kosovari albanesi in fuga dalla loro terra per la pulizia
etnica serba e le bombe della Nato sono stati definiti in molti modi: profughi, deportati,
rifugiati, sfollati, fuggiaschi, espatriati, respinti, espulsi, clandestini, così come ha
notato lo scrittore Predrag Matvejevic.
Su di loro si è concentrata l'attenzione dei mass-media,
che spesso hanno dato della guerra una versione (scritti e immagini) tutta giocata sulle
emozioni, rinunciando al livello razionale e di approfondimento. Poche le interviste ai profughi in diretta televisiva e sui giornali, e
quelle fatte sono tutte concentrate sulle violenze subite e sui terribili trasferimenti
coatti. Non si sono avute notizie più circostanziate sulle condizioni dei campi
profughi sovraffollati e i continui sbarchi di clandestini in Italia durante il
conflitto non sono stati enfatizzati.
L'antropologo Alberto Salza usa invece una nuova definizione: dislocati,
cioè sradicati, come ormai ce ne sono tanti nel mondo, cacciati dalla loro terra dalla
guerra o dalla carestia. L'antropologo può facilmente osservare le trasformazioni dell'identità
etnica, che è un fenomeno culturale e non una connotazione naturale. I dislocati non
hanno più documenti di riconoscimento e sono di fatto degli apolidi. L'esito del dramma
è l'apatia assoluta, individuando il campo come unico rifugio e accettando anche
le condizioni più deteriorate.
L'articolo, da cui sono
tratti quattro brani, ha il titolo Non profughi ma dislocati ed è comparso su
"Tuttoscienze", supplemento de "La Stampa", 14 aprile
1999).
Questa è una categoria nuova di
umanità, nota solo a militari, operatori statistici e antropologi. Non si tratta di
profughi, in quanto non sono partiti verso un altro Stato nazionale. Non si tratta di
rifugiati, il cui status è stato riconosciuto dall'Onu e dà diritto a congrui rimborsi
spese. Spesso non sono neppure deportati, in quanto lasciano la loro terra sotto pressioni
indirette. I dislocati non sono vittime di catastrofi, ma fuggono (o vengono spostati) a
causa di fenomeni prodotti dall'uomo, quali la guerra o la carestia (spesso indotta
artificialmente, come ho osservato più volte in Africa). In Sudan meridionale i dislocati
sono milioni, di etnie così varie che una mappa antropologica della zona non avrebbe oggi
alcun senso. In Etiopia, al tempo della grande illusione umanitaria occidentale modello
roch'n'roll, i dislocati erano merce strategica: i contadini di montagna venivano portati
a coltivare le piane più umide e fertili, di cui, però, essi nulla sapevano; i nomadi
venivano sedentarizzati nei luoghi impervi, da altri abbandonati forzosamente. Su tutti
gli spostamenti dei dislocati vigilano i militari, multietnici come le varie alleanze
difensive interstatali.
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I dislocati mostrano tendenze centripete: in Africa, dove le proporzioni sono sempre
bibliche ( e la tragedia del Kosovo appare lieve, senza braccia mozzate dal machete, o
ventri gonfi d'aria ed liquidi dissenterici, o pelli color melanzana tese su ossa di
fame), le strategie di sopravvivenza dei dislocati sono simili a quelle che si utilizzano
nei deserti ( e di un deserto culturale si tratta): la mobilità permanente o la tana,
l'oasi o la carovana.
Così si assiste, senza alcuna possibilità di arrestare il flusso, a colonne umane che
tracciano nuove piste nella foresta pluviale del Congo o tra i papiri del Nilo sudanese,
nei fiumi secchi del Mali settentrionale o a fianco delle strade asfaltate di Nigeria,
Sierra Leone, Guinea Bissau, Liberia, Angola eccetera. Oppure, in luoghi reietti, sorgono
accumuli umani di proporzioni e forme innaturali alla socialità. Qui il cibo arriva dal
cielo e l'acqua da un tubo: perché cercare altrove?
Per un dislocato, il passo lento della colonna e l'attesa delle razioni sono l'unico
universo in cui si possa vivere.
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Probabilmente vi metteranno su una chiatta, come i rifiuti tossici, e vi faranno girare il
mondo, un po' come previsto per le genti del Kosovo.
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A questo punto, il dislocato ha esperienza di un collasso percettivo, un deterioramento
delle capacità di discernimento delle realtà e, come esito, di un'apatia assoluta. Il
mondo gli è sottosopra e l'unico rifugio diventa il campo.
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