Nel sito di Webscuola.tin.it:

http://www.webscuola.tin.it/professione/editoriale/index.shtml
è stato pubblicato di recente il seguente intervento di Peppino Ortoleva

Le lezioni utili di una polemica pretestuosa

di Peppino Ortoleva

La controversia che si è aperta nella seconda settimana di novembre attorno ai manuali di storia contemporanea rischia di sparire dalle pagine dei giornali rapidamente e senza lasciare traccia, come repentinamente e in modo imprevisto è scoppiata. E forse, nonostante si sia trattato di una polemica violenta nei toni quanto superficiale e spesso del tutto pretestuosa nei contenuti, sarebbe un peccato: perché il modo stesso in cui si è svolta, e i temi che ha sollevato, possono prestarsi a riflessioni non effimere.

(Poiché l'obiettività piena è difficile ma la trasparenza è un dovere, è bene comunque, e preliminarmente, che il lettore sia informato. Chi scrive non è né può essere al di sopra delle parti, in quanto è autore di un libro di testo che è stato citato da vari giornali tra i manuali "incriminati". Questo però non dovrebbe impedirgli di potersi formare ed esprimere sul tema un'opinione meditata ed equanime e neppure, si spera, di chiedere a chi lo legge un'attenzione, naturalmente critica, a quella opinione).

Tutta la discussione si è concentrata sulla legittimità della proposta di una commissione d'inchiesta sui libri di testo, spesso con toni decisamente eccessivi da entrambe le parti, che si sono reciprocamente accusate di volontà censoria e (com'era da aspettarsi) hanno colto ancora una volta l'occasione per etichettare l'avversario rispettivamente come fascista o come comunista.

Con il passare dei giorni, comunque, è stato ammesso abbastanza pacificamente da tutti o quasi che le commissioni regionali di controllo sarebbero quanto meno inopportune. Comporterebbero infatti un ampliamento delle interferenze di un potere politico in materia di stampa: cosa che, dal Settecento in poi, ci è stato insegnato a temere; e rischierebbero, in un'Italia attraversata da pulsioni localistiche e regionalistiche, di legittimare una sorta di balcanizzazione della storia patria. Potrebbero inoltre favorire forme di auto-censura esiziali per il buon insegnamento: cioè l'adozione di testi e di posizioni fintamente neutrali che evitano per principio ogni controversia anziché sforzarsi di mettere in luce l'importanza e la varietà dei diversi punti di vista.

Ciò non toglie che la discussione su come si impara la storia a scuola abbia evidentemente toccato qualche nervo scoperto.

1 . Esiste in una parte dell'opinione pubblica italiana una diffidenza diffusa verso il ceto insegnante, considerato omogeneamente schierato e interamente segnato da alcune esperienze, il '68 prima di tutto, che per alcuni sono una sorta di imprinting culturale, per altri un peccato originale. E' una diffidenza ovviamente eccessiva: il ceto insegnante è assai meno omogeneo, sul piano politico e culturale, di quanto molti ritengano, e solo una minoranza neppure troppo massiccia è stata direttamente toccata da esperienze di militanza politica. Ma allude a un problema innegabile.
Il sistema educativo è per definizione una realtà intergenerazionale, in quanto gli insegnanti devono essere più anziani degli allievi. Ma è anche un bene che i docenti stessi appartengano a più generazioni, sia per favorire negli allievi un contatto con una varietà di esperienze di vita, sia per consentire tra chi insegna lo scambio e il confronto di punti di vista differenti. Il fatto che nella scuola italiana il corpo docente abbia un'età media nel complesso assai alta (oltre i 50) e che la presenza di docenti giovani sia molto ristretta è un male da combattere in sé, non solo perché alcuni dei pregiudizi contro gli insegnanti su cui ha fatto leva la polemica sui libri di testo vi trovano parziale giustificazione.

2 . Uno degli aspetti più deprimenti della controversia sta nel modo in cui è stata seguita da stampa e televisione. Si sono lette pagine e pagine di dichiarazioni dei politici e di citazioni dai libri di testo (spesso non verificate direttamente ma riprese dalle pubblicazioni di gruppi e organismi vari), ma una scarsissima disponibilità sia al controllo delle fonti, sia all'approfondimento. E poi, finito il momento della polemica più intensa, si è constatata una scarsissima disponibilità a tornare sul tema in termini più pacati. Si dirà che non è niente di nuovo in una stampa pochissimo abituata a condurre vere inchieste, come è ormai la nostra. Ma in questo caso la superficialità di molti organi di stampa è risultata superiore alla media.
Così, ad esempio, ben pochi si sono accorti che il materiale su cui si basavano le accuse mosse da AN è vecchio di qualche anno, ed era già stato oggetto di polemiche giornalistiche a metà del decennio: nessuno dei libri di testo usciti dopo di allora è stato citato, e non certo perché siano tutti più "imparziali" di quelli incriminati; in molti casi le citazioni riprese dai giornali si riferivano a edizioni non più in commercio.
Così, inoltre, solo l'intervento di un'insegnante intelligente sul Foglio ha ricordato quello che tutti dovrebbero sapere, cioè che il silenzio sui massacri postbellici di italiani in Slovenia e Croazia non è stato voluto solo dal PCI (come sostenuto dai polemisti della destra), ma -a partire dallo "strappo" di Tito da Stalin- anche dai partiti filo-atlantici, per i quali il regime jugoslavo rappresentava un importante strumento per il contenimento dell'espansionismo sovietico.
Gli errori di superficialità e a volte di ignoranza che hanno infiorato i resoconti giornalistici della polemica di novembre sono in realtà solo una conferma di qualcosa che già sapevamo. La stampa e la televisione italiane si interessano alla scuola essenzialmente quando "dà scandalo", o è oggetto di polemica, mentre sono assai più avare di informazioni seria su un tema che pure tocca come pochi altri la grande maggioranza delle famiglie.
In un momento di grande disorientamento dell'opinione pubblica nei confronti di un'istituzione scolastica che appare soggetta a pressioni contraddittorie e che è stata ultimamente oggetto di molte iniziative bene intenzionate ma frettolose, l'incapacità dei mezzi di informazione di seguirne la vita in modo puntuale e continuativo può allargare il senso di confusione e spaesamento anziché aiutare a correggerlo.

3 . Vi è infine un problema specifico, e assai serio, che riguarda la storia contemporanea e il suo ruolo nella scuola.
Nata con lo Stato nazionale, la scuola pubblica ha dall'Ottocento fino alla seconda guerra mondiale insegnato la storia più recente anche, a volte soprattutto, come parte della "religione civile", come grande racconto condiviso dell'identità nazionale. Nel periodo tra le due guerre, soprattutto ma non esclusivamente nei paesi totalitari, inclusa l'Italia, questa funzione della storia contemporanea è diventata propriamente propagandistica, raccordandosi all'ideologia del partito unico o delle forze politiche dominanti. Ciò ha portato dopo l'ultima guerra, in un primo tempo a una sorta di diffusa censura sul Novecento in quanto tale, poi a partire dai tardi anni Sessanta a un diverso orientamento.
In un mondo nel quale il "politeismo dei valori" sembrava minacciare ogni possibile morale condivisa, proprio la storia recente, con l'esperienza dell'azione sistematica di sterminio da parte del nazismo, pareva offrire un possibile fondamento per un' etica comune: mai più Auschwitz. L'insegnamento del Novecento ha assunto così spesso tinte diverse dal resto della storia, in quanto gli era affidato il compito di designare e perpetuare la memoria di una sorta di esperienza metafisica, quella del male assoluto.
Si trattava, naturalmente, di una forzatura in quanto anche il nazismo è stato un'esperienza umana, assai più "banale" e meno demoniaca di quanto spesso ci si aspetti prima di studiarla; ma di una forzatura che pareva rispondere a un'esigenza profonda. Da questo punto di vista, più che di libri "imparziali" abbiamo bisogno di testi più profondi di quelli che finora hanno circolato. Ma polemiche come quella che abbiamo appena vissuto non favoriscono certo la profondità, bensì il gioco facile degli schieramenti. E resta in ogni caso un interrogativo. Una volta accettata, come è inevitabile, la natura umana e non demoniaca di tutte le esperienze del secolo, inclusi i totalitarismi, dobbiamo rinunciare del tutto a individuare fondamenti etici comuni?

Peppino Ortoleva
Insegna Media all'Università di Siena ed è fra i titolari di Cliomedia, società che lavora al confine tra ricerca storico-sociale e multimedialità. Consigliere di amministrazione della Scuola nazionale di cinema, è autore tra l'altro di
Mediastoria (1997) e di Un ventennio a colori. Televisione privata e società in Italia (1995).