La riforma Moratti: quale progetto formativo?

di Annabella Gioia
(Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza)

 

 

     Le critiche principali alla "riforma del sistema educativo" - Bertagna/Moratti - hanno messo l’accento sugli elementi che ne caratterizzano la filosofia generale: si è parlato molto di "aziendalizzazione" della scuola, di indebolimento del modello pubblico di istruzione, di confusione tra obbligo formativo e obbligo scolastico. E’ vero che la mobilitazione delle scuole non si è fatta attendere e che sono state apportate modifiche alla proposta iniziale, ma forse non si è riflettuto abbastanza su alcune questioni di fondo che, invece, avrebbero dovuto coinvolgere docenti, intellettuali e chiunque altro abbia a cuore il destino della scuola pubblica, la trasmissione del sapere e la formazione delle future generazioni.

     Prima ancora di attivare indagini Istat e opinion leader (vedi "gruppo Focus") o di mobilitare gli Stati generali, sarebbe stato prioritario convogliare il massimo di risorse culturali e ideali per delineare un nuovo modello educativo. Certamente questo grande investimento sulla scuola non è stato al centro del progetto/Moratti: fin dalle premesse esso ha infatti assunto, come sua motivazione principale, la necessità di "eliminare l’onda anomala". Questa ineffabile nuova espressione, che diventa il filo conduttore per scelte di fondo, altro non è che l’attuazione graduale, ma non semplice, del nuovo ciclo "primario" unico (elementare più media inferiore) proposto nella riforma Berlinguer/De Mauro, una riforma che, va ricordato, è legge dello Stato.

    Si ribadisce perciò la distinzione tra i due ordini di scuole, riportandole al loro modello tradizionale (5+3), in nome "dell’equilibrio tra senso della realtà e senso della possibilità". Ma, in diversi punti questa soluzione viene sottoposta a "correttivi" che ne contraddicono l’assunto: si propone infatti di raccordare l’ultimo anno delle elementari al primo della media nel contesto di una macchinosa articolazione di controlli biennali. Si sottolinea inoltre l’utilità di lavorare nelle "zone di confine" tra i cicli, al fine di "ridurre le demarcazioni tra di loro" per prevedere, in un ipotetico futuro, una diversa riorganizzazione del sistema (si prefigura addirittura un estemporaneo modello di 6+6: 5 anni di elementare e prima media, per collegare poi i restanti 2 anni di media inferiore ai 4 di superiore).

    Nello stesso testo viene sostenuta la positività degli attuali "istituti comprensivi" che, come è noto, prefigurano nei fatti il collegamento tra i diversi cicli per mezzo di piani di studio unitari e progressivi. Tutto questo sembra francamente in contraddizione con la "salvaguardia" della separazione tra scuola elementare e media: un assunto che, del resto, non trova alcuna motivazione educativa o filosofica nel testo/Bertagna e sul quale invece ci sarebbe molto da riflettere. Per esempio, se si tiene conto dei diversi contesti in cui oggi avviene il processo di apprendimento, se si guarda al ruolo delle tecnologie e di tutto ciò che interferisce con l’istruzione tradizionale, rendendo diversi i tempi e le modalità dell’imparare, riesce veramente difficile giustificare il rifiuto di un ciclo unico primario di sette anni. Una scelta che viene rafforzata anche dalla precoce maturazione degli studenti che arrivano molto prima all’età dell’adolescenza.

    L’impianto del nuovo progetto è rivolto invece a salvaguardare la tradizione e una scuola che sembra trovare il suo significato e la sua essenza formativa principalmente nell’enfatizzazione del ruolo dell’istruzione elementare e della famiglia. Ma quale scuola del futuro si potrà costruire se manca una scelta culturale e ideale capace di sostenerla?

    Nel testo/Bertagna c’è in più parti un richiamo alla riforma della media del 1962, il cui senso viene contemporaneamente stravolto dalla riproposta separazione tra istruzione generale e formazione professionale. Stupisce ancora di più il riferimento alle parole di don Milani, usate contro don Milani, per affermare un malinteso concetto di "equità formativa". La differenziazione dei percorsi scolastici viene, infatti, presentata come soluzione per rendere equo ciò che è diseguale. C’è pertanto una sorta di rinuncia, da parte della scuola, a creare condizioni capaci di attenuare gli svantaggi sociali, mentre, come è noto, la scuola di Barbiana proponeva più strumenti, più tempo e più istruzione per i "diseguali".

    Nella proposta ministeriale si rimanda ad altri la soluzione del problema: si teorizza che l’emarginazione sociale, la causa degli insuccessi scolastici, va rimossa per mezzo di mirate politiche sociali (creare lavoro, stimolare l’imprenditorialità delle famiglie, bonificare i tessuti urbani degradati ecc..).

    E’ previsto anche un complicato sistema di controlli biennali - schede di valutazione, di orientamento e standard nazionali - per verificare l’apprendimento degli allievi e per la funzionalità del sistema, (un meccanismo, peraltro, superfluo se viene poi rimandata all’università, al momento dell’immatricolazione, la verifica della preparazione finale). Tuttavia, l’idea forte per ripristinare la qualità degli studi rimane, in ultima analisi, la vecchia distinzione tra indirizzo liceale e formazione professionale.

    Abbandonare la scelta del biennio unico, obbligatorio per tutti fino ai 16 anni, è una responsabilità grave perché costringe a scegliere precocemente, a 14 anni, il percorso di studi, ma soprattutto perché vanifica la prospettiva di elevare il livello culturale di tutti e di adeguare il sistema scolastico alle sfide della società complessa. Al contrario, l’orientamento sembra essere quello di "alleggerire" il corso degli studi: diminuiscono le discipline e le ore di lezione al punto da intravedere e sospettare uno strisciante disegno di descolarizzazione. C’è anche la possibilità d’integrare i diversi percorsi di studio: obbligatori, facoltativi ed extrascolastici, ma si tratta di una proposta indeterminata e preoccupante perché gli interlocutori esterni sono, ancora una volta, la famiglia e altre generiche "istituzioni sociali", definite "risorse educative e culturali" per gli allievi. In questo caso, la scuola avrebbe il compito di certificare i crediti formativi, ma non è dato sapere in quale prospettiva e in quale itinerario formativo. Se è vero che le istituzioni scolastiche sono state per lungo tempo chiuse e impermeabili agli stimoli esterni, in particolare alle nuove forme di diffusione del sapere e della cultura, non sembra tuttavia questa la prospettiva per ripensare il rapporto della scuola con la società. Ben altri dovrebbero essere i termini della riflessione e ben altra dovrebbe essere la proposta culturale e formativa se si vuole una riforma che renda la scuola un interlocutore autorevole di fronte ad una realtà sociale in rapida e profonda trasformazione.