Quella riforma non s'ha da fare

di Laurana Lajolo

 

.L’intervista rilasciata al quotidiano "La Stampa" il 16 maggio scorso dal probabile Ministro della P.I., Rocco Buttiglione, è inquietante dal punto di vista politico-istituzionale e dal punto di vista culturale e scolastico.

La volontà del Ministro, recependo i giudizi negativi sulla riforma dei cicli, fortemente sostenuti durante la campagna elettorale da molti intellettuali ed opinionisti dei media, è quella di sospendere la riforma, provocando una rottura inusuale della continuità istituzionale, poiché la riforma dei cicli scolastici è già legge ed è già in via di attuazione.

Si verrebbe così a interrompere un processo avviato dal Parlamento con i provvedimenti dell’autonomia, degli istituti comprensivi, dei curricoli del biennio della scuola di base, un processo, per altro già tardivo, per adeguare il nostro sistema scolastico alle esigenze della società e del mercato del lavoro. L’innovazione dei programmi scolastici è, infatti, una necessità rispetto alle trasformazioni, già avvenute, dei saperi e delle professioni.

In campo culturale e, in particolare, nell’ambito della scuola, le parole del futuro Ministro si presentano come una forte ingerenza ideologica sull’impostazione dell’insegnamento, in particolare quello di storia. Del resto, l’accanito dibattito contro il nuovo curricolo di storia ha polarizzato tutta la discussione sulla riforma. E’ stato dunque questo il terreno di scontro pre-elettorale, in cui sembra che la destra sia riuscita a coagulare anche il disagio e il rifiuto di settori di insegnanti di sinistra.

La competizione elettorale, appena conclusa, si configura, infatti, come una vittoria politica del centro-destra, ma anche, o forse principalmente, una vittoria culturale: la dimostrazione che la cultura di destra è riuscita a formare un’opinione ampiamente diffusa, ad esempio, sui temi della rivisitazione della storia in chiave revisionista e, in particolare, a farsi interprete di preoccupazioni rispetto al cambiamento e all’innovazione nell’ambito della scuola.

D’altro canto, il processo di riforma, voluto da Luigi Berlinguer, è stato contraddittorio e calato dall’alto, senza un’adeguata consultazione e partecipazione dei soggetti della scuola (insegnanti e studenti).

Gli insegnanti sono stati, dunque, marginali nel processo di riforma, hanno espresso tutt’al più disagio, ma non hanno avuto e cercato occasioni per intervenire attivamente nell’architettura della scuola e nella delineazione dei suoi contenuti. E questa è stata la manchevolezza più grave.

Ma va anche detto che per l’autonomia scolastica e per l’introduzione della storia del Novecento nell’ultimo anno si è attuato da parte del Ministero un notevole piano di aggiornamento, anche se non pienamente efficace, che non ha molti precedenti nella storia della scuola. Non è stato, comunque, sciolto, con l’aggiornamento, il nodo rilevante della partecipazione degli insegnanti ai processi di riforma.

Ma veniamo alla concezione della storia, espressa da Buttiglione. Il primato del cristianesimo nella storia nazionale, con la ingenua e ridicola indicazione di un percorso didattico attraverso le Chiese di Roma, sembra prefigurare il ritorno a un’impostazione gesuitica dell’insegnamento e a ricalcare vecchie impostazioni, che, credo, non vengano neppure più affacciate nelle scuole cattoliche di stretta osservanza.

I valori culturali, poi, vanno ricercati, con nostalgico classicismo, nel mondo greco e romano. Sembra questo un punto di vista opposto alla scuola in funzione del mercato, quella di Berlusconi della tre I.

Soffermandosi in particolare sul Novecento, Buttiglione recepisce il succo del revisionismo: il fascismo e il nazismo si giustificano come risposta al comunismo, l’Italia è stata compattamente fascista e la Resistenza è stato un fenomeno minoritario rispetto alla maggioranza della popolazione, che ha passivamente atteso gli eventi.

Il futuro Ministro, quindi, indica ideologicamente che cosa e come insegnare la storia e allora viene da chiedersi quale ruolo intenderà lasciare alla libertà di insegnamento e di programmazione, quale spazio alla propositività culturale e metodologica dei docenti?

Durante il dibattito sul nuovo curricolo di storia, alcuni storici accademici e noti opinionisti, che hanno pontificato su contenuti e periodizzazioni, si sono dimenticati della metodologia, della didattica e dell’esperienza educativa. Gli insegnanti sono stati, sostanzialmente, considerati incompetenti e ignoranti, incapaci di progettare il proprio lavoro.

L’inchiesta sugli insegnanti nella scuola che cambia, coordinata da Alessandro Cavalli, porta a dei risultati interessanti per questo discorso. Certamente, una parte consistente dei docenti in servizio esprime preoccupazioni per i cambiamenti, soffre della dequalificazione sociale del proprio ruolo e attende di andare in pensione, ma una parte altrettanto consistente si impegna nell’innovazione, svolge con impegno il proprio lavoro e può diventare parte trainante di una riforma convincente, di cui comunque sente urgentemente il bisogno.

La scuola è, dunque, una macchina complessa, un’istituzione, in cui, oltre alle leggi e alle norme, hanno una funzione determinante dirigenti, docenti, studenti e famiglie ed anche i riflessi dei mutamenti sociali. E, mancando la riforma, soprattutto la scuola superiore non riesce più a rispondere alle nuove esigenze culturali e professionali; pertanto il richiamo al mondo classico, e quindi al vecchio liceo di élite formatore della futura classe dirigente, risulta gravemente arretrato e, in certo senso, antistorico.

Un dato positivo va, però, sottolineato nel dibattito politico e culturale intorno alla riforma, quello di aver posto al centro, dopo molti anni di silenzio e di marginalità, il "problema – scuola " e in specifico di aver aperto la discussione sui contenuti, sulle valenze formative e sulle finalità dello studio della storia, particolarmente della storia contemporanea.

La battaglia di retroguardia, parte integrante e importante dell’ultima campagna elettorale, sul vecchio modello di periodizzazione storicista della storia e sul superato modello di liceo classico (che anche senza riforma organica ha subito alcune modificazioni di aggiustamento interno) ha trovato molti sostenitori in diversi ambienti ed ora il suo grande interprete politico nel futuro Ministro.

In questa situazione, credo che sarebbe culturalmente utile che l’Istituto nazionale e gli Istituti della resistenza, oltre a continuare il lavoro nell’ambito della ricerca e della documentazione, riflettessero sulla valenza del loro impegno civile, riprendendo il filo del discorso sull’impianto antifascista della Costituzione, sulla laicità dello Stato, sulla scuola pubblica e sulla riforma, sui diritti di cittadinanza.