Fascismo e contadini

 

D.: Un altro tema importante, che in qualche modo si collega a questo discorso ma in parte lo travalica, è quello del rapporto tra fascismo, totalitarismo e contadini o aristocrazia terriera. Tu riprendi la riflessione di Barrington Moore ( Barrington Moore jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia. Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno, Torino, Einaudi, 1966) sul rapporto tra le classi sociali legate all’agricoltura e lo sviluppo effettivo o mancato della democrazia in varie parti del mondo. Fai riferimento inoltre a Serpieri (A. Serpieri La struttura dell'agricoltura italiana,Roma, Edizioni italiane, 1947), che sottolinea come tra il 1911 e il 1921 si sia verificato in Italia un consistente spostamento della proprietà fondiaria dai ceti nobiliari o borghesi ai contadini. A questo proposito mi sembra che Salvatore Lupo, nel suo recente libro (S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2000, pp. 85-98) prenda le distanze dalla tesi che istituisce un rapporto molto stretto tra fascismo e mobilitazione delle classi medie agricole, e cioè questi nuovi proprietari che emergono negli anni intorno alla prima guerra mondiale. D’altro canto il rapporto con i contadini è un elemento fondamentale nell’ascesa del nazismo, e ha un forte rilievo nel caso dello stalinismo. Tu affermi che "Il fascismo divenne […] il partito della piccola borghesia contadina, nazionalizzata dalla guerra" (A. De Bernardi, Una dittatura moderna..., cit., pg. 138). Come si spiega il fatto che uno degli attori sociali più rilevanti nell’affermazione del regime fascista sia il primo a subire le conseguenze negative delle sue scelte sia dopo il 1926 sia dopo la crisi del 1929, quando cioè "il 30 per cento dei contadini diventati proprietari nel primo dopoguerra fu costretto a vendere il proprio fondo" (A. De Bernardi, Una dittatura moderna..., cit., pg. 255)?

R.: Ci sono due elementi che noi dobbiamo tenere presenti: uno è di carattere storico politico, e uno è di carattere socioeconomico; uno ha una scala nazionale, e uno ha una scala generale. C’è un problema che riguarda il rapporto delle forze politiche italiane con la formazione di questa nuova borghesia rurale che cresce sull’onda della guerra, sull’onda della smobilitazione postbellica, sull’onda del fatto che la proprietà fondiaria accentua le sue tendenze già visibili dalla fine del secolo XIX a ruralizzarsi e a contadinizzarsi.

La guerra enfatizza questo fenomeno. C’è questa borghesia rurale che comincia a contare, con i proprio nuclei familiari qualche milione di individui e che tra l’altro è collocata in aree geografiche calde, la quale ha un problema di rappresentanza politica e ha un problema di difesa della proprietà. Su questo coacervo sociale istintivamente agiscono due forze, che ne capiscono l’importanza: in parte sono i socialisti, in parte sono i fascisti. I socialisti non riescono a liberarsi però da una rappresentanza esclusivamente bracciantile, e nel momento in cui i braccianti entrano in conflitto con queste forze non soltanto in termini di lotta sindacale ma anche nella complessa gestione delle amministrazioni locali, nel controllo del territorio, nella definizione degli spazi che il mondo rurale riesce a garantire all’articolazione dei suoi soggetti, qui i socialisti perdono. Noi vediamo una cosa molto semplice: i mezzadri e i coloni tra il 1919 e il 1920 stanno nel socialismo italiano ma dopo non più. Il caso di Ferrara, dove si sviluppa uno dei più grandi fenomeni di rassismo rurale è emblematico: qui vediamo che già nel ’21 la rappresentanza politica di questi nuovi ceti, che rifiutano quella che allora veniva chiamata "la dittatura socialista", si orienta in direzione del partito fascista, che acquisisce la rappresentanza di questi ceti proprio perché non fa un discorso conservatore volto a tutelare gli interessi rurali e agrari, ma nonostante l’appoggio degli agrari fa un ragionamento volto alla promozione di questi strati, tanto è vero che tutto il conflitto che si apre nel fascismo tra rappresentare gli agrari e rappresentare queste nuove classi è uno degli elementi cruciali della polemica dei rassisti e dei "sinistri" con il centro milanese, con Mussolini stesso.

Qui si gioca una partita molto complessa. Questo per gli anni Venti. E’ chiaro che poi le politiche agrarie del fascismo furono orientate ad una pluralità di fini. Innanzitutto c’è un elemento cruciale, che riguarda l’Europa e il mondo, cioè il fatto che negli anni Venti e Trenta l’agricoltura diventa un’area assistita del sistema economico, e questo vale anche per l’Italia. L’afflusso di risorse non va soltanto nelle mani degli agrari; si verifica, attraverso vari canali politici ed economici, un afflusso di risorse anche in direzione di questi nuovi proprietari. La bonifica, la battaglia del grano, sono tutte politiche che in qualche modo tendono anche a favorire questi strati sociali. Poi c’è un problema molto di fondo, e qui è l’incompiutezza di cui prima parlavamo. Non c’è dubbio che la linea dei tecnocrati alla Serpieri è volta alla modernizzazione delle campagne, che in qualche caso tende ad avere in questi ceti nuovi il punto di riferimento e a usarli in qualche modo contro la vecchia rendita. Però nel contempo il fascismo è anche il movimento che ha raccolto l’adesione degli agrari e qui si apre un contenzioso, un conflitto. La fine stessa di Serpieri, la fine delle politiche di modernizzazione del Mezzogiorno, la fine all’interno della distribuzione di risorse all’agraria di fondi che andavano in direzione della modernizzazione delle campagne, sono tutti segnali che mettono in evidenza come si fosse verificato un vero conflitto di interessi tra ceti medi rurali e grande proprietà fondiaria all’interno del quale il fascismo non ha saputo giocare un ruolo dirimente e alla fine è stato travolto dalla forza e dal peso che gli agrari avevano nel mondo rurale e di conseguenza negli equilibri "di classe" sui quali stava in piedi il regime. Non bisogna dimenticare però che soprattutto nella Pianura Padana, nonostante la modestia dei risultati delle politiche di "sbracciantizzazione", gli interventi volti a trasformare i braccianti in compartecipanti e tutti gli interventi volti alla promozione della cooperazione rurale in funzione del potenziamento delle capacità economiche di questi strati intermedi.

Certo, le istanze iniziali del movimento fascista negli anni Trenta si perdono, su questo non ci sono dubbi. Fino agli anni Venti l’agricoltura era stata in qualche modo una leva di equilibrio della bilancia dei pagamenti, aveva avuto un ruolo attivo, pur in un paese in via di industrializzazione, nel sistema economico, dopo perde questo significato e diventa o una riserva indiana di forza lavoro, o comunque un settore assistito.