D.: Questo è un
elemento interessante anche rispetto alla periodizzazione che proponi:
"compromesso bonapartista" (1922-1924), "compromesso
autoritario" (1925-1929), "progetto totalitario" (dal
1930 in avanti).
R.: La mia
impressione è questa: non c’è dubbio che dal 1922 fino alle
"leggi fascistissime" non è chiaro quale sarà il destino
del fascismo. Tutto sommato per una lunga fase l’idea che il
notabilato liberale aveva alimentato e promosso, che era quella di
utilizzare il fascismo come "guardia bianca" per ristabilire
l’ordine e poi di metterlo da parte una volta ottenuto il risultato,
è un progetto reale e perseguito. Un progetto che lo stesso Mussolini
ha presente e teme moltissimo, perché è chiaro che tutto il dilemma
tra "rivoluzione" e "compromesso" che divide il
fascismo tra il 1922 e il 1926 ha un fondamento di verità, per il
semplice fatto che l’appoggio che la borghesia, i liberali, il
vecchio establishment, erano disposti a dare a Mussolini
presupponeva esplicitamente il rinnegare la "rivoluzione" e
quindi di rientrare progressivamente nell’alveo del vecchio sistema
liberale. Croce è emblematico da questo punto di vista, lui l’ha
sempre sperato fino al 1925. E’ proprio quando Mussolini non
ottempera al patto bonapartista, dopo l’assassinio di Matteotti e le
"leggi fascistissime" e quindi sposta in avanti il carattere
del regime in linea esplicitamente autoritaria, proponendo un
cambiamento radicale dello Stato e mettendo in soffitta lo Statuto
albertino e così via, che gli uomini come Albertini e Croce
passeranno da posizioni di neutralità o di appoggio a posizioni
"antifasciste". Prima no. E’ chiaro quindi che questo è
un passaggio cruciale, che dà il senso dell’evoluzione politica che
attraversa il fascismo. Si tratta di un’evoluzione politica che non
si conclude nel 1929, perché nel 1929 il "compromesso
autoritario", così l’ho chiamato, ha un ulteriore salto in
avanti perché Mussolini decide di perseguire il suo disegno
totalitario.Ed è a questo punto che si apre la fase del totalitarismo
incompiuto di cui ho parlato prima.
D.: C’è una
periodizzazione abbastanza simile a questa di cui stiamo parlando, ed
è quella delineata a livello europeo da K. Polanyi (K. Polanyi,
La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della
nostra epoca, Torino, Einaudi, 1974, pp.297-310): dal 1917 al 1923
(rivoluzione e controrivoluzione); dal 1924 al 1929 (il boom
economico, il piano Dawes, etc.); dal 1929 in poi (il fascismo non
più la caratteristica di un governo autoritario in Italia, ma una
soluzione alternativa possibile al problema della società
industriale). C’è un’anomalia italiana, dice Polanyi, perché
soltanto in Italia i conservatori non furono in grado di liquidare da
soli il movimento operaio, mentre in altri paesi essi riuscirono
benissimo a fare ciò. L’altra cosa interessante che dice Polanyi è
che "Se mai vi è stato un movimento politico che ha risposto
alle necessità di una situazione obiettiva senza essere il risultato
di cause fortuite, esso fu il fascismo." ( K. Polanyi, La
grande trasformazione, cit., pg. 297); e più avanti: "Il
fascismo fu una possibilità politica sempre presente, quasi una
reazione emotiva istantanea, in ogni comunità industriale dopo gli
anni Trenta. Si può chiamarlo una "mossa" piuttosto che un
"movimento" per indicare la natura impersonale della crisi i
cui sintomi erano spesso vaghi e ambigui." (K. Polanyi, La
grande trasformazione, cit.,
pg. 299).
R.: Polanyi, insieme
con Barrington Moore sono i punti di riferimento del mio modo di
interpretare il fascismo. Perché lo dico? Perché innanzitutto
Polanyi, e anche Barrington Moore, toglie dal campo un equivoco che vi
è sempre stato nella riflessione storiografica italiana, e cioè l’idea
che il fascismo sia stato un "accidente" della storia
italiana e della storia europea, non tanto nel senso della
"invasione degli Hyksos" per dirla in termini crociani , ma
piuttosto di un fenomeno che ha niente a che vedere con i problemi che
stavano di fronte alla società avanzata europea e nordamericana nel
dopoguerra. Invece il fascismo è una risposta a questi problemi, ci
piaccia o non ci piaccia. Anzi, fino a metà degli anni Trenta, dal
1929 al 1935, è "la" risposta, perché le alternative cioè
il bolscevismo, e New Deal, sono per motivi diversi assolutamente
deboli e scarsamente "competitive".
In Europa, di fronte
ai problemi della crisi, dello sviluppo delle forze produttive, della
inclusione e di nazionalizzazione delle masse, la risposta risolutiva
è il fascismo, non il nazismo (e vedremo poi perché), cioè un
regime totalitario a fortissima carica "sviluppista" e a
forte carica nazionalizzatrice, perché l’elemento populista è
molto presente nel fascismo. Ho fatto quell’accenno al nazismo
perché secondo me il discorso che fa Polanyi della "mossa"
è perfettamente aderente al nazismo. Il nazismo è la
"mossa" nel momento di più grande marasma e in uno dei
paesi dove la crisi era stata verticale, ma in Italia il fascismo non
è una "mossa" perché si impone non sull’onda della crisi
ma sull’onda del dopoguerra, cioè sull’onda di quel fenomeno di
disgregazione dell’Europa fra il 1917 e 1923, nel quale è vero che
cozzano rivoluzione e controrivoluzione, ma questa controrivoluzione
è un disegno moderno, non è un disegno regressivo, è un disegno
cioè che mette in campo la possibilità di risolvere gli stessi
problemi che la rivoluzione avrebbe voluto risolvere: sviluppare le
forze produttive, inglobare e favorire le classi lavoratrici e i
contadini. Il fascismo queste stesse cose voleva. Certo, innanzitutto
c’è un problema di classe dirigente, di ambiguità ideologica
dietro il fascismo; c’è un problema che riguarda il fatto che l’Italia
è un paese ancora in via di sviluppo, non è nel cuore dell’Europa.
Da questo punto di vista è vero che il fascismo segnala una debolezza
delle élites politiche. Tutta la riflessione molto
interessante di Zeev Sternhell sul fatto che è la Francia la patria
del fascismo è vera, però lui dimentica di segnalare un dato, che la
borghesia francese non sceglie il fascismo. Ecco perché il fascismo
[in Francia] rimane un fenomeno minoritario di movimenti, di gruppi
che hanno pur un’influenza politica ma che se non ci fosse stata la
sconfitta militare non avrebbe mai avuto la possibilità concreta di
accedere al governo e quindi di diventare sistema politico. Perché
lì la borghesia risolve da sola il problema, diciamo così, dell’ordine
pubblico, del controllo sociale con un’ipotesi che potremmo chiamare
radical-conservatrice, fortemente ancorata ai valori della democrazia
e della Terza Repubblica. Anche in Inghilterra viene messa in campo
una soluzione della crisi postbellica nella quale la classe dirigente
borghese non abdica alla democrazia,affindandosi a movimenti eversivi
di destra, pur presenti in quel paese.
In Italia invece è
proprio questo che accade: la borghesia liberale rinuncia allo stato
di diritto e alla libertà democratiche perché non ha un progetto di
democratizzazione della società capace di fare convivere conflitto e
inclusione sociale al di fuori di un disegno autoritario.
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