioni irrisolte.
Quale deve essere l’atteggiamento dello storico, di fronte a questa
realtà? Rimpiangere la tradizione dei suoi tempi giovanili, accettare
acriticamente le novità, abbandonare tutto alla discussione dei
pedagogisti o al senso pratico degli insegnanti? O lasciare che sia
una questione soltanto politica, decisa man mano dai governi che si
alternano? È ovvio, credo, che la sola risposta specifica che gli
storici possono offrire deriva dalla loro capacità di assumere la
questione, di aprire spazi interni alle discipline storiche. Di
legittimare una didattica della storia, all’interno della quale
storici, sostenitori di questo o di quel metodo, si diano battaglia
con le armi proprie della ricerca e della discussione scientifica.
• La formazione degli insegnanti di storia.
Le Scuole di specializzazione, quale che sia il loro destino, hanno
evidenziato da una parte tutti i cattivi rapporti che esistono fra
storici e pedagogisti, e dall’altra una variegata interpretazione di
che cosa voglia dire "Didattica della storia": ripetizione
pura e semplice degli studi universitari, approfondimenti dettagliati
di questa o di quella questione, immaginata interessante per le
scuole, lotta agli stereotipi, lavoro sul manuale, tecniche di
insegnamento, studio dei programmi di storia, storiografia e
epistemologia storica. L’elenco potrebbe essere lunghissimo e
testimonia con ogni evidenza tutte le incertezze della categoria nei
confronti del problema della formazione. Se si considera che questo è
legato da una parte alle classi di concorso, e dall’altra,
inevitabilmente, allo sviluppo degli studi universitari, si apprezza
il significato strategico di questo problema per l’intera categoria,
quale che sia il proprio interesse di ricerca. Fra tutti, proprio
questo è il campo che non dovrebbe essere lasciato allo stato
selvaggio.
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